Globalizzazione, opportunità e limiti
di Antonio D’Amato
La globalizzazione è un processo storico irreversibile, di segno
sicuramente positivo, che tuttavia comporta, insieme a grandi
vantaggi e opportunità, anche una serie di rischi e di sfide cui
bisogna saper far fronte con risposte efficaci a livello
transnazionale. La diffusione delle tecnologie e delle conoscenze,
la liberalizzazione degli scambi, l’apertura dei mercati,
l’abbattimento delle barriere commerciali e amministrative, sono
fattori trainanti dello sviluppo economico e sociale che - sia
pure in maniera imperfetta e diseguale - ha investito il mondo
contemporaneo. Gli squilibri e le sfasature tra un paese e l’altro
- ma anche all’interno dei singoli paesi - che sono rimaste e che
spesso si sono accentuate, non possono essere prese a pretesto per
opporsi alla globalizzazione. Se infatti in termini di Pil il
divario è cresciuto nel corso dei secoli - tra i paesi occidentali
e l’Africa più povera era nel 1500 di 2 a 1, nel 1950 di 15 a 1,
oggi è di 19 a 1 - non si può trascurare che ciò è avvenuto
all’interno di una crescita della ricchezza e dello sviluppo di
cui hanno beneficiato tutti i paesi. La stessa Africa, sia pure in
maniera contenuta. E l’insieme dei paesi in via di sviluppo che
dal 1950 al 1995 hanno visto quasi triplicare il Pil pro capite.
Nella storia del mondo, del resto, il declino delle nazioni si è
costantemente associato alle fasi di isolamento e autarchia, e non
a quelle di apertura dei mercati. Emblematico in tal senso è lo
sviluppo che ha caratterizzato l’Europa e gli altri Continenti in
coincidenza con le traversate oceaniche che hanno allargato
l’orizzonte degli scambi commerciali. E di contro va registrata
l’involuzione economica e sociale della Cina imperiale, del
Giappone degli Shogun e di gran parte dell’Africa nell’ultimo
secolo.
Della globalizzazione si sono giovati e si giovano tuttora sia i
paesi già sviluppati sia quelli in via di sviluppo. Nei paesi
emergenti i capitali delle aree industrializzate e l’allargamento
del mercato creano lavoro e elevano gli standard sociali.
Favoriscono il trasferimento di tecnologie e di pratiche
manageriali innovative. Sopperiscono alla carenza di risparmio
interno, incentivando gli investimenti e la creazione di nuove
imprese. Le economie dei paesi più sviluppati vedono a loro volta
moltiplicarsi i mercati di sbocco dei loro prodotti. Vedono
crescere occupazione e reddito grazie all’aumento complessivo
della domanda. Inoltre, la concorrenza mondiale determina una
riduzione dei prezzi di numerosi prodotti, migliorando il tenore
di vita delle popolazioni. Se è vero che questi sono i vantaggi
della globalizzazione, è altrettanto vero che essa di per sé non è
in grado di colmare le enormi diseguaglianze che continuano a fare
la differenza tra paesi ricchi e paesi poveri. Né riesce a
distribuire in maniera equa la ricchezza all’interno dei paesi
industrializzati che – esposti alla concorrenza di aree a più
basso costo del lavoro – possono vedere compromessa la
competitività di interi settori produttivi con conseguenti rischi
per l’occupazione e il livello di benessere dei lavoratori.
L’ingresso dei paesi in via di sviluppo nel circuito produttivo
pone inoltre problemi di utilizzo delle risorse umane e di
salvaguardia del patrimonio ambientale. Destano in particolare
preoccupazione lo sfruttamento del lavoro minorile e la scarsa
attenzione alle tematiche dell’ambiente. In taluni casi si tratta
di violazioni da parte di imprese dei paesi più avanzati, ma il
problema si annida soprattutto tra i fornitori locali ed è quindi
più difficile da controllare.
Per
tale ragione, Confindustria ritiene - e lo abbiamo sottolineato in
occasione del G8 che si è svolto a Genova lo scorso luglio – che
debbono essere rafforzati gli impegni a livello internazionale per
fissare standard minimi relativi alle condizioni di lavoro e alla
tutela dell’ambiente che tutti i paesi devono rispettare. In uno
scenario di questo tipo i principali obiettivi che bisogna porsi
sono almeno due. Estendere i vantaggi della globalizzazione in
modo più omogeneo ed equo. E limitare al massimo le possibili
distorsioni che essa può provocare nelle relazioni tra paesi e
all’interno dei singoli paesi. Ciò richiede congrui accordi sul
piano internazionale, accorte scelte e strategie politiche sul
piano locale, incisive azioni di rinnovamento istituzionale
sull’uno e l’altro piano. Da una parte si tratta di rafforzare (o
creare ex novo) istituzioni sovranazionali all’altezza dei nuovi
problemi. Dall’altra si tratta di rinnovare (o costituire ex novo)
sistemi politici e di convivenza civile (giustizia, scuola,
sanità, eccetera) adeguati a una prospettiva di sviluppo. Intanto,
per l’immediato, vanno fissati almeno tre ordini di criteri, con
l’impegno che siano effettivamente e rigorosamente rispettati.
Innanzitutto i paesi più ricchi debbono rinunciare a qualsiasi
pratica protezionistica che direttamente o indirettamente finisca
col danneggiare i paesi più poveri. In secondo luogo, vanno
stabiliti in tutti i paesi determinati standard di protezione
sociale che, seppure graduati in relazione alle rispettive
posizioni di partenza, costituiscano comunque una base minima di
garanzie inviolabili, cominciando dal divieto di sfruttare il
lavoro minorile.
Infine, tutti i paesi debbono rispettare determinati standard di
tutela ambientale che, seppure anch’essi debitamente graduati, in
ogni caso impediscano di dar luogo a situazioni che potrebbero
danneggiare non solo il sistema della concorrenza, ma lo stesso
sistema planetario di convivenza. Questi criteri vanno perseguiti
anche con il sostegno delle imprese dei paesi industrializzati,
che se temporaneamente possono trarre qualche beneficio dalla
dislocazione di attività produttive nei paesi più arretrati, alla
lunga diverrebbero esse stesse vittime di situazioni socialmente
ed ecologicamente insostenibili. Oltre che ai problemi della
povertà e del rispetto di standard sociali minimi e di tutela
ambientale, la globalizzazione deve dare risposte alle altre
grandi questioni della salute, della sicurezza alimentare, della
scienza. Uno dei pregiudizi degli antiglobalizzatori ha fatto
quasi sembrare che la scienza sia il nemico della salute e della
sicurezza alimentare. Ciò è falso.
La
salute e la sicurezza alimentare sono aumentate in misura
eccezionale nel mondo. Tutti gli indicatori – qualità della vita,
speranza di vita, tasso di mortalità, mortalità infantile – hanno
registrato miglioramenti straordinari, proprio grazie allo
sviluppo economico, agli investimenti in ricerca e ai progressi
della scienza. Anche i paesi più poveri – sia pure in misura
certamente insufficiente – ne stanno beneficiando. Lo conferma un
recente studio dell’Ocse secondo cui nell’arco di tempo tra il
1950 e il 1995 – anni che hanno visto accelerare i processi di
globalizzazione – la speranza di vita nei paesi ricchi è passata
da 66,6 a 74,1 anni, nei paesi in via di sviluppo da 40,9 a 61,9 e
da 35,3 a 47,1 nell’Africa subsahariana che è l’area più povera
del mondo. Progressi analoghi si sono avuti anche per il tasso di
alfabetizzazione, che nell’Africa meno sviluppata è salito dal 17
al 56 per cento.
Demonizzare la ricerca e la scienza è dunque sbagliato. Il limite
etico della scienza è connaturato alla logica della ricerca che
come tutte le attività umane deve rispettare un codice di regole
morali. Un problema che va affrontato con trasparenza e
responsabilità. Ma va affrontato al di fuori di schemi manichei e
contrasti ideologici. Occorre individuare quali sono le vere
grandi frontiere su cui si gioca la partita del progresso civile,
dello sviluppo sostenibile e delle convenienze economiche. Senza
il grande patrimonio di risorse e di conoscenze che il progresso
industriale ed economico produce è assolutamente impensabile ogni
forma di sviluppo.
Per
questo non è possibile dare semplicistiche risposte di piazza al
problema della “governance della globalizzazione”. Trovare nuovi
strumenti e nuove sedi per definire quadri di regole per questa
governance è sicuramente questione complessa. I vertici
internazionali devono svolgere un ruolo più incisivo. Devono saper
dare indicazioni concrete e non generiche, come spesso accade. Ma
in ogni caso, le risposte non possono venire da una cultura
anti-industriale. Da una cultura anti-globalizzazione,
anti-sviluppo e in definitiva anti-qualità della vita.
La
globalizzazione è l’unica chance per rendere partecipi dello
sviluppo i paesi arretrati e ridurre gli squilibri esistenti nel
mondo in termini di povertà, di condizioni di lavoro, di tutela
della salute, di rispetto per l’ambiente. Essa va perseguita con
determinazione in maniera più equa, se possibile, e con strumenti
sempre più efficaci. Le classi dirigenti dei paesi
industrializzati hanno la responsabilità di realizzare un set di
regole e di normative per uno sviluppo economico in grado di
offrire risorse, know how e tecnologie per una migliore qualità
della vita anche nei paesi emergenti.
Questa è la scommessa sulla quale il capitalismo moderno si deve
misurare per continuare a creare ricchezza e diffondere il
progresso economico e sociale nel mondo.
28 settembre 2001
da Ideazione 5-2001, settembre-ottobre
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