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              Un indice per misurare la libertà economica. E non solodi Andrea Mancia
 
 Fondata nel 
              1973 a Washington, la Heritage Foundation è uno dei think thank 
              più prestigiosi ed influenti della destra statunitense. Il suo 
              scopo, si legge nello statuto, è quello di "elaborare e promuovere 
              strategie politiche basate sui principi del libero mercato, della 
              limitazione dell'interventismo statale, delle libertà individuali, 
              dei valori tradizionali americani e della difesa nazionale". Per 
              raggiungere questi obiettivi, lo staff della Heritage Foundation 
              produce periodicamente ricerche dedicate all'approfondimento di 
              alcuni temi-chiave della politica interna ed estera statunitense. 
              E cerca poi, spesso con efficacia, di coinvolgere nella 
              discussione intorno ai temi affrontati la classe dirigente Usa: i 
              componenti del Congresso e dell'esecutivo, i mass-media e la 
              comunità accademica. La fondazione, retta da un consiglio 
              indipendente di garanti, non ha fini di lucro e vive soltanto 
              grazie ai finanziamenti dei privati, visto che non accetta aiuti 
              pubblici o commesse esterne. Grazie ai suoi 250mila 
              "finanziatori", la Heritage Foundation è riuscita a diventare 
              l'associazione culturale con il maggior numero di sostenitori in 
              tutti gli Stati Uniti.
 
              Tra tutte le 
              attività svolte dalla Fondazione, in ogni caso, nessuna può essere 
              consideratà più utile ed interessante della pubblicazione 
              dell’Index of Economic Freedom, elaborato ogni anno (a partire dal 
              1995) in collaborazione con il Wall Street Journal. L’indice
              misura 
              in modo sintetico il grado di libertà economica esistente in un 
              numero  crescente di paesi (156 stati nell’ultima 
              edizione). L’analisi affronta una cinquantina di variabili 
              indipendenti che vengono poi raggruppate in 10 fattori-chiave: 
              politiche commerciali, pressione fiscale, intervento pubblico 
              nell’economia, politiche monetarie, flussi di capitali e 
              investimenti stranieri, attività bancaria, salari e prezzi, 
              diritti di proprietà, regolazione, mercato nero. Ogni paese 
              riceve, in ognuno di questi fattori, un punteggio compreso tra 
              1,00 (massimo grado di libertà economica) e 5,00 (minimo grado di 
              libertà economica). E la media ponderata di questi risultati 
              fornisce il punteggio finale complessivo (indicatore del grado di 
              libertà economica) per ciascuno stato. Punteggi tra 1,00 e 1,95 
              connotano paesi come "liberi", tra 2,00 e 2,95 "prevalentemente 
              liberi", tra 3,00 e 3,95 "prevalentemente non liberi", tra 4,00 e 
              5,00 "repressi". 
              Una sorta di 
              “Top Ten” della libertà economica, dunque, che però fornisce
              diversi 
              elementi di valutazione per la comprensione della natura e delle 
              dinamiche dei sistemi politici. Come dimostrato ampiamente dai 
              curatori dell’Index, infatti, il grado di libertà economica di un 
              paese è strettamente ed indissolubilmente correlato con il suo 
              tasso di sviluppo e prosperità. I cittadini dei paesi "liberi" 
              guadagnano più del doppio - a parità di potere d'acquisto - di 
              quelli che vivono in paesi "prevalentemente liberi" (23.325 
              dollari pro-capite contro 11.546). Per non parlare dei salari medi 
              dei paesi "repressi" (3.829 dollari all'anno). Si tratta di un dato di fatto quasi scontato, 
              ma che dovrebbe far riflettere i tenaci avversari di qualsiasi 
              politica orientata verso la “liberazione” del mercato ma anche (e 
              soprattutto) i governanti del mondo occidentale. “La libertà 
              economica è come il matrimonio – ha scritto
              
              
              Robert L. Bartley 
              nel suo articolo di presentazione sul Wall Street Journal – 
              richiede un impegno serio e molta perseveranza. Putroppo molti 
              paesi scelgono la via delle ‘mezze misure’ che evitano forse 
              problemi a breve scadenza ma che si rivelano disastrose nel lungo 
              periodo”. L’Italia, come il resto del mondo “libero” si trova oggi 
              di fronte ad un bivio. Uno studio serio dell’Index of Economic 
              Freedom può sicuramente aiutarci a scegliere la strada giusta tra 
              libertà e repressione.  
              
              23 novembre 2001 
              
              anmancia@tin.it 
              
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