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      L’impero prossimo venturodi Robert Cooper
 
 1.  
      Da uno a molti, il 
      tramonto degli imperi
 2.
       Integrazione economica e 
      disgregazione politica
 3.
       Globalizzazione e nuovo 
      impero possibile
 4.
       L’ipotesi epocale di una 
      grande Confederazione
 5.
       Un ruolo imperiale per 
      l’Unione Europea?
 
        
        Robert Cooper, consigliere diplomatico di Tony Blair, ha realizzato per la 
      rivista inglese Prospect un lungo saggio di analisi sugli scenari 
      internazionali, sostenendo una tesi provocatoria: il ritorno dell’impero 
      come modello di ordine politico. La sua proposta ha suscitato un ampio 
      dibattito nel mondo politico e culturale europeo. La rivista Ideazione 
      pubblica in esclusiva la traduzione italiana del saggio di Cooper. 
      Emporion la riprende per offrire ai lettori un approfondimento autorevole 
      sul tema trattato in questo numero.
 Da uno a molti, il tramonto degli 
      imperi
 “Imperialismo”, “impero”, “imperiale” sono parole che nel peggiore 
      dei casi hanno acquistato un significato ingiurioso e nel migliore una 
      valenza quasi arcaica, diventando curiosità storiche. Sembra proprio che 
      ormai gli imperi appartengano al passato: sono scomparsi, lasciando dietro 
      sé soltanto poche rovine, qualche moneta, alcune leggi e, occasionalmente, 
      una strada. Gli imperi hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia 
      dell’uomo. Dai sumeri ai babilonesi, dagli egiziani agli assiri, da 
      persiani e greci a romani e bizantini, dalle dinastie cinesi a quelle 
      carolinge, dal Sacro Romano Impero agli imperi dei Mongoli e degli 
      Asburgo, dalla dominazione degli spagnoli a quella dei portoghesi, degli 
      inglesi, dei francesi, degli olandesi e dei tedeschi fino ai sovietici, 
      senza contare tutti quelli che non abbiamo menzionato, la storia del mondo 
      sembra essere una lunga successione di imperi. O forse sarebbe più 
      corretto dire “sembra essere stata”, in quanto uno dei cambiamenti più 
      sorprendenti avvenuti in un secolo eccezionale come quello che si è appena 
      concluso è stata la loro scomparsa quasi totale. All’inizio del XX secolo, 
      il mondo pullulava di grandi imperi, tutti svaniti nel giro di cento anni. 
      Persa la prima guerra mondiale, l’impero austro-ungarico, quello tedesco, 
      quello russo e quello ottomano si sono disintegrati. Kemal Atatürk vide 
      nella fine dell’impero ottomano l’occasione di creare uno Stato turco 
      nazionale e moderno (ed europeo), proprio come, in precedenza, la nascita 
      di Stati nazione in Italia e in Norvegia, ed in parte anche in Germania, 
      era stata salutata come la fase iniziale di un processo di 
      modernizzazione. La traduzione del Corano in turco, voluta da Atatürk, 
      richiama alla mente la Bibbia di Lutero, che, secoli prima, aveva 
      contribuito a restituire ai tedeschi una coscienza nazionale.
 
 La prima guerra mondiale non soltanto distrusse due imperi europei, ma 
      stabilì anche, con i quattordici punti di Wilson, il principio di 
      autodeterminazione dei popoli, che provocò nell’Europa centrale, là dove 
      agonizzavano i quattro imperi (tedesco, russo, austroungarico ed 
      ottomano), la nascita di tutta una serie di Stati nazione dimostratisi 
      poi, nella maggior parte dei casi, deboli e mal governati. Dopo la guerra 
      venne anche istituito lo Stato libero d’Irlanda, che pose fine a secoli di 
      dominazione britannica nell’isola. Infine, negli anni Trenta, gli Stati 
      Uniti applicarono a se stessi il principio di autodeterminazione, 
      concedendo l’indipendenza alle Filippine.
 
 La seconda grande fase della decolonizzazione ebbe inizio con la seconda 
      guerra mondiale, quando il Giappone sconfisse successivamente Inghilterra, 
      Francia e Olanda, demolendo definitivamente il mito della superiorità 
      occidentale su cui si fondavano gli imperi europei in Asia e che era già 
      stato pericolosamente minato dal gandhismo. Gli inglesi, il cui impero era 
      dovuto in parte al caso, decisero semplicemente di andarsene, mentre i 
      francesi, che avevano creato il loro con le armi, lottarono per cercare di 
      salvarlo: alla fine, il risultato fu il medesimo. Quando poi le spese per 
      il mantenimento degli imperi divennero troppo onerose per le nazioni 
      dominatrici ed il principio di autodeterminazione si fece strada anche 
      all’estero, la decolonizzazione ebbe inizio anche in Africa. In 
      Portogallo, la rivoluzione del 1974, nata dal malcontento popolare dovuto 
      al peso economico delle guerre coloniali, causò la disgregazione 
      dell’impero. Infine, nel 1989, la fine della Guerra Fredda non soltanto 
      pose termine alla dominazione sovietica nell’Europa dell’est, ma provocò 
      anche il successivo collasso dell’Unione Sovietica, impero interno della 
      Russia. La decolonizzazione fu un ultimo atto imperialista. Cardine 
      dell’imperialismo è l’imposizione di leggi e sistemi amministrativi propri 
      di un altro paese: le ex colonie si ritrovarono con strutture tipiche di 
      uno Stato nazione, in molti casi del tutto estranee alle tradizioni 
      amministrative locali. Alcune popolazioni hanno conosciuto secoli di 
      dominazione straniera: per loro, la decolonizzazione potrebbe essere stata 
      un atto ancora più imperialista della dominazione stessa, un’ultima 
      imposizione da parte degli ultimi dominatori.
 
 Gli imperi sono davvero scomparsi per sempre? Difficile dirlo. A volte è 
      possibile identificare un impero come tale soltanto dopo che si è 
      disintegrato. Ora che c’è stata la separazione, riconosciamo che la 
      presenza inglese in Irlanda altro non era che una dominazione, ma se la 
      campagna di Gladstone per un governo autonomo non avesse avuto successo, 
      oggi l’Irlanda avrebbe fatto parte di una diversa Inghilterra, invece di 
      essere un’ex colonia. Il modo in cui Cina, India ed Indonesia verranno 
      considerate dalle prossime generazioni dipende da come verranno governate 
      e da cosa riserva loro il futuro.
 
 Il mondo degli imperi, che risale alla notte dei tempi e che ancora 
      prosperava all’inizio del XX secolo, è diventato, cento anni dopo, un 
      mondo di Stati nazione. Paragonato all’impero, lo Stato nazione è un 
      concetto relativamente nuovo: i piccoli Stati cominciarono ad emergere nel 
      Rinascimento e le nazioni assunsero un ruolo politico rilevante soltanto 
      nel XIX secolo. Da allora, lo Stato nazione ha rappresentato un fenomeno 
      limitato, circoscritto ad un’area particolare del globo che, non a caso, è 
      stata anche la più dinamica. Tuttavia, la totale assenza di imperi 
      costituisce una situazione senza precedenti. La domanda che ora ci poniamo 
      è se si tratti o meno di una situazione duratura.
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 Integrazione economica e 
      disgregazione politica
 Esistono motivazioni teoriche e pratiche che ci fanno propendere 
      per una risposta negativa. Lo Stato nazione si è dimostrato un potente 
      strumento di crescita e modernizzazione, ma non per questo va ritenuto il 
      fondamento sul quale basare l’organizzazione del mondo intero. Delle due 
      motivazioni, quella teorica poggia sul fatto che non esiste una 
      definizione chiara e precisa del concetto di nazione. Se le nazioni 
      fossero qualcosa di fisso, come, ad esempio, la configurazione geografica, 
      si potrebbe tracciare una mappa del mondo che divida in modo certo i vari 
      popoli in Stati nazioni, proprio come, in passato, le monarchie ereditarie 
      europee speravano di sfruttare i confini naturali come confini 
      territoriali per i propri Stati. Sfortunatamente, fondare una nazione non 
      è così semplice. “Ora che abbiamo creato l’Italia”, si disse dopo la 
      cacciata degli austriaci “dobbiamo creare gli italiani” e, in effetti, 
      all’epoca soltanto il due per cento della popolazione parlava quello che è 
      l’italiano attuale. La lingua Yoruba (e in un certo senso anche il popolo 
      Yoruba) nacque ad opera dei missionari, che tradussero la Bibbia 
      standardizzando i dialetti locali, proprio come Lutero aveva fatto in 
      Germania. La stessa Nigeria è stata creata a tavolino dalle potenze 
      europee nel corso del Congresso di Berlino. Se avesse avuto un governo 
      migliore, oggi la Jugoslavia forse sarebbe ancora una nazione unica ed il 
      serbo-croato una lingua sola invece di due (o tre, dato che i bosniaci ne 
      stanno elaborando una loro versione). Gli irlandesi sono una o due 
      nazioni? Potremmo chiederci la stessa cosa dei gallesi. E bretoni, baschi 
      e catalani sono anche loro nazioni? E il popolo arabo? Quante nazioni ci 
      sono in Sud Africa? Anche i giapponesi, nonostante la forte identità 
      nazionale che li contraddistingue, hanno evitato la secessione soltanto 
      grazie alla restaurazione Meiji. Gli esempi potrebbero essere infiniti, ma 
      la conclusione è chiara: la nazione è spesso una creazione dello Stato (ed 
      in particolar modo del ministero della Pubblica istruzione).
 
 Se la nazione viene creata, anche solo parzialmente, dallo Stato, allora 
      non possiamo dire che gli Stati devono essere definiti dalle nazioni. Le 
      conseguenze di questa affermazione si stanno palesando man mano che sempre 
      più gruppi decidono di staccarsi e formare nuovi Stati. Chi può 
      impedirglielo? Inoltre, esiste un altro problema pratico: i gruppi etnici 
      o linguistici non sempre vivono in aree geografiche ben delimitate. 
      Succede quasi sempre che all’interno degli Stati nazione si trovino anche 
      delle minoranze. Uno Stato basato sui concetti di nazionalità e di 
      identità nazionale tende naturalmente ad escludere le minoranze e quindi, 
      spingendo il ragionamento all’estremo, a cercare di eliminarle. Perché 
      mai, allora, le minoranze non dovrebbero godere del diritto 
      all’autodeterminazione, dato che è la stessa definizione di Stato nazione 
      ad indicare chiaramente che non ne fanno realmente parte?
 
 Oggi l’impiego di misure repressive nei confronti di gruppi che decidono 
      di avvalersi del principio di autodeterminazione non viene visto di buon 
      occhio e si tende a sostenere chi cerca di ottenere l’indipendenza. 
      Moltissime persone, per natura, non amano i governi; è quindi facile 
      convincerle che starebbero molto meglio sotto un diverso governo in uno 
      stato differente, più vicino alla loro identità etnica. Per i politici che 
      appoggiano questa causa, si profilano guadagni e soddisfazioni: la 
      possibilità di essere ricordati come padri della nazione (anche se 
      piccola), l’opportunità di governare a modo loro, probabilmente 
      l’allettante prospettiva, che si delinea ogni qual volta si dirige un 
      proprio Stato, di cedere alla corruzione, l’occasione di avere un ruolo 
      nella scena politica internazionale e la garanzia, almeno teorica, di 
      contare quanto gli Stati Uniti all’interno dell’Onu. Cosa può dunque 
      impedire la nascita di un numero sempre maggiore di Stati sempre più 
      piccoli?
 
 Paradossalmente, la crescente integrazione economica favorisce la 
      disgregazione politica. Al tempo delle economie nazionali e delle tariffe 
      protettive, le dimensioni di uno Stato erano importanti. Ma in un mondo 
      senza confini, che differenza può fare se un paese è grande o piccolo? 
      Certo, essere piccoli significa andare incontro a costi maggiori: 
      l’amministrazione è più dispendiosa, sebbene questo non sia sempre 
      evidente, e la sicurezza più incerta, il che potrebbe non essere 
      sufficiente a persuadere né chi vive in zone del mondo non devastate dalla 
      guerra né chi, in quanto minoranza, non si sente al sicuro neppure 
      all’interno del proprio paese. Negli ultimi cinquant’anni, il numero di 
      Stati esistenti e riconosciuti è aumentato enormemente: nel 1945 furono 51 
      le nazioni che firmarono la Carta dell’Onu; oggi le Nazioni Unite contano 
      189 membri. Non ci sarebbe da meravigliarsi se nei prossimi cinquant’anni 
      ne nascessero di nuovi.
 
 In un mondo di stati nazione, sorge anche un altro problema pratico: 
      numerose ex colonie sono caratterizzate da deboli identità nazionali, da 
      economie fragili e da istituzioni politiche tutt’altro che solide. Alcuni 
      di questi Stati, soprattutto in Africa, sono vicini al collasso. Altri, in 
      Asia centrale e sud-orientale e nel Pacifico meridionale, non sembrano 
      promettere bene. In parecchi casi, bisogna ammettere che autogoverno e 
      autodeterminazione hanno fallito. Cosa fare allora? In passato, la 
      soluzione sarebbe stata colonizzare, ma oggi mancano potenze coloniali 
      disposte a prendersi incarichi del genere. Per certi versi, la necessità 
      di un’autorità esterna è maggiore oggi di quanto non fosse, ad esempio, 
      nel XIX secolo. A quell’epoca, le popolazioni africane ed asiatiche erano 
      organizzate, in maniera abbastanza stabile, in società tradizionali basate 
      sui concetti di famiglia e di tribù. Questi vincoli vennero in un primo 
      tempo irrimediabilmente danneggiati da missionari e commercianti 
      occidentali ed in seguito definitivamente distrutti dall’istruzione, dalle 
      ideologie e dalla televisione. Ormai è impossibile tornare indietro. Non è 
      facile neanche andare avanti: gli Stati vicini al collasso traboccano di 
      armi, non sono in grado di far rispettare la legge ed i loro governi 
      cominciano ad assomigliare ad organizzazioni criminali. Alcuni autori 
      parlano di un “nuovo Medioevo”. L’incapacità di mantenere l’ordine annulla 
      qualsiasi possibilità di attrarre investimenti stranieri.
 
 Quelli che riescono ad entrare nell’economia globale fanno progressi: la 
      prosperità aiuta la stabilità e la stabilità attrae gli investitori. 
      Quelli che non ci riescono cadono in un circolo vizioso: il fallimento 
      economico mina il governo ed un governo debole significa incapacità di 
      mantenere l’ordine, il che vuol dire diminuzione degli investimenti 
      stranieri. Negli anni Cinquanta, il prodotto nazionale lordo pro capite 
      della Corea del Sud era inferiore a quello dello Zambia: di questi due 
      Stati, uno è riuscito ad entrare nell’economia globale e l’altro no. Non 
      c’è dunque da meravigliarsi se oggi i paesi più ricchi guadagnano l’86 per 
      cento degli introiti mondiali e ai paesi più poveri spetta soltanto l’1 
      per cento. Nel 1820, all’inizio dell’espansionismo coloniale ottocentesco, 
      il reddito degli Stati più ricchi era soltanto il triplo di quello degli 
      Stati più poveri. Ed è verosimile che il divario attuale continui ad 
      aumentare.
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 Globalizzazione e nuovo impero 
      possibile
 I paesi deboli nati dalla decolonizzazione non solo rendono la vita 
      impossibile ai propri cittadini, ma la complicano anche a tutti gli altri. 
      Non c’è bisogno di dilungarsi sulle mutilazioni praticate in Sierra Leone, 
      sull’oppressione delle donne – e non solo – in Afghanistan, sui genocidi 
      nei Balcani o sull’ingiustizia e sull’instabilità che regnano in molti 
      altri paesi. Per chi vive in condizioni simili, l’esistenza diventa 
      un’esperienza terrificante. Ma esistono rischi anche per chi non è 
      direttamente coinvolto: per gli investitori e, soprattutto, per gli Stati 
      confinanti, poiché la teoria dell’effetto domino, che si è rivelata errata 
      per il comunismo, potrebbe dimostrarsi valida per il caos. La Sierra Leone 
      destabilizza la Liberia (e viceversa), mentre l’Afghanistan contribuisce a 
      turbare l’equilibrio dell’Asia centrale.
 
 Sembrano esistere quindi tutte le condizioni necessarie alla nascita di un 
      nuovo imperialismo. Ci sono paesi che hanno bisogno di un’autorità esterna 
      per ottenere una stabilità interna. Ad esempio, di recente in Sierra 
      Leone, in occasione di una manifestazione, i dimostranti hanno chiesto il 
      ritorno degli inglesi. La stabilità interna costituisce una condizione 
      indispensabile per poter commerciare con le ex potenze coloniali. E 
      sebbene attualmente vi siano meno missionari rispetto al passato, esiste 
      una nuova classe di ausiliari: si tratta delle organizzazioni non 
      governative, che cercano di aiutare i bisognosi e predicano i diritti 
      umani, la religione secolare di oggi. I paesi più prosperi sono stati in 
      grado di dominare il mondo quando il loro reddito era soltanto tre volte 
      tanto quello dei paesi più depressi. Cosa impedirebbe loro di rifarlo 
      adesso che guadagnano 86 volte più di quello che incassano gli Stati più 
      poveri? Il fatto è che sono gli stessi princìpi che li hanno resi ricchi, 
      e cioè libero scambio, libertà di parola e rispetto delle leggi, ad essere 
      fondamentalmente antimperialisti. Invertendo il commento del custode del 
      castello di Macbeth, si potrebbe dire che i valori borghesi favoriscono 
      l’attuazione, ma impediscono il desiderio. I valori borghesi riassunti 
      dalla celebre massima di Deng Xiaoping, secondo la quale “diventare ricchi 
      è glorioso”, definiscono il successo in termini di potere d’acquisto e non 
      di sottomissione di popoli.
 
 Bisogna anche tener presente che i poveri di oggi non desiderano essere 
      colonizzati, a meno che non si verifichino condizioni estreme e, anche in 
      tal caso, soltanto per un breve periodo di tempo. Nel XIX secolo, invece, 
      furono molti i paesi che si offrirono alle potenze coloniali. Inoltre, da 
      allora la diffusione delle idee occidentali di libertà, uguaglianza e 
      fraternità ha smantellato a tal punto le società tradizionali da renderle 
      quasi del tutto incapaci di governare i propri paesi da sole, oltre che 
      riluttanti ad accettare una dominazione straniera. Per quanto riguarda 
      l’imperialismo, domanda ed offerta sembrano essersi quindi esaurite.
 
 Eppure un sistema in cui il più forte difenda il più debole, in cui il più 
      efficiente e meglio governato esporti stabilità e libertà, in cui si possa 
      investire e ci si possa espandere nel mondo intero senza alcun rischio 
      possiede caratteristiche decisamente attraenti. E anche se numerosi imperi 
      non presentavano queste qualità, molto spesso erano meglio del caos e 
      della barbarie che avrebbero regnato al loro posto. In luoghi e periodi 
      particolari (i secoli che ci separano dall’impero romano e da quello 
      ateniese ci permettono di vedere le cose in prospettiva), il regime 
      imperiale ha persino aiutato la diffusione della civiltà. Ma in un mondo 
      di diritti umani e valori borghesi, l’imperialismo dovrebbe comunque 
      assumere una forma del tutto nuova, completamente diversa da quella che il 
      mondo ha conosciuto in passato. Possiamo forse già cominciare ad intuirne 
      alcune caratteristiche. Ne esistono due forme diverse: l’imperialismo 
      della globalizzazione e l’imperialismo degli Stati confinanti. Entrambi, 
      in armonia con lo spirito dei tempi, sono il risultato di una libera 
      scelta. Impero vuol dire controllo, in primo luogo sugli affari interni: 
      nella letteratura accademica, viene contrapposto all’egemonia, che 
      consiste esclusivamente nel controllo degli affari esteri. Ecco perché 
      l’ingerenza di altri paesi nella propria politica interna causa tanto 
      risentimento: dà all’indipendenza un che di sottomissione.
 
 Eppure, se i paesi in difficoltà vogliono riguadagnarsi un posto 
      all’interno dell’economia globale, attrarre investitori e tornare a 
      prosperare, sono proprio gli affari interni ad aver bisogno di essere 
      amministrati nel modo migliore. Le condizioni per i prestiti stabilite dal 
      Fondo monetario internazionale (Fmi) vertono quasi tutte sulla gestione 
      dell’economia e della politica interne. Se le accettano, gli Stati che 
      rischiano di rimanere indietro o di essere esclusi dall’economia globale 
      ricevono in cambio degli aiuti, non soltanto dal Fmi, ma anche dai governi 
      delle nazioni ricche e da Wall Street. Oggi come oggi, questi aiuti 
      riguardano sempre meno la costruzione di strade e dighe; si tende invece a 
      ritenere che un buon governo ed un’amministrazione efficiente siano 
      fondamentali per lo sviluppo. Ecco perché molti programmi di assistenza 
      vertono sulla struttura organizzativa e sulla gestione del paese che viene 
      supportato: sono le cosiddette clausole di buon governo.
 
 In cosa differiscono queste clausole dai provvedimenti presi da Lord 
      Cromer, insieme ad altri, in Egitto? A partire dal 1875, un delegato degli 
      obbligazionisti inglesi verificava le entrate del governo egiziano, mentre 
      sulle uscite vigilavano rappresentanti del governo francese. Il controllo 
      del finanziamento del debito estero era affidato ad un comitato 
      internazionale, che stabiliva quale tasso di cambio dovesse essere 
      concesso al governo. Tutto questo non ricorda forse molto da vicino alcuni 
      dei programmi più rigidi dell’Fmi? Esiste tuttavia una differenza 
      fondamentale: quando un nuovo governo egiziano minacciava di ignorare le 
      direttive che gli erano state date, l’Inghilterra non rinegoziava le 
      condizioni né arrivava ad annullare gli aiuti finanziari, come potrebbe 
      fare oggi l’Fmi; inviava piuttosto il generale Wolseley alla testa di 
      31mila uomini con l’ordine di ripristinare il vecchio governo, ristabilire 
      l’ordine e, naturalmente, riportare la disciplina in campo finanziario.
 
 Ispirandosi al piano di Lord Cromer per l’Egitto, questo nuovo 
      imperialismo liberamente accettato, che sta cominciando a prendere forma 
      nel mondo attuale, potrebbe sistemare dei consiglieri nei ministeri più 
      importanti del paese. Ma senza violenza: si tratterebbe soltanto di 
      accordi economici. Nessuno deve sottostare a questi programmi contro la 
      propria volontà. Coloro che decidono di accettarli liberamente ne potranno 
      beneficiare. Al giorno d’oggi, l’intervento esterno deve anche essere 
      limitato nella durata e nell’entità. Trattandosi di una libera scelta, 
      forse non è neanche corretto definirlo imperialismo, in quanto la 
      sovranità non viene persa, ma soltanto concessa in prestito 
      temporaneamente. Nonostante questo, i rapporti tra gli Stati implicati 
      assomigliano molto a quelli che caratterizzavano gli imperi del passato: 
      ancora una volta ritroviamo un paese più forte ed uno più debole, di cui 
      viene gestita la politica interna.
 [torna al sommario]
 
 L’ipotesi epocale di una grande 
      Confederazione
 Nei classici (Lenin, Schumpeter, Hobson), l’imperialismo viene 
      associato ad un interesse economico: commercio e bandiera procedono di 
      pari passo o si seguono molto da vicino. Non c’è quindi da meravigliarsi 
      se in un’economia globale ritroviamo istituzioni di livello mondiale, 
      caratterizzate da anonimato e obiettività ed in grado di rendere il mondo 
      più sicuro per gli investitori. E proprio poiché l’epoca in cui viviamo è 
      iniziata con la fine dell’imperialismo, il controllo che esercitano è 
      moderato, temporaneo e liberamente accettato.
 
 Una seconda forma di questo nuovo imperialismo è quello degli stati 
      confinanti. Instabilità e cattiva amministrazione non attraggono gli 
      investitori, ma se sono i paesi confinanti a presentare questi problemi le 
      ripercussioni sull’economia di uno Stato possono essere ancora più 
      pesanti. La cosa più sorprendente oggi è che gli Stati Uniti non sono la 
      prima potenza imperiale al mondo, pur occupando, da un punto di vista 
      militare, politico, commerciale e culturale, una posizione predominate che 
      vede nell’egemonia dell’impero romano il suo unico precedente storico. 
      Avendo pochi paesi confinanti, gli Stati Uniti sono fondamentalmente 
      interessati alla forma più moderata del nuovo imperialismo: fornire 
      assistenza attraverso organizzazioni multilaterali. Il Messico sta facendo 
      progressi e, grazie all’intervento del Nafta, potrebbe migliorare ancora. 
      La situazione nei Caraibi ed in Colombia comincia a farsi preoccupante, ma 
      per adesso gli Stati Uniti, malgrado la grande ricchezza e l’enorme potere 
      di cui dispongono, possono ancora permettersi di non imbarcarsi in 
      un’impresa di tipo imperialistico, sebbene non sia da escludere la nascita 
      di un’area di libero scambio che comprenda entrambe le Americhe.
 
 Per l’Europa, il discorso è diverso. A est dell’Unione Europea, ci sono 
      numerosi Stati che hanno raggiunto un’indipendenza completa soltanto di 
      recente. Molti stanno facendo progressi, ma i rischi che corrono i paesi 
      deboli sono enormi. Un esempio? Guardate cosa è successo nei Balcani: 
      negli ultimi dieci anni, una mescolanza di malgoverno, criminalità e odio 
      etnico, spesso del tutto indistinguibili l’uno dall’altro, non soltanto 
      hanno oltraggiato la coscienza dei paesi ricchi, ma hanno anche causato 
      pesanti costi alle altre nazioni europee di provata stabilità. Nei Balcani 
      fioriscono il traffico di droga ed il contrabbando. Il business 
      dell’immigrazione clandestina, in particolare, è uno dei più redditizi: i 
      cinesi trovati morti nel porto di Dover arrivavano da Belgrado. La 
      violenza ha raggiunto i suoi massimi livelli in Bosnia ed in Kosovo, 
      entrambi attualmente protettorati dell’Onu, ognuno dei quali gestito da un 
      Alto funzionario con poteri più o meno ampi. Non c’è da meravigliarsi se 
      entrambi gli Alti funzionari sono europei: l’Europa fornisce la maggior 
      parte degli aiuti che giungono alla Bosnia e al Kosovo, oltre a gran parte 
      dei soldati che servono a mantenervi l’ordine, anche se bisogna 
      riconoscere che la presenza americana costituisce un indispensabile 
      fattore di stabilizzazione. Inoltre, con una decisione senza precedenti, 
      l’Unione Europea ha offerto ai paesi della ex Jugoslavia il libero accesso 
      al proprio mercato di tutti i loro prodotti, compresa la maggior parte di 
      quelli agricoli.
 
 La comunità internazionale non fornisce soltanto soldati, ma anche 
      poliziotti, giudici, guardie carcerarie, dirigenti bancari, eccetera. In 
      Bosnia, un’intera squadra di funzionari europei si sta occupando della 
      creazione di un sistema doganale. Le elezioni vengono organizzate e 
      monitorate dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in 
      Europa (Osce) e la polizia locale è finanziata dall’Onu. Più di un 
      centinaio di organizzazioni non governative stanno collaborando 
      attivamente a questa ricostruzione ed in molte zone il loro aiuto si è 
      dimostrato di fondamentale importanza.
 
 I Balcani costituiscono un caso estremo, ma sono un ottimo esempio di come 
      l’instabilità possa trasformarsi in conflitto reale. Negli altri paesi che 
      si trovano al di là dei suoi confini orientali, l’Unione Europea sta 
      conducendo un programma che, alla fine, la porterà ad espandersi 
      notevolmente. Da Stettino, sul Mar Baltico, a Tirana, a pochi chilometri 
      dall’Adriatico, tutti i paesi tra Vienna e Mosca vogliono entrare a far 
      parte dell’Unione Europea e della Nato: a questo scopo, stanno riscrivendo 
      le proprie leggi e costituzioni e riorganizzando le proprie forze armate. 
      Alcuni sono solo all’inizio, e forse non sono ancora in grado di 
      comprendere appieno quali siano i requisiti necessari per diventare 
      membri, ma molti hanno già fatto grandi progressi. Le negoziazioni con 
      l’Unione Europea riguardano l’agricoltura, l’industria, i trasporti, 
      l’ambiente, la concorrenza, la politica monetaria, quella estera e molto 
      altro ancora. In passato, gli imperi avevano imposto le proprie leggi ed i 
      propri sistemi di governo. Oggi, nessuno viene obbligato: le nazioni 
      scelgono liberamente di adeguarsi a determinate regole e norme. I paesi 
      interessati non sono instabili, ma, senza l’obiettivo di entrare a far 
      parte dell’Unione Europea e senza gli aiuti provenienti dagli Stati che 
      già ne sono membri, avrebbero corso un serio pericolo. Tutto sommato, è 
      probabilmente un bene avere a disposizione tutta una serie di norme e 
      regole occidentali pronte all’uso. In quanto candidato ad entrare 
      nell’Unione Europea, il paese interessato deve accettare ciò che è stato 
      stabilito, proprio come facevano una volta gli Stati assoggettati. Ma chi 
      riuscirà a diventare membro sarà ricompensato: avrà voce in capitolo nelle 
      decisioni dell’Unione. Se questo può essere considerato come una sorta di 
      imperialismo liberamente accettato, allora il grande Stato che si formerà 
      sarà di tipo cooperativo. “Confederazione”, quindi, potrebbe essere un 
      nome adatto.
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 Un ruolo imperiale per l’Unione Europea?
 Molte regioni europee hanno vissuto molto più a lungo e più 
      felicemente all’interno di una struttura di tipo imperiale che non da 
      liberi Stati nazione. Caso esemplare ne sono i Balcani, con il loro 
      mosaico di etnie. Belgio, Germania e Italia hanno prosperato sotto regimi 
      imperiali (e nel caso della Germania si trattò di qualcosa di molto simile 
      ad un impero di tipo cooperativo). Certo, gli imperi erano caratterizzati 
      da regimi aristocratici rigidi e decadenti, mentre gli Stati nazione che 
      li hanno sostituiti hanno portato dinamismo, democrazia e rinnovamento; ma 
      la chiarezza e il vigore degli Stati nazione hanno anche causato 
      spargimenti di sangue, sia a causa di guerre intestine che per il modo in 
      cui venivano gestite le minoranze. Armeni, albanesi e curdi vivevano più 
      sicuri all’interno dell’impero ottomano che non attualmente negli Stati 
      nati dal suo smembramento. A quei tempi, l’impero poteva a volte fungere 
      da autorità superiore, che agiva al di sopra dei gruppi etnici ed era in 
      grado di mantenere la pace tra loro. Oggi anche questo ruolo appartiene 
      alla comunità internazionale, che viene invitata dal paese in questione ad 
      essere presente sul suo territorio con osservatori o forze di pace.
 
 Nel suo classico sugli imperi, Michael Doyle sostiene che, per avere 
      successo, un impero deve fondarsi su una burocrazia che si occupi di tutto 
      il territorio (come nel caso dell’impero romano) e non soltanto della 
      metropoli (come nel caso di quello inglese). “Un impero duraturo 
      presuppone una certa coordinazione a livello burocratico ed 
      un’integrazione transnazionale tanto nell’ambito politico che in quello 
      economico e culturale. Tale integrazione riesce a fondere la metropoli con 
      le regioni periferiche, proprio come accadde nell’impero romano con le 
      leggi di Caracalla del 212. A questo punto, l’impero non esiste più e i 
      diversi popoli diventano un’unica popolazione. Nel caso dell’impero 
      romano, i vari popoli vennero uniti sotto un unico despota, ma 
      l’attrattiva che ancora oggi caratterizza questa altrimenti deplorevole 
      dominazione di più Stati sta nella possibilità che tutti i popoli 
      assoggettati possano godere di una libertà comune. Gli imperi continuano 
      ad attrarre perché vengono visti come un modo per ottenere la pace, ma 
      l’imperialismo nasconde una doppia tragedia: prima di tutto, gli imperi 
      moderni, che si fondano su un nazionalismo di tipo metropolitano, etnico, 
      potrebbero non essere in grado di evolversi fino a raggiungere 
      un’integrazione completa; in secondo luogo, per sopravvivere abbastanza a 
      lungo in modo da ultimare il processo di integrazione, qualsiasi impero di 
      vaste proporzioni deve superare l’amministrazione augustea ed arrivare ad 
      un regime di tipo burocratico, e burocratizzare la metropoli significa 
      distruggere ogni possibilità di governo partecipativo. Da un punto di 
      vista sia analitico che storico, libertà ed impero appaiono quindi 
      inconciliabili, in un primo momento per le zone periferiche ed in seguito 
      per la metropoli”.
 
 L’attrattiva dell’Unione Europea sta nel fatto che, una volta individuato 
      il giusto tipo di gestione, potrebbe rappresentare la soluzione a questo 
      dilemma. Concepita come uno Stato, infatti, non soltanto sarebbe molto 
      poco attraente, ma totalmente irrealizzabile. Tuttavia, potrebbe 
      funzionare sotto forma di impero di tipo cooperativo. In una 
      confederazione come questa, nessun paese occuperà una posizione dominante 
      ed ogni Stato membro comparteciperà al governo, che si baserà su princìpi 
      legali e non etnici. Il potere centrale dovrà dimostrare di avere una 
      grande capacità diplomatica e la “burocrazia imperiale” dovrà essere tale 
      da permettere un facile controllo, serva e non padrona della 
      confederazione. Un’istituzione di questo tipo dovrà perseguire libertà e 
      democrazia esattamente come le sue parti costituenti. Come l’impero 
      romano, questa Europa fornirà ai propri cittadini leggi, monete e, 
      occasionalmente, qualche strada. Certo, non sarà facile, ma forse è 
      possibile ipotizzare un’Europa costituita da una trentina di membri ed 
      organizzata secondo il modello di un impero di tipo cooperativo moderno e 
      democratico, in grado non soltanto di garantire la pace ai paesi che ne 
      facciano parte ma di offrire loro la possibilità di godere di una libertà 
      comune. Se non altro è una nobile speranza.
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 (traduzione dall’inglese di Sarah del Meglio)
 
 © The New York Times Syndication Sales Corp.
        e, per 
      l’Italia, Ideazione.
 
 25 gennaio 2002
 
              
 
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