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        Arabia Saudita e Irak, destini parallelidi Karim Mezran
 
 La domanda che sempre più di frequente è al centro delle discussioni tra 
        gli esperti di politica mediorientale verte sul deteriorarsi delle 
        relazioni tra gli Stati Uniti ed il regno saudita. Dall’11 settembre in 
        poi, molti analisti e commentatori americani hanno puntato il dito 
        contro le ambiguità saudite, contro il dubbio ruolo che i servizi del 
        paese intrattengono con movimenti estremisti islamici e contro la 
        connivenza, di fatto, di parte dell’establishment con bin Laden e la sua 
        organizzazione. Accuse apparse su quotidiani e riviste americane ma 
        anche molto popolari tra i corridoi del congresso e delle varie 
        amministrazioni. La risposta saudita è stata finora incentrata sul fatto 
        che queste accuse provengono in maggior parte da giornalisti e 
        commentatori appartenenti alla cosiddetta “area occupata” cioè stampa ed 
        organi saldamante controllati dalle lobby ebraiche americane che hanno 
        tutto l’interesse a creare attrito tra Usa e Arabia Saudita per 
        incrinare il fronte arabo anti-israeliano.
 
 Tuttavia, un colpo mortale contro questa versione è stato di recente 
        inferto da un articolo apparso su uno dei più influenti giornali 
        conservatori, il National Review. Organo popolarissimo tra gli esponenti 
        della nuova amministrazione e, come è noto anche ai nostri lettori, 
        particolarmente influente sullo stesso presidente Bush. L’autore 
        dell’articolo pone l’accento sul fatto che l’Arabia Saudita è un regno 
        fortemente ideologizzato, la cui ideologia, il Wahabismo, costituisce 
        assieme al petrolio l’unico export del paese. E’ un caso che undici 
        degli attentatori del World Trade Center fossero sauditi? E cosa dire 
        del rampante anti-americanismo di ampie frangie dell’elite? Del divieto 
        opposto alla richiesta di usare le basi in Arabia per attaccare i 
        talebani?
 
 Quel che più conta, però, non è l’attacco contro l’establishment saudita 
        in sé, ma la ragione che ha condotto a questa presa di posizione. 
        L’Arabia Saudita è stata per quasi 50 anni il migliore alleato Usa nella 
        regione, basti pensare all’intervento contro l’Irak del 1990, dettato 
        soprattutto dalla necessità di evitare un’invasione irachena dell’Arabia 
        Saudita. L’America si mosse massicciamente per sostenere il suo alleato. 
        Cha cosa è cambiato? La risposta più ovvia è: tutto. La guerra contro il 
        terrorismo è, per gli Usa, diventata primaria. Gli americani sanno 
        benissimo che soldi sauditi hanno finanziato e finanziano moltissime 
        organizzazioni islamiste, e sanno perfettamente che i sauditi appoggiano 
        il nuovo asse Iran-estremisti palestinesi contro Israele. Paul 
        Wolfowitz, il sottosegretario americano alla difesa, sopprannominato 
        “delenda Baghdad”, ha più volte fatto notare come il principale ostacolo 
        ad un attacco risolutore contro il dittatore iracheno sia costituito 
        proprio dai sauditi che temono terribilmente la sostituzione del regime 
        di Baghdad con uno liberale sostenuto e protetto dall’Occidente.
 
 Nella dottrina strategica saudita il rapporto privilegiato con gli Usa è 
        visto come essenziale e indispensabile, ma per gli americani, come 
        sostiene ormai gran parte dell’establishment conservatore che fa capo al 
        vice-presidente Cheney, nulla avrebbe più senso che sostituire tale 
        rapporto con uno culturalmente e ideologicamente più affine quale 
        potrebbe essere quello con il civilissimo e secolarissimo Irak 
        (ovviamente dopo essersi sbarazzati di Saddam Hussein e della sua 
        cricca). Gli americani, dopo aver occupato, per la prima volta nella 
        storia, posizioni eccellenti in Asia centrale, vogliono stabilizzare il 
        Medio Oriente e per farlo devono reintegrare l’Irak e il suo potenziale 
        economico ed umano nel campo occidentale, neutralizzare i radicali 
        iraniani, isolare gli estremisti palestinesi facilitando l’emergere di 
        una leadership palestinese laica e moderata. Tutto ciò, sembra passare 
        attraverso il ridimensionamento del rapporto con Riadh, l’emarginazione 
        della sua classe dirigente e l’appoggio che essa ha sempre dato alle 
        organizzazioni estremiste.
 
 E se questa iniziativa dovesse portare al crollo del regime saudita ed 
        all’ascesa di un regime più radicale? La risposta dei conservatori Usa è 
        “tanto peggio tanto meglio”. Un regime radicale dovrebbe comunque 
        mantenere i propri pozzi petroliferi e vendere petrolio. Per il primo 
        compito ha bisogno di tecnologia e ditte occidentali, per il secondo ha 
        bisogno dei mercati occidentali, per cui, in fondo, gli Usa e i loro 
        alleati avrebbero ben poco da perdere e, anzi, qualche cosa da 
        guadagnare a liberarsi del dispotico, arretrato e anacronistico regime 
        saudita. Se questa linea verrà adottata dal presidente Bush ed applicata 
        in tempi brevi, come si augurano gli strateghi del Pentagono, in Medio 
        Oriente se ne vedranno delle belle.
 
 1 marzo 2002
 
 kmezran@tiscalinet.it
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