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        La lunga guerra dopo l’Afghanistandi Pierluigi Mennitti
 
 Dieci elicotteri UH-1H, sei istruttori, 200 uomini tra commando e 
        marines, armamenti e assistenza tecnica. Sono i numeri (al momento in 
        verità piuttosto contenuti) degli aiuti militari che George Bush sta 
        inviando in questi giorni in Georgia, la Repubblica caucasica guidata 
        dall’ex ministro degli Esteri di Mikhail Gorbaciov, Eduard Shevardnadze. 
        L’obiettivo è di supportare le forze armate georgiane nel combattere le 
        cellule di al-Qaeda raggruppatesi nel Pankisi Gorge, una zona montagnosa 
        e selvaggia al confine con la Cecenia dove potrebbe aver trovato rifugio 
        anche Osama bin Laden. Secondo molti osservatori si tratta 
        dell’apertura, sorprendente, di un terzo fronte nella guerra contro il 
        terrorismo, dopo quello afgano e quello filippino. Un fronte che 
        potrebbe portare a un raffreddamento dei rapporti con la Russia di Putin 
        che, pur alleata degli Stati Uniti dopo gli attacchi dell’11 settembre, 
        non gradirebbe una ulteriore presenza di truppe americane sul territorio 
        ex sovietico. Tanto più che tra Russia e Georgia non è mai corso buon 
        sangue e Shevardnadze ha ripetutamente accusato i dirigenti di Mosca di 
        voler riassorbire la repubblica indipendente.
 
 Ma equilibri ex sovietici a parte, la guerra al terrorismo è da tempo 
        entrata in una fase più nascosta, peraltro già annunciata dal presidente 
        americano Bush. Sarà una guerra lunga, aveva detto alla vigilia 
        dell’attacco all’Afghanistan, nella quale si alterneranno fasi visibili 
        a fasi invisibili. Dopo la caduta di Kabul si è aperta una nuova 
        stagione, assai delicata, nella quale politica diplomatica e attività 
        militare si mescolano, spesso con alterna intensità, non sempre con 
        grande evidenza. Attualmente, sul piano militare, sembra prevalere la 
        strategia di appoggiare, con risorse umane e con armamenti, quegli 
        eserciti in lotta contro le cellule del terrorismo. E’ stato il caso 
        delle Filippine, è adesso quello della Georgia. “Dovunque al-Qaeda 
        eserciti la sua influenza - ha ribadito George Bush - noi daremo la 
        caccia ai suoi membri e li consegneremo alla giustizia”. Anche a costo 
        di irritare i nuovi alleati che, come i russi, non possono digerire una 
        presenza americana che si intensifica in un’area come quella caucasica 
        importante anche sul piano geoeconomico per la presenza di oleodotti.
 
 Come che sia, prende corpo la strategia del dopo-Afghanistan, proprio 
        mentre a Kabul si fatica a reggere le redini del paese. I reportage 
        giornalistici da quell’area testimoniano di una realtà difficilissima, 
        disperata sul piano economico, immobile su quello sociale: il burqa è 
        sempre lì a scandire l’inferiorità delle donne che non si riscattano da 
        anni di schiavitù. Oltre l’Afghanistan c’è la lista dei paesi canaglia e 
        degli stati che compongono quello che Bush ha chiamato “l’asse del 
        male”, espressione di una certa efficacia che però, oltre a qualche 
        imbarazzo diplomatico, è costata la poltrona al gost writer che l’aveva 
        inventata, il giornalista canadese David Frum. Irak, Iran, Yemen, Corea 
        del Nord, Sudan, Indonesia, Somalia. Dal bussolotto contenente questi 
        nomi, dicono gli esperti, uscirà il prossimo obiettivo degli Usa. Ma non 
        v’è alcuna conferma che si tratterà di una battaglia frontale tipo 
        quella combattuta contro l’Afghanistan talebano. Troppe variabili 
        entreranno in gioco, soprattutto se il teatro delle operazioni dovesse 
        spostarsi dall’Asia centrale al Medio Oriente.
 
 1 marzo 2002
 
 pmennitti@hotmail.com
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