I mille buchi dell’economia italiana
di Giuseppe Pennisi
L’Italia è una groviera. Del “buco” della finanza pubblica ci
siamo occupati a lungo quando la falla è apparsa in tutta la sua
crudezza. Ci sono, però, molti altri “buchi”, oggetto delle
cronache di questi giorni: nel maggiore aeroporto di Milano per il
traffico interno manca una segnaletica decente e i radar da terra
sono fuori uso da anni; in quello di Verona i piani di carico
vengono fatti dopo i decolli (invece che prima); dopo tre anni, è
stato realizzato meno di un terzo dei lavori essenziali
dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria; al San Gottardo si muore
per incuria nell’attuazione dei sistemi di sicurezza; ogni
settimana giungono notizie di crolli di edifici grandi e piccoli
in vari punti della penisola; la difesa del suolo è un’arte
praticata saltuariamente; i trasporti pubblici straboccano e
seminano di falle le strade delle città.
Secondo dati dell’Unione Europea, nel 1995, su 132 regioni
geo-economiche censite in Germania, Francia, Italia, Spagna e
Regno Unito, fatta pari a 100 la dotazione d’infrastrutture
fisiche della regione meglio fornita (Amburgo), le prime due
regioni italiane in termini di capitale sociale fisico (la Liguria
ed il Lazio) raggiungevano rispettivamente ad un povero 44 e 33, e
le due peggio fornite (la Sardegna e la Liguria) toccavano un
misero 16 e 15 (ponendosi al 124simo e 126simo posto in
classifica). Da allora ad oggi, la situazione è peggiorata: già
tre anni fa, un’analisi della Banca d’Italia avvertì che si stava
tagliando troppo drasticamente la spesa in conto capitale per fare
parte del gruppo di testa dell’euro senza realizzare le necessarie
riforme; nel 1995-2000, in proporzione al Pil, l’investimento
pubblico in infrastrutture in Italia è stato pari ad un terzo la
media europea e, in aggiunta, non si è stati in grado di attivare
meccanismi di “project financing” tali da attivare capitali
privati.
Uno studio di Dani Rodrik, economista americano di rango, dimostra
che “i gruppi dirigenti politicamente perdenti” creano “buchi” e
frenano le riforme. Vengono, però, prima o poi cacciati perché
agli elettori i “buchi” non piacciono, Lo schema contribuisce a
spiegare anche il cambiamento di guida politica avutosi in Italia.
Contiene, però, anche un monito severo: se i “buchi” non saranno
colmati, gli elettori continueranno la ricerca di un “gruppo
dirigente vincente”.
1 novembre 2001
gi.pennisi@agora.it
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