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        “Impero”: un Marx postmoderno per il popolo di 
        Seattledi Carlo Lottieri
 
 A distanza di più di dieci anni dal crollo del muro di Berlino appare 
        ormai chiaro che il comunismo non è affatto morto. Il libro scritto a 
        quattro mani da Antonio (Toni) Negri e Michael Hardt andrebbe segnalato 
        anche solo per questo: per il suo essere la testimonianza dell’ostinata 
        fedeltà ad un progetto sociale che ha moltiplicato lutti, ma che pure ha 
        affascinato in profondità l’intellighenzia occidentale. Le pagine di 
        “Impero”, in effetti, aiutano a capire come mai moltissimi studiosi 
        europei ritennero di avere trovato nel marxismo la chiave che apre ogni 
        porta, persuasi che fosse ormai finito il tempo di attardarsi 
        nell’interpretazione del mondo e che ci si potesse finalmente dedicare a 
        trasformarlo in ogni sua parte. Questo primato della “prassi” pervade 
        ogni pagina del volume, al cui preannunciato successo certamente gioverà 
        l’inusuale vicenda personale di Negri. In realtà, però, il libro è 
        scritto a quattro mani e la presenza di Michael Hardt (della Duke 
        University) è interessante a cogliere la connotazione anglosassone 
        dell’opera. Marx stesso, d’altra parte, non visse e lavorò forse a 
        Londra (allora cuore dell’economia mondiale)? Non ci si stupisca, 
        quindi, se oggi lo sforzo di aggiornare la lezione del Capitale muove 
        proprio dall’America e ha trovato spazio nel prestigioso catalogo della 
        Harvard University Press.
 
 L’Impero di cui qui si parla, per giunta, non è un impero politico. Non 
        si tratta degli Stati Uniti e neppure della Nato. Né il volume è un atto 
        d’accusa verso il “globalismo giuridico” e gli sforzi di quanti 
        vorrebbero unificare politicamente l’umanità. No: l’Impero coincide con 
        la ben più immateriale globalizzazione, che oggi permette ad ognuno di 
        noi di trarre beneficio dal dinamismo di imprese e soggetti d’ogni parte 
        del globo. In questo contesto mutato, Negri e Hardt individuano (o 
        credono di individuare) nuove forme di dominio capitalistico e lanciano 
        la loro sfida. Va anche detto che nel volume viene evitato ogni banale 
        rigetto della globalizzazione. Al contrario, Negri e Hardt sostengono 
        che il mondo globalizzato è migliore di quello che l’ha preceduto e che 
        il compito dei rivoluzionari, allora, non consiste nel frenare le 
        trasformazioni storiche conseguenti al crollo delle barriere nazionali, 
        ma nell’orientare tali trasformazioni verso “nuovi fini”, comprendendo 
        che l’avvento dell’Impero offre inedite opportunità alle forze di 
        “liberazione”.
 
 Ma nonostante ciò è pur vero che un lettore di ortodossia comunista 
        resterà spiazzato dalla vaghezza delle analisi. Manca del tutto, in 
        particolare, una riflessione sulla struttura economica del “dominio”, 
        che al contrario dovrebbe essere al centro di una riflessione di 
        carattere marxista, in sintonia con l’idea che siano appunto i rapporti 
        economici a decidere l’evoluzione sociale. In realtà, nel loro sforzo di 
        proporsi quale riferimento teorico per i nuovi movimenti, Negri e Hardt 
        operano una selezione alquanto particolare di ciò che - all’interno del 
        marxismo - di tale tradizione resterebbe ancora vitale, coniugando 
        dialettica materialistica e postmodernità, Marx e Deleuze (con esiti, 
        però, non sempre convincenti). In questo senso, Impero può allora essere 
        letto come un libro che aiuta a capire fino a che punto oggi il marxismo 
        - seppure tutt’altro che defunto - sia davvero in crisi. E’ d’altro 
        canto significativo che Marx non abbia mai portato a termine Il 
        Capitale, consapevole che la base dell’appoggio delle sue analisi 
        economiche fosse incapace di sostenere l’intero edificio. Ed è pure il 
        caso di ricordare che la teoria marxiana dello sfruttamento implica 
        quella teoria del “valore lavoro” che il filosofo di Treviri rinvenne in 
        Smith e Ricardo e che il marginalismo di secondo Ottocento (Menger, 
        Jevons, Walras) s’incaricò di demolire definitivamente.
 
 Del marxismo di un tempo resta, certo, l’ansia rivoluzionaria e la 
        volontà di catalizzare la capacità distruttiva del proletariato verso 
        un’opera di sabotaggio del mercato capitalistico. Questo corposo saggio, 
        così, è una dichiarazione di guerra alla libertà sprigionata dalla 
        concorrenza. Ma in nessuna pagina esso ci spiega cosa mai vi sarebbe di 
        illegittimo nell’interazione volontaria sottoscritta da uomini liberi. 
        Né viene chiarito, una volta eliminata la proprietà privata, in quale 
        modo si pensi di regolare l’accesso a risorse e beni scarsi, senza che 
        l’intera realtà venga assoggettata al controllo di una “super-classe” 
        rivoluzionaria. Il volume, d’altra parte, è attraversato da una vera 
        mistica del collettivo (la “moltitudine” spinoziana) e da un’autentica 
        incomprensione del nesso che collega la dominazione politica moderna e 
        l’avvento delle masse sulla scena statuale. Non deve sorprendere, 
        allora, che gli autori fraintendano uno dei pochissimi liberali citati, 
        Étienne de la Boétie, nel momento in cui il suo rifiuto dell’assolutismo 
        è letto non già quale rigetto del potere (della coercizione contestata 
        dal liberalismo), ma della “relazione di dominio” che è al cuore della 
        loro analisi sul capitalismo. Libro tanto raffinato quanto inquietante, 
        Impero può quindi essere considerato come uno specchio grazie al quale 
        il ceto intellettuale è ora in condizione di apprendere qualcosa di sé, 
        constatando quanto nell’Occidente sia ancora radicata quella gnosi 
        secolarizzata che tanto male ha già generato ed altro ancora ne 
        promette.
 
 25 gennaio 2002
 
 
 
 
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