Uno spazio elettrico comune?
Gianguido Piani
Con la direttiva 96/92/CE l’Unione Europea ha posto le basi per lo
sviluppo di un mercato continentale dell’energia elettrica (in
Italia la direttiva Ue è stata recepita dal Decreto legislativo 16
marzo 1999, n. 79). Lo scopo prefisso è il raggiungimento
progressivo di prezzi e condizioni il più possibile simili nel
territorio dell’Unione per mezzo dei meccanismi di mercato e della
concorrenza. Per questo uno dei suoi punti salienti è l’apertura
del mercato energetico entro il 2003 ad ogni cliente con almeno 9
GWh di consumo annuale (ad esempio, un’azienda medio-grande), che
avrà il diritto di rivolgersi al fornitore di sua scelta
all’interno dell’Ue. La direttiva Ue non entra in questioni di
dettaglio di implementazione e lascia liberi i singoli paesi di
disciplinare autonomamente la materia. Essa non dà indicazioni
riguardo l’assetto proprietario delle aziende elettriche, che
possono così essere sia pubbliche che private, ma pone al centro
dell’attenzione l’apertura formale alla concorrenza secondo i
princìpi del trattato di Maastricht. Il metodo indicato è la
separazione (unbundling) tra le funzioni di generazione,
trasmissione e distribuzione dell’energia elettrica, che
idealmente dovrebbero essere responsabilità di aziende
indipendenti. Nel caso di società elettriche integrate
“verticalmente” (che comprendono cioè almeno due delle funzioni
sopracitate) è richiesta la divisione operativa ed amministrativa
tra i diversi settori in modo da evitare sovvenzioni incrociate,
che metterebbero a rischio la concorrenza.
La direttiva Ue definisce inoltre princìpi per la costruzione di
nuova capacità generativa e per la gestione delle linee di
trasmissione. Anche se ai singoli stati è lasciata la facoltà di
definire criteri particolari (ad esempio vincoli ambientali o di
gestione del territorio), nell’insieme gli aspetti economici
prevalgono su quelli di sicurezza o di protezione ambientale. Si
richiede infatti, sia in relazione alla costruzione di nuovi
impianti, che in fase operativa che le priorità vengano stabilite
in base al merito economico, rovesciando così quello che fino ad
oggi è stato il principio fondamentale delle aziende elettriche
europee, cioè il garantire innanzitutto la sicurezza di
funzionamento del sistema elettrico. Un richiamo pro-forma
all’ambiente è la possibilità per i singoli stati di dare la
preferenza fino a un massimo del 2 per cento della produzione
totale ad energia prodotta da fonti alternative, unica eccezione
al principio dell’autoregolazione dei prezzi tramite il mercato.
Nell’insieme la direttiva non affronta adeguatamente le
problematiche centrali per la costruzione di un mercato
dell’elettricità, lasciando competenza in materia alle autorità
nazionali. Si va così incontro a soluzioni differenti, spesso
incompatibili e comunque ancora lontane da una reale concorrenza
di mercato. Questa limitazione è stata recentemente riconosciuta
dalla stessa Commissione europea.
Mercato in rete
La rete elettrica europea si è sviluppata nell’arco di più di un
secolo ed è oggi completamente integrata. Le diverse reti
nazionali sono collegate tra di loro da linee ad alta tensione
(220 e 380 kV) e per il coordinamento del sistema tutti gli enti
nazionali (Enel, EdF e altri) sono riuniti nell’Ucte (Union for
the Co-ordination of Transmission of Electricity). Una delle
conseguenze dell’unbundling è che la trasmissione di energia ad
alta tensione su lunghe distanze diventa responsabilità di gestori
di rete (Transmission System Operator) indipendenti dalle società
generatrici, che a loro volta devono potere accedere alla rete in
modo “equo e non-discriminatorio”. Le reti internazionali europee
sono però attualmente dimensionate soprattutto per garantire la
stabilità del sistema elettrico nel suo complesso, ottenuta con
scambi limitati di energia, ma non sono state progettate per
trasportare grandi quantità di energia su lunghe distanze. Esse
sono pertanto ancora una risorsa limitata e rappresentano di fatto
un monopolio naturale nel quale i meccanismi di mercato non
possono funzionare in modo adeguato. Le reti elettriche presentano
inoltre un paradosso pratico che ostacola la libertà di
generazione e di vendita di energia. Più una rete è interconnessa
e più essa funziona in modo stabile e sicuro in quanto i flussi di
potenza si distribuiscono su più percorsi. Diventa però più
difficile misurare tali flussi e soprattutto metterli in relazione
a specifiche transazioni, in quanto essi influiscono su molti
punti della rete, indipendentemente da confini politici e
commerciali (Lorrin Philipson and H. Lee Willis, “Understanding
Electric Utilities and De-Regulation”, Marcel Dekker Inc., New
York, Basel, 1998).
Inoltre, se i punti di immissione di potenza in rete si spostano
rispetto al modo in cui la rete è stata inizialmente concepita e
dimensionata, la sicurezza stessa della rete non è più garantita
in caso di sovraccarico di componenti quali linee e trasformatori.
Questo aspetto è tanto più importante in considerazione del fatto
che con la liberalizzazione è proprio la rete a rappresentare il
“mercato” reale, cioè il punto di incontro tra domanda ed offerta
fisica di potenza elettrica sulla base dei quali si decidono i
prezzi e si determinano i necessari flussi di pagamento. La
direttiva Ue richiede la trasparenza dei prezzi di accesso alla
rete, senza però presentare una metodologia comune per la
definizione delle tariffe. Si presuppone cioè che la trasparenza
sia di per sé sufficiente a portare all’adeguamento dei prezzi su
scala europea, anche se per forza di cose le reti restano
monopolio nella loro regione geografica: quanto servirà la
pubblicazione delle tariffe irlandesi a fare ridurre quelle in
Austria? Le tariffe di rete possono dipendere da diversi
parametri, il più importante dei quali è la distanza tra
generatore e consumatore; una tariffa che non dipende dalla
distanza è chiamata del “francobollo”. Il senso della tariffa
“francobollo” è quello di non penalizzare i clienti localizzati
nelle zone più periferiche e quindi maggiormente distanti dai
principali punti di generazione. Essa ha l’indubbio vantaggio
della semplicità, ma non riflette i maggiori investimenti in
impianti fissi e le maggiori perdite di energia in rete per i
trasporti a distanza e rappresenta quindi una sovvenzione
implicita da parte degli utenti vicini alle loro centrali verso
quelli che si servono da produttori più lontani. Al contrario,
tariffe correlate alla distanza giocherebbero contro la
concorrenza sulla base solo delle offerte di generazione ed a
favore di una pianificazione economica complessiva, contraddicendo
così parte degli stessi presupposti che hanno motivato la
liberalizzazione del mercato elettrico.
Il gestore della rete di trasmissione deve garantire la stabilità
e la sicurezza operativa della rete stessa. Non solo la rete deve
continuare a funzionare anche quando qualche suo componente va
fuori uso (le circostanze possono essere improvvise – fulmine che
colpisce una linea ad alta tensione), ma è necessario che la
generazione di elettricità compensi esattamente i consumi, istante
per istante. Il compito è relativamente semplice se il gestore
della rete ha anche il controllo della produzione, come nel caso
di società elettriche integrate “verticalmente”, ma si complica
enormemente quando le società di generazione operano in maniera
indipendente. La direttiva Ue e le legislazioni nazionali tendono
a interpretare il rispetto di parametri di sicurezza, o anche
semplici indicazioni operative del gestore alle società
generatrici, quali ostacoli alla libertà di commercio. Al momento
le ridotte capacità – in parte pretestuose, in parte reali – delle
grandi reti europee limitano le possibilità di transazioni
commerciali sul continente (solo l’8 per cento degli scambi di
energia all’interno dell’Ue avviene oggi oltre un qualche confine
nazionale). Il sottodimensionamento delle linee elettriche alpine
che collegano l’Italia all’Europa centrale è attualmente addotto
come ostacolo per l’unificazione del mercato italiano con quello
europeo (Delibera n. 179/99 dell’Autorità per l’Energia elettrica
e il gas). La soluzione più naturale sarebbe la costruzione di
nuove linee, che, se gestite da operatori diversi da quelli
monopolisti attuali, potrebbe servire ad introdurre elementi di
vero mercato in rete.
Elettricità virtuale
La liberalizzazione del settore elettrico ha già portato
importanti cambiamenti nel modo di operare delle società
generatrici e dei clienti con accesso al mercato. L’effetto è
maggiormente visibile in Germania e nei Paesi Scandinavi, dove già
da diversi anni tutte le classi di utenza possono scegliere a
piacere il loro fornitore di elettricità. I mercati dell’energia
elettrica sono la conseguenza più diretta della visione liberista
del settore e servono in primo luogo a formarne il prezzo,
ovviamente nell’aspettativa di una sua riduzione. La natura
dell’elettricità – prodotto atipico per molti aspetti – rende però
difficile la costruzione di un mercato. Essa infatti, pur con
differenze nelle quantità e nella distribuzione temporale delle
richieste di potenza da parte dei diversi utenti, è identica per
tutti e in particolare non è possibile riferire una particolare
fornitura ad un determinato provider energetico; al contrario,
ogni utente riceve un “mix” di tutto quanto è immesso in rete. Il
mercato dell’elettricità diventa così di fatto una simulazione a
computer, possibile solo grazie a complessi strumenti
tecnico-informatici per registrare e contabilizzare le diverse
transazioni energetiche. La definizione dei prezzi
dell’elettricità può avvenire in diversi modi.
La soluzione adottata in Gran Bretagna prevede un acquirente unico
(single buyer) e un metodo simile a quello d’asta, con la scelta
delle offerte dei generatori in base alla loro economicità. Un
altro approccio, comune tra l’altro in Germania e negli Stati
Uniti, prevede contratti diretti di fornitura e acquisto,
lasciando che il mercato si regoli autonomamente; sono anche
possibili soluzioni miste, che prevedono l’azione parallela di
contratti bilaterali e della borsa. Su questo punto la direttiva
Ue è molto aperta e lascia spazio a diverse soluzioni. Agli
strumenti iniziali di determinazione dei prezzi si sono in seguito
aggiunte le operazioni spot e a termine, prese a modello da
soluzioni simili per i mercati delle merci. Sono così nati i nuovi
ruoli professionali dei traders, che organizzano a provvigione
affari di compravendita di energia, e dei brokers, che, pur senza
capacità generativa propria, acquistano e rivendono energia in
tempi diversi speculando sul previsto differenziale dei prezzi.
Malgrado la loro apparenza innovativa ed il loro fascino da new
economy, traders e brokers non portano alcun beneficio energetico
netto. E come ogni altro strumento finanziario, anche le borse
dell’energia elettrica possono essere usate per interessi di
parte. Un metodo periodicamente sfruttato dai grandi produttori è
la riduzione dell’offerta regolare di energia, spingendo così al
rialzo i prezzi spot ed i relativi margini di guadagno.
I nuovi paradigmi di mercato portano ad effetti paradossali. La
concorrenza spinge le società elettriche ad ottimizzare i loro
processi interni, ma non può influire sui fattori esterni, in
primo luogo sul costo di petrolio e gas naturale. L’abbassamento
iniziale dei prezzi dell’elettricità con il passaggio al mercato
avviene pertanto a costo di drastici tagli alle spese di
manutenzione e rinnovo degli impianti, con il rischio che i
risparmi di oggi si rifletteranno su un maggior numero di
malfunzionamenti domani.
Una tendenza attuale delle società elettriche è quella di ridurre
il numero degli impianti di generazione. La nuova strategia è
molto semplice: generare meno energia in proprio e cercarla sul
mercato quando è necessario, il che significa farla produrre ad
altri. Nei paesi dell’Europa centro-settentrionale questo permette
di implementare decisioni, sostenute dalle locali popolazioni
“ambientaliste”, quali l’abbandono progressivo del nucleare ed il
contenimento delle emissioni di CO2. Per questo motivo, e grazie
ad un imponente parco nucleare che si guarda bene dal dismettere,
la Francia acquista sempre più importanza come fornitore di prima
scelta nel panorama energetico europeo. Lo stesso vale per
l’Europa orientale: l’enorme necessità di capitali per finanziare
la modernizzazione delle proprie infrastrutture energetiche porta
paesi quali Repubblica Ceca, Ucraina e Russia a vendere energia
elettrica all’Occidente a basso prezzo. E dato che nel caso di
operazioni di mercato oltre confine non è chiaro come
contabilizzare le emissioni di CO2, se nel paese dove
l’elettricità è prodotta oppure dove essa è consumata, con un poco
di contabilità creativa diventa possibile ridurre l’impatto
ambientale della generazione di energia in ogni paese preso da
solo, mentre il totale, ovviamente, aumenta.
E un’altra conseguenza, già osservabile in Svezia e in California,
è che importanti utenti hanno iniziato a dotarsi di gruppi
elettrogeni per fare fronte ai crescenti blackout delle forniture
elettriche, mentre il finanziamento di grandi impianti di
generazione diventa più difficile perché le banche temono un
mercato sempre più incerto e rischioso. Ci sia permesso di
dubitare del senso macroeconomico e ambientale di questo tipo di
liberalizzazione! La possibilità di agire come fornitori senza
limiti di capacità generativa (grazie al mercato) e di locazione
geografica spingono le società elettriche a cercare di aumentare
la base clienti con i relativi flussi di cassa. A questo scopo
acquistano enorme importanza il marketing, che in regime di
monopolio sarebbe superfluo o quasi, e la pubblicità. In un paese
come la Germania, dove le società elettriche sono state a lungo
caratterizzate da un eccessivo burocratismo e arroccate su di un
granitico monopolismo, il nuovo atteggiamento di “fornitori di
servizi” è un risultato certamente positivo. L’aspetto della
liberalizzazione più visibile per il grande pubblico nordeuropeo
ed americano resta però una valanga pubblicitaria comparabile a
quella che ha luogo in Italia con i telefonini.
Quale energia per l’Europa?
La direttiva Ue nella sua forma attuale appare come la somma di
tanti compromessi più che una linea di condotta razionale e
orientata ad un coerente sviluppo futuro del sistema energetico
dell’Unione Europea. Malgrado un tono liberista-thatcheriano, il
percorso di apertura al mercato non è portato a compimento,
soprattutto in considerazione delle numerose limitazioni tecniche
che caratterizzano i sistemi elettrici. Il mercato è pertanto
ancora molto più apparente, che sostanziale. L’Unione Europea si
trova ad agire in maniera schizofrenica, divisa tra un ruolo
liberista ed uno di regolatore e pianificatore, e a volte non è
nemmeno in grado di risolvere i problemi più semplici. Ad esempio,
proprio nel settore elettrico l’Ue non è ancora riuscita a
definire prese di corrente unificate, ostacolando così il mercato
europeo degli apparecchi elettrici più comuni. L’utente europeo
può ormai acquistare ovunque un asciugacapelli o una radiosveglia
pagando in euro, ma rimane costretto ad usare l’adattatore per
collegarli alla sua presa nazionale. E a dispetto di bollette
calcolate ormai ovunque in euro, l’acquisto di energia oltre
confine resta un’operazione complicata e di fatto limitata a pochi
e selezionati utenti. La stessa Commissione europea ha
riconosciuto questi problemi nel documento presentato alla
Conferenza dei capi di stato e di governo Ue (Stoccolma, marzo
2001) e proposto l’apertura totale del mercato elettrico entro il
2005. La conferenza ha però preferito rinviare a data futura
qualsiasi decisione in merito. Se si vuole evitare che il mercato
elettrico funzioni da oligopolio occorre avere il coraggio di
procedere con la sua completa apertura, facendo uso di tutti i
mezzi realistici offerti dalla tecnologia. Occorre però anche
riconoscere i limiti oggettivi dei sistemi elettrici e superare
semplicistiche pregiudiziali ideologiche “pro” o “contro” il
mercato, sfruttandone gli aspetti positivi ma senza pretendere da
esso quello che non è in grado di dare.
29 novembre 2001
(da Ideazione 3-2001, maggio-giugno)
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