L'uno-due di Confindustria. D'Amato
"avverte" il governo
di Massimo Lo Cicero
Due indizi fanno una prova, nel gergo del cinema noir. Nel
medesimo giorno, il 14 di novembre, sul quotidiano controllato
dalla Confindustria, Il Sole 24 ore, appare in prima pagina un
corsivo non firmato, che espone preoccupazione e malessere verso
il rallentamento del processo di privatizzazione delle imprese
pubbliche, ma, anche e soprattutto, verso la scarsa attenzione che
il governo dedica alla liberalizzazione dell'economia. Essendo
considerata, dall'autore del corsivo, la liberalizzazione come la
premessa logica ed operativa di ulteriori privatizzazioni e non la
conseguenza naturale di un processo che, in molti casi,
trasferisce al controllo di azionisti privati la gestione di
monopoli precedentemente controllati dal settore pubblico. Nel
medesimo giorno, dalle pagine del Corriere della Sera, Antonio
D'Amato, il presidente di Confindustria, mostra preoccupazione ed
insoddisfazione per un'azione riformatrice che il governo affronta
con troppo tiepide modalità. Il mondo dell'impresa, insomma, non
avverte il morso della politica liberale nei confronti di un
sistema che era, ed è ancora, fin troppo dominato da burocrazie
amministrative, concessioni governative ed altre architetture
normative, che disegnano rendite di posizione e ne congelano nel
tempo l'attribuzione. Il sistema è troppo rigido, dice giustamente
D'Amato.
E, senza mettere in discussione le radici di questa rigidità, si
finirà in un cul de sac: perché non si potrà cambiare niente se
coloro che dovrebbero accettare un ridimensionamento dei propri
privilegi dovranno operare in un mondo nel quale larga parte degli
attori i propri privilegi e le proprie rendite riesce a
conservarle intatte. Questo malessere non è fenomeno che riguardi
solo la psicologia personale dei dirigenti di Confindustria. Con
le sue affermazioni D'Amato, che fiuta gli umori della borghesia
imprenditoriale di cui porta l'onere della rappresentanza
sindacale, restituisce al governo la piena percezione del
malessere che molti di quegli imprenditori avvertono. Non si
tratta di una presa di distanza dalla esigenza di rendere il
sistema sociale più flessibile e la nostra economia più
competitiva; né siamo al distinguo tra interessi imprenditoriali e
la maggioranza degli italiani che ha votato per un governo di
marca liberale. Siamo solo alla piena vitalità del regime di
rappresentanza nel mondo contemporaneo. Nessuno affida in bianco
la rappresentanza dei propri interessi in esclusiva al Parlamento.
E' una specie di liberalizzazione del mercato degli interessi
collettivi questa, che azzera le rendite di rappresentanza che
tanta parte hanno avuto nella nostra storia politica negli ultimi
cinquant'anni.
I fatti sono sotto gli occhi di tutti ed i problemi, che di quei
fatti sono conseguenza, anche. Gli individui, e le loro
organizzazioni reagiscono al malessere provocato dalle mancate
riforme e dallo scarto tra gli impegni e le realizzazioni. Questo
fenomeno non si traduce in instabilità istituzionale: esso è assai
meno pericoloso per la continuità dell'azione di Governo delle
tante crisi extraparlamentari della "vecchia repubblica" Questo
fenomeno è salutare per il sistema perché ricorda l'importanza di
tenere fede all'impegno di rinnovare il paese e di rimuovere i
lacci ed i laccioli che ne paralizzano la crescita. Perché il
paradosso è proprio questo: un sistema ingessato come l'Italia non
reggerebbe alla spinta di una manovra espansiva della spesa, che
pure da varie parti si invoca per evitare lo spettro della
recessione. Senza cambiare la previdenza, senza liberalizzare il
mercato del lavoro, senza aprire alla competizione vera i servizi
pubblici locali e la produzione di energia, piuttosto che le
telecomunicazioni ed il mercato immobiliare, non c'è spesa
pubblica capace di rilanciare la produzione. Al massimo si
rilanciano le rendite e con le rendite l'inflazione. E gli
industriali sono nemici dell'una e delle altre: per questo D'Amato
alza la voce e per questo tuona una domanda forte di libertà
economica. Tutto questo significa una sola cosa: che la voglia di
liberalismo che ha alimentato il voto dei cittadini per l'attuale
maggioranza parlamentare è ben radicata ed estesa. Questi non sono
venti di crisi ma sono altro carburante per il cambiamento.
16 novembre 2001
maloci@tin.it
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