Il dollaro sconfigge la legge di gravità
di Giuseppe Pennisi


Quando due anni fa fiorivano la new economy e i suoi titoli, analisti ed osservatori avvertivano che la festa sarebbe finita nel momento in cui, trascinato a picco da un disavanzo commerciale allora prossimo ai 300 miliardi di dollari l'anno, il cambio del dollaro sarebbe crollato e gli investitori, soprattutto quelli stranieri, sarebbero scappati da Wall Street di gran lena. Di questo stato di cose avrebbe beneficiato il nascente euro: per questo motivo in Europa ci si entusiasmava a fare piani di integrazione delle borse per meglio accogliere i capitali in fuga dagli Usa verso l'area della moneta unica. Non si prevedeva allora né l'11 settembre né la guerra contro il terrorismo oppure che il disavanzo dell'eximport Usa sarebbe passato dai 300 miliardi di dollari temuti nel 1999 ai 450 miliardi stimati per il 2001 e che per finanziare la guerra si sarebbe sconsacrato un mito americano: mai intaccare le risorse accantonate per le pensioni.

Il dollaro pare, invece, sfidare la legge economica di gravità: oggi ad 1,11 per ogni euro è quasi dove era a fine ottobre-inizio novembre 2000 (1,17 per ogni euro). A Wall Street, gli investitori si sono scottati le dita: il Dow Jones ha perso il 16,5 per cento e lo Standard & Poor il 19 per cento dall'inizio dell'anno. In Europa, invece, si sono bruciati le mani: il Financial Times Ebloc 100 ha perso il 30 per cento circa (in termini di dollari). Si deve, in gran misura agli indici Usa (non a quelli europei ed asiatici), se la caduta dell'indicatore mondiale del Morgan Stanley è stata solo del 23 per cento.

Il dollaro sconfigge Newton e la sua legge di gravità per due motivi. Da un lato, ci sono 6300 miliardi di dollari in fuga dai mercati emergenti (in particolare, Argentina, Brasile, Sud Africa, Tailandia, Taiwan, Turchia) che trovano negli Usa, pure in guerra ed in recessione, un'ultima spiaggia preferibile alle loro pareti domestiche. Da un altro c'è, a torto o ragione, il "market sentiment" che la flessibilità della politica economica e del mercato Usa risponderà alla situazione meglio, con più efficacia e con maggiore tempestività di quanto non potrà fare l'Europa continentale, imbrogliata in mille vincoli, e l'ormai ibernato Giappone.

16 novembre 2001

gi.pennisi@agora.it



 

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