Banche, moneta e finanza: le analisi di
Fazio
di Massimo Lo Cicero
Le edizioni Laterza hanno pubblicato gli atti di un interessante
convegno, promosso dalla banca di Roma, che si tenne presso la
Banca d’Italia nel marzo del 2001. I lavori erano concentrati
sulla evoluzione e la stabilità dei sistemi finanziari
internazionali. La qualità dei partecipanti è di standing
internazionale. La tavola rotonda conclusiva vide la
partecipazione del vice di Greenspan, Roger Ferguson, di Claude
Trichet, governatore della banca centrale in Francia, di David
Clementi del Board della Bank of England e di Antonio Fazio,
governatore della nostra banca centrale. Proprio Fazio sorprese la
platea dedicando la sua analisi alla politica monetaria,
certamente, ed alla stabilità dei sistemi finanziari ma anche alla
dinamica e al livello dei corsi di Borsa nel mondo: al modo, cioè,
in cui si valutano le azioni e se ne consiglia l’acquisto, o la
vendita, ai risparmiatori da parte delle banche e degli altri
intermediari. Sul medesimo tema Fazio tornò con la sua relazione
il 31 di maggio ed ancora ci è tornato, in occasione della
Giornata mondiale del risparmio, il 31 di ottobre: all’indomani
dei tragici fatti dell’undici di settembre. Vale la pena di
rileggere quei tre interventi in successione perché essi mostrano
che la diagnosi di Antonio Fazio aveva comunque un rigore
analitico e una solidità di argomenti indipendenti dal profilo
congiunturale e dai traumi esterni ed imprevisti come quello
generato dal terrorismo internazionale.
La base del ragionamento è molto chiara: quanto valgono le azioni
di una società quotata e perché assumono quel valore? La risposta
di Fazio pone in evidenza che quel valore dipende da tre cose: il
profilo microeconomico della gestione nell’impresa che emette i
titoli; le caratteristiche dell’ambiente macroeconomico (fiscale,
reale e monetario), in cui agisce quell’impresa; la capacità degli
intermediari finanziari di interpretare e pesare queste due classi
di indizi, per suggerire ai mercati un prezzo. Questo prezzo deve
essere capace di collegare il valore futuro che l’impresa sarà
capace di creare con l’incertezza delle informazioni disponibili e
la necessità di fornire una misura per il rischio che accompagna
la nascita di quel valore. L’incertezza discende dalla circostanza
che non esistono informazioni adeguate per fornire una misura di
quel rischio, in termini di probabilità oggettiva: esso sarà
misurato sulla base delle opinioni e dei giudizi degli
intermediari e degli altri attori, che siano insider di mercati
finanziari. Ma su queste opinioni degli insider si costruiranno
anche le scelte di una moltitudine di outsider, i risparmiatori
che affidano a quegli intermediari la gestione dei propri
patrimoni. Sono evidenti le due trappole di questo sistema:
l’intermediario potrebbe agire per il proprio vantaggio tradendo
la fiducia che il risparmiatore ha riposto nella sua azione di
consulenza ed assistenza; l’intermediario potrebbe agire con
leggerezza e superficialità, fornendo prestazioni inadeguate per
incapacità e non per conflitto di interesse, come nel caso
precedente.
Il dibattito su questi temi è stato vivace, negli ultimi tre anni,
sulle colonne dei principali giornali economici del mondo
anglosassone. A questo dibattito hanno dato contributi analitici
anche Alan Greenspan, ben noto ai nostri lettori, e Joe Stiglitz,
un economista americano che ha appena ricevuto il premio Nobel per
i suoi studi sugli effetti negativi della mancata informazione e
della incompletezza dei mercati finanziari. Entrambi hanno
enfatizzato come la formazione del prezzo delle azioni dipenda
dalla percezione sulle dimensioni della propria ricchezza che si
formano nel giudizio dei risparmiatori e, dunque, dalle modalità
con cui quelle percezioni vengono alimentate da coloro che gli
trasferiscono informazioni e giudizi sulla dinamica ed i livello
dei corsi di Borsa.
Ma torniamo al valore delle azioni: Fazio ci ricorda la base
analitica di questa determinazione. Per semplicità, ma questa
ipotesi può essere rimossa senza inficiare l’impianto logico del
risultato cui perveniamo, consideriamo l’impresa come in grado di
distribuire una rendita perpetua nel tempo. Il prezzo delle sue
azioni si ottiene dividendo quella rendita per un tasso base di
interesse (che indica il trasferimento nel tempo dei valori
indipendentemente dal rischio che essi si manifestino
effettivamente) al quale si somma uno spread, cioè una differenza,
capace di misurare quel rischio, sulla base delle informazioni in
nostro possesso. Si deve poi dare un ordine di grandezza anche al
tasso di crescita della rendita distribuibile: questo valore, il
tasso di crescita, si può sottrarre alla somma tra il tasso privo
di rischio e lo spread e, a questo punto, la divisione restituisce
il valore del capitale investito dai soci. Dividete per il numero
delle azioni ed avrete il prezzo ritenuto capace di saldare le
vostre informazioni sul futuro con l’effettivo andamento delle
cose. La verifica è possibile solo ex post ed il rischio,
evidentemente, essendo solo una probabilità, si manifesta nella
circostanza che qualcuno, avendo investito, non ci guadagni il
rendimento atteso e possa anche, nei casi estremi, perdere quanto
aveva conferito nell’investimento. Fazio mostra, al 31 di ottobre
ma lo aveva già detto a marzo del 2001, che i corsi delle azioni,
cioè il livello dei prezzi, era troppo alto rispetto al grado di
rischio. L’unica circostanza che avrebbe giustificato quelle
valutazioni, allora, doveva essere un elevatissimo tasso di
crescita delle rendite aziendali, cioè degli utili. Ma questo
evento è proprio quello che molti analisti e molte autorità
monetarie avevano stimato come irrealistico.
E perché i mercati trovavano domanda effettiva per azioni dal
prezzo irrealistico? Perché le condizioni macroeconomiche erano
viziate dal fatto che bisognava fornire liquidità al sistema
finanziario internazionale per fronteggiare le crisi di larghi
subsistemi (ricordate il sud est asiatico o la difficile
transizione al mercato dei paesi socialisti?) Questa politica
monetaria “necessariamente” accomodante non è solo il risultato
dell’azione di prevenzione delle banche centrali: il mondo dei
mercati globali è anche il mondo dei derivati, di prodotti
finanziari che hanno il medesimo effetto della moneta bancaria.
Consentono la crescita dei volumi ma possono generare improvvise
crisi di liquidità quando le scelte sul futuro degli operatori
cadono dal lato sbagliato rispetto alla dinamica effettiva delle
cose.
La crisi degli Hedge Funds e la crisi di molte banche
“spericolate” stanno lì a testimoniarlo. Ma Antonio Fazio non
parla solo di banche, moneta e finanza. Egli ci ricorda che la
crescita negli anni Novanta era reale e non era solo una illusione
che alimentava bolle speculative localizzabili. Quella crescita si
concentrava, in ordine decrescente, in alcuni paesi emergenti,
negli Stati Uniti, nell’Europa e nell’Italia. che chiude la
graduatoria: crescendo alla media di 1,6 per cento l’anno contro
il 5 per cento dei paesi emergenti, il 3,5 per cento degli Stati
Uniti e il 2,5 per cento dell’Europa. La ragione di questa
crescita asfittica stava in una politica economica che aveva
premuto troppo, nella seconda metà dei Novanta, sulla deflazione
fiscale e non aveva creduto, invece, nella capacità di
riequilibrare i conti pubblici accelerando la crescita e non solo
aumentando le entrate fiscali. A questa stretta fiscale si
affiancava una stretta organizzativa ed istituzionale. Vincolata
dalle rigidità del mercato del lavoro, dalla mancanza di
infrastrutture e dalla nanodimensione delle proprie imprese,
l’Italia ha subito l’esistenza di un vero e proprio collo di
bottiglia nella sua capacità di allargare l’offerta. Cresceva la
domanda globale; era abbastanza debole il nostro cambio, dopo la
“botta” del 1992; cresceva la domanda di consumi privati, nella
seconda metà degli anni Novanta, ma non si riusciva ad espandere
l’offerta nazionale di prodotti e servizi. Tendenze e dinamiche,
sia sul fronte reale che su quello finanziario, che i fatti
dell’undici settembre sfiorano senza intaccare la deriva
strutturale che esse rappresentano.
9 novembre 2001
maloci@tin.it
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