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        Una guerra asimmetricadi Carlo Jean
 
 Ogni epoca ha conosciuto il proprio tipo di guerra. Gli obiettivi 
        politici e le modalità dell’uso della forza – cioè le strategie e le 
        tattiche – sono sempre state speculari alle caratteristiche delle 
        società e dei sistemi economici. Il fattore che più influisce 
        sull’evoluzione di entrambi è la tecnologia. Intanto, essa influenza i 
        modi con cui viene prodotta la ricchezza e la potenza militare, i quali 
        hanno sempre presentato nella storia stupefacenti somiglianze. In 
        secondo luogo, essa determina il tipo di organizzazione sociale, in 
        modo, per l’appunto, da ottimizzare l’utilizzazione delle tecnologie 
        disponibili. L’era delle informazioni conosce pertanto il proprio tipo 
        di guerra, diverso da quelli del passato.
 
 A proposito della guerra moderna si è parlato di tre “ondate”, 
        corrispondenti a tre diversi tipi di società: agricola, industriale e 
        postindustriale. Poiché i sistemi politico-sociali che si combattono 
        sono asimmetrici, anche le guerre sono quasi sempre fortemente 
        asimmetriche. Sono tali non solo negli obiettivi perseguiti dai due 
        avversari – che sono evidentemente sempre diversi –, ma anche nelle loro 
        culture etico-politiche e strategiche, nonché nei loro armamenti e 
        nell’organizzazione militare adottata. Ad esempio, in Afghanistan vi 
        sono state due guerre: quella postindustriale degli americani e quella 
        pre-industriale dei talebani. I conflitti simmetrici sono stati eventi 
        eccezionali. E’ stata tale, fortunatamente a livello solo virtuale, la 
        Guerra Fredda. Perché un conflitto possa essere simmetrico, devono 
        essere simili non solo le tecnologie disponibili, ma anche i valori, le 
        culture strategiche, il grado di accettabilità di perdite, di rischi e 
        di distruzioni. Devono essere pure simili i rapporti di forza. In caso 
        contrario, strategie e tattiche dei due avversari devono essere molto 
        differenti. Quello molto più debole deve fare ricorso alla resistenza 
        non violenta, al terrorismo o alla guerriglia. Con la fine della Guerra 
        Fredda ogni possibilità di guerra simmetrica è definitivamente 
        scomparsa.
 
 Taluni studiosi di storia militare – come van Creveld e Keegan – 
        ritengono addirittura che siano mutati la natura e i meccanismi dei 
        conflitti e che non sia più valida la teoria clausewitziana della 
        guerra, paradigma di riferimento di ogni riflessione strategica negli 
        ultimi due secoli. Le guerre non scoppiano più fra gli Stati, ma al loro 
        interno. Esse non vengono più combattute fra eserciti regolari, ma fra 
        di essi e le milizie originate direttamente dai popoli, o direttamente 
        fra essi. Ci si batte per la propria etnia, per la propria religione, 
        per il controllo di traffici illeciti, e così via. La guerra non può 
        essere più considerata una razionale continuazione della politica con 
        altri mezzi (in realtà, Clausewitz l’aveva definita «continuazione della 
        politica con l’aggiunta di altri mezzi», poiché, durante la guerra, la 
        politica non si interrompe, ma continua a dirigere le operazioni 
        militari, adeguando, al tempo stesso, i suoi obiettivi all’esito di 
        queste ultime). La maggior parte delle perdite (negli ultimi 10 anni, 
        circa il 95 per cento) riguarda le popolazioni civili, non i militari. 
        Sta del resto scomparendo la distinzione fra i combattenti e i non 
        combattenti, che aveva costituito una delle principali conquiste della 
        civiltà. Predominano oggi i fattori irrazionali e le visioni 
        messianiche. Secondo Edward Luttwak, le democrazie avrebbero visto 
        diminuire o addirittura perso la capacità d’impiegare efficacemente la 
        forza militare. Gli eserciti “borghesi” ad alta tecnologia non sarebbero 
        più capaci di contrastare i “barbari guerrieri” dei conflitti 
        etnico-identitari né i terroristi aspiranti al martirio, fanatici 
        sostenitori di obiettivi millenaristici, senza arrecare e subire perdite 
        e distruzioni e affrontare rischi, ormai inaccettabili alle opinioni 
        pubbliche occidentali. Sarebbero finite le “guerre eroiche” ed iniziate 
        quelle “post-eroiche”.
 
 Le operazioni in Afghanistan dimostrano che tali teorie sono troppo 
        radicali. Quando viene attaccato, l’Occidente accetta rischi e perdite. 
        Le nuove tecnologie permettono un’azione efficace anche contro i 
        guerrieri tribali e contro i fanatici ad alta tecnologia. Beninteso, il 
        soldato delle armi combattenti rimane l’elemento centrale della potenza 
        militare. Il deus ex-machina della tragedia greca non è stato sostituito 
        dal “deus in-machina” tecnologico della “nuova rivoluzione negli affari 
        militari” in corso negli Stati Uniti. Comunque, le tecnologie, la 
        capacità tattica e l’eccellenza del reclutamento e dell’addestramento 
        dei soldati americani sembrano permettere una risposta ragionevolmente 
        efficace alle nuove minacce.
 
 Le possibilità di futuro ordine mondiale dipendono dalla vittoria della 
        guerra contro il terrorismo internazionale e dall’efficacia delle 
        strategie di contro-proliferazione dei missili balistici e di crociera e 
        delle armi di distruzione di massa. Solo in tal modo, l’Occidente sarà 
        in condizioni di mantenere lo status quo derivato dalla sua vittoria 
        nella Guerra Fredda. Come ha affermato Pierre Hassner, il principale 
        pericolo – che potrebbe portare alla frammentazione e balcanizzazione 
        del mondo – è che, nel confronto fra nuovi barbari e vecchi borghesi, i 
        primi acquisiscano le tecnologie dei secondi, obbligando questi ultimi 
        ad imbarbarirsi oltre il necessario, sufficiente per poterli 
        contrastare. Le elaborazioni teoriche sulla cosiddetta “seconda era 
        nucleare”, discussa in Texas dai presidenti Bush e Putin – e di cui, 
        almeno nell’Europa continentale, non è “politicamente corretto” parlare 
        – dimostrano chiaramente come ci si stia avviando in tale direzione. La 
        proliferazione, infatti, non è più un’ipotesi, ma una realtà.
 
 La sopravvivenza dell’Occidente è legata alla capacità di realizzare 
        efficaci sistemi di “dissuasione dal forte al folle” e di “attacco al 
        leader”. Solo essi potrebbero ripristinare un certo grado di dissuasione 
        e, quindi, di prevenire azioni terroristiche delle dimensioni di quelli 
        dell’11 settembre. Essi potrebbero divenire disastrosi qualora i 
        terroristi impiegassero armi di distruzioni di massa. Al riguardo sono 
        prioritari il potenziamento dell’intelligence e la predisposizione della 
        capacità di effettuare “operazioni covert”, per catturare o eliminare i 
        terroristi. E’ ridicolo affermare che il terrorismo internazionale 
        derivi dalla miseria del Terzo Mondo o dal conflitto 
        israelo-palestinese. Gli Stati della penisola arabica hanno investito in 
        Occidente centinaia di miliardi di dollari. Le organizzazioni 
        terroristiche confluite in al Qaeda si sono opposte a qualsiasi processo 
        di pace in Medio Oriente. Una di esse, l’al-Jihad egiziana, a cui 
        appartenevano parte dei terroristi dell’11 settembre, aveva organizzato 
        l’assassinio di Sadat. Non per nulla, quando bin Laden ha cercato di 
        “arruolare” l’Intifada, Arafat ha subito inviato la sua polizia a 
        sparare contro chi dimostrava entusiasmo per tale soluzione. Non bisogna 
        confondere il terrorismo messianico con altri problemi. La prima cosa da 
        fare in un conflitto è non sbagliarsi di nemico.
 
 Il rapporto sulla Quadriennal Defense Review (QDR), presentato al 
        Congresso degli Stati Uniti il 30 settembre scorso dal Segretario della 
        Difesa Donald Rumsfeld, insiste più volte sul fatto che l’asimmetria – 
        non solo tecnologica, ma anche culturale – deve costituire la logica di 
        base della nuova dottrina militare degli Stati Uniti. Le Forze Armate 
        devono essere poi in condizioni di combattere una gamma di conflitti 
        molto più ampia di quella del passato. Dalla lotta alla criminalità 
        organizzata – ad esempio quella al traffico di droga combattuta in 
        Colombia dalle Forze Speciali americane –, ad un nuovo grande conflitto 
        mondiale – peraltro ritenuto del tutto improbabile nei prossimi due 
        decenni – passando per conflitti regionali maggiori del tipo Golfo, per 
        attacchi alle reti dei terroristi e agli Stati che ne ospitano le basi. 
        Le Forze Armate, in particolare la Guardia Nazionale, devono poi 
        concorrere con quelle di polizia alla difesa del territorio nazionale. 
        Le nuove tecnologie devono fornire i mezzi per risposte accettabili 
        (perdite, danni collaterali e rischi, limitati anche per la necessità di 
        mantenere il consenso dell’opinione pubblica), ma al tempo stesso 
        efficaci. La cosa sembra essere riuscita. Gli Stati Uniti sono 
        un’“iperpotenza” non tanto per la percentuale di ricchezza mondiale che 
        posseggono (è all’incirca del 20 per cento, pari a quella che 
        possedevano dopo la prima guerra mondiale), ma perché dispongono di una 
        grande superiorità militare. Le loro spese per la difesa ammontano al 35 
        per cento di quelle mondiali; quelle per la ricerca e sviluppo militare 
        al 50 per cento, mentre le loro esportazioni di armamenti – anch’esse 
        strumento fondamentale di politica estera – raggiungono il 60 per cento 
        di quelle mondiali.
 
 Non si può parlare delle prossime guerre, che dovranno combattere 
        l’Europa e l’Italia, senza considerare la posizione, che non ha 
        precedenti nella storia, occupata dagli Stati Uniti nel contesto 
        internazionale dell’inizio del XXI secolo. Non solo le prossime guerre 
        in cui sarà coinvolta l’Europa, ma anche il modo con cui le combatterà, 
        saranno condizionate dalle decisioni americane, anche se essa potrà 
        scegliere interessi da difendere e ruolo da giocare. Oggi, l’Europa si 
        trova di fronte ad una scelta decisiva per il suo futuro. Da un lato, 
        potrà decidere di continuare ad essere un partner rispettabile – e 
        quindi rispettato – degli Usa. Dovrà allora non solo colmare il 
        crescente divario di interoperabilità fra le sue forze da quelle 
        americane, ma anche – e direi per prima cosa – mettersi in condizione di 
        avere una politica globale veramente comune, non affidata ai “capricci” 
        della dimensione intergovernativa dell’Unione. In alternativa, pur 
        mantenendo l’alleanza transatlantica – essenziale non solo per la sua 
        sicurezza, ma anche per il mantenimento del suo attuale livello di 
        integrazione – dovrà specializzarsi funzionalmente o geograficamente, 
        attuando una “divisione del lavoro” con gli Stati Uniti. Funzionalmente, 
        significa che l’Europa dovrà limitarsi ad operazioni militari 
        ausiliarie, come le missioni umanitarie e di mantenimento della pace, 
        lasciando agli americani quelle propriamente di combattimento e ad alta 
        intensità tecnologica.
 
 Con la specializzazione geografica, le forze europee sarebbero destinate 
        a svolgere un ruolo regionale, e non uno globale, come invece richiedono 
        la tutela e promozione dei suoi interessi e valori e le ambizioni dei 
        suoi governi ed opinioni pubbliche. A parer mio, si dovrebbe scegliere 
        la prima opzione. Essa dovrebbe essere fattibile. Secondo Eurobarometro, 
        le opinioni pubbliche dei Quindici sono più favorevoli ad una difesa 
        comune europea di quanto lo siano per la stessa Unione Europea: 73 per 
        cento contro 48 per cento. Washington sarebbe felicissima di qualsiasi 
        soluzione, purché essa si traducesse in un aumento delle reali capacità 
        militari europee. La cosa più pericolosa per gli Stati Uniti consiste 
        nell’aumento del divario fra ambizioni e capacità europee. Dalla scelta 
        che l’Europa farà, dipenderanno i tipi di guerra che si deve preparare a 
        combattere.
 
 25 gennaio 2002
 
 (da Ideazione 1-2002, gennaio-febbraio)
 
 
 
 
 
              
 
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