| Punto diplomatico. Gli ultimi giorni di 
              Arafat? 
 Arafat ha i giorni contati? E’ questa la domanda che si pone la 
              stampa internazionale, mai così univoca come in questi giorni. 
              Come una sol copertina, i maggiori settimanali occidentali 
              s’interrogano sul futuro del leader palestinese, ritenuto ormai 
              incapace di gestire una situazione che gli sta sfuggendo di mano. 
              Time, The Economist, Le Nouvelle Observateur analizzano i 
              fallimenti della politica di Arafat e individuano nel rifiuto di 
              sottoscrivere gli accordi voluti da Clinton il peccato mortale 
              della sua carriera politica. Certo è che dopo gli ultimi attentati 
              palestinesi nei territori occupati (che hanno aggiunto dieci morti 
              alle vittime di questa nuova ondata terroristica) ad Arafat è 
              venuta meno anche la stampella di Peres, il ministro laburista del 
              governo Sharon che fino all’ultimo ha cercato di mantenere un filo 
              di collegamento. Con Arafat abbiamo chiuso, non conta più nulla e 
              non rappresenta più nessuno, ha detto senza troppi giri 
              diplomatici il ministro degli Esteri israeliano, sottolineando poi 
              che il fatto di aver chiuso i rapporti con Arafat non significa 
              che Israele lo vuole uccidere.
 
 Resta dunque assai difficile il compito dell’ultimo mediatore 
              statunitense Anthony Zinni che ha avuto da Bush il mandato di 
              riannodare il filo del dialogo tra le due parti e si è trovato nel 
              bel mezzo della recrudescenza degli scontri. In realtà gli 
              americani cercano ancora di calmare le acque: "Arafat rimane il 
              capo dell'Autorità nazionale palestinese e gli Usa vogliono 
              continuare a negoziare con la sua dirigenza", ha detto a Damasco 
              il vicesegretario di Stato Williams Burns. Ma il tempo pare 
              scaduto e anche a Washington, alla fine, dovranno prenderne atto. 
              Resta indubbio che il dopo Arafat, qualora dovesse aprirsi, resta 
              buio e incerto. E tutti gli scenari, anche i più cruenti, sono 
              possibili.
 
 Medio Oriente a parte, l’altra area che comincia ad essere sotto i 
              riflettori degli americani è l’Africa. La seconda fase della 
              guerra al terrorismo, chiusa con successo la vicenda afgana, 
              potrebbe vedere gli alleati impegnati proprio nel continente 
              africano. Le attenzioni si appuntano sulla Somalia, dove sono 
              presenti cellule terroristiche legate a bin Laden. Le reti di 
              Al-Qaeda e del gruppo Al Itihaad, che collaborano assieme, vengono 
              tuttavia ritenute dagli Usa deboli e potrebbero essere annientate 
              con un uso contenuto della forza. A rilevarlo è stato il Wall 
              Street Journal che ha citato un rapporto segreto di Cia e 
              Pentagono, secondo il quale non sarebbe necessario un massiccio 
              dispiegamento di truppe Usa e alleate (e dunque anche italiane) 
              per colpire i terroristi. Basterebbero operazioni mirate che 
              potrebbero essere condotte a Nord con l’aiuto dell’Etiopia e a Sud 
              del Kenya. Sempre secondo fonti americane è invece concreta la 
              possibilità che terroristi di Al-Qaeda in fuga dall’Afghanistan 
              possano trovare riparo in Somalia, una terra in preda al caos 
              politico. Anche per evitare questo proseguono le fughe di notizie 
              su un possibile attacco in Somalia: una specie di deterrenza che 
              gli americani sperano possa sortire l’effetto desiderato. 
              (p. men)
 
 14 dicembre 2001
 
 
   
              
 
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