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        South park. Una storia di ordinaria legittima 
        difesadi Carlo Stagnaro
 
 Un cane che morde un uomo non fa notizia, si dice, ma un uomo che morde 
        un cane sì. E’ questa la ragione, forse poco prosaica, per cui ogni 
        volta che un folle usa un’arma da fuoco per sparare a qualcun altro la 
        notizia balza di pagina in pagina fino a raggiungere l’apertura di quasi 
        tutti i giornali. Non meritano spazio alcuno, invece, le ordinarie 
        vicende in cui qualcuno ama il prossimo suo come se stesso. Si parla di 
        terremoti e disastri, ma non si spende una parola per commentare la 
        nascita di un fiore, il colorarsi d’oro dei campi di frumento, il dolce 
        gioco delle nuvole col vento. Così è la vita. E l’ha imparato, a sue 
        spese, Tony D. Murry, dopo aver fatto irruzione in casa di Sue Gay 
        armato di un taglierino. Sue è un’anziana e calma signora.
 
 Quel giorno, il caso ha voluto che essa fosse in compagnia del nipotino, 
        che in quel momento si trovava al piano di sopra. La donna gli grida di 
        chiamare la polizia. Il marmocchio, compresa al volo la situazione, fa 
        capolino pochi secondi dopo da in cima alle scale. In mano regge una 
        calibro 45, che punta verso l’aggressore. Questi prende la povera Sue 
        come scudo umano. “Sapevo che, se avesse sparato, sarei morta”, essa ha 
        confessato. Il piccolo però non ha paura. Si ricorda di quando suo 
        padre, prima di morire, lo portava a sparare. E allora prende bene la 
        mira. Preme il grilletto. Clic. Poi, lo sparo. Una macchia rossa si 
        allarga sul petto dell’incredulo Murry.
 
 Sue, forse, chiude gli occhi, si crede morta. Poi li riapre. Non vede il 
        Paradiso né il Purgatorio né l’Inferno. Il suo sguardo abbraccia le 
        famigliari pareti della casa dove ha sempre vissuto, a South Bend. 
        Capisce che il colpo è andato a segno, non ha sbagliato di un 
        millimetro. “Non so come ne sia stato capace. – ha detto in seguito la 
        nonnina. Lo ha preso al primo colpo. E’ il mio piccolo eroe”. Una storia 
        come tante. Che però non “filtra” sui mezzi di comunicazione, perché non 
        è funzionale allo stereotipo del bambino cresciuto nel bel mezzo della 
        malvagia “cultura delle armi” e va a scuola a uccidere i suoi compagni. 
        Nessuno ne parla anche perché, in questo caso, non è l’uomo ad aver 
        morso il cane, ma il contrario.
 
 15 febbraio 2002
 
 c.stagnaro@libero.it
 
              
 
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