Un’isola della corrente
di Guido Possa
Le “liberalizzazioni” dei mercati dell’energia elettrica e del gas
(mercati un tempo ben distinti, tendenti ora in parte a
sovrapporsi), sono state certamente le innovazioni di gran lunga
più importanti introdotte nella XIII legislatura nel settore della
politica industriale. L’intera struttura della nostra industria
operante in questi due mercati sia sul lato dell’offerta sia sul
lato della domanda ne risulterà a lungo termine profondamente
modificata. Entrambe queste innovazioni legislative sono state
innescate da due direttive europee: la direttiva n. 96/92/CE del
19 dicembre 1996 concernente “norme comuni per il mercato interno
dell’energia elettrica” e la direttiva n. 98/30/CEE del 22 giugno
1998 concernente “norme comuni per il mercato interno del gas”.
L’espressione “mercato interno” significa il mercato comune
dell’insieme dei quindici paesi dell’Unione Europea. Entrambe le
direttive sono a maglia piuttosto larga e in vari punti ingenue o
mal strutturate. Comunque le prescrizioni di fondo sono chiare: le
legislazioni nazionali devono essere modificate in modo da
garantire a tutti i produttori di energia elettrica e del gas
dell’Unione Europea la possibilità di offrire le proprie
produzioni nei paesi membri, in aperta e leale concorrenza tra
loro, senza restrizioni, favoritismi o penalizzazioni, e altresì
in modo da garantire ai clienti finali (inizialmente solo ai
maggiori consumatori, definiti clienti idonei, ma progressivamente
a tutti) la possibilità di accedere con contratti diretti ai
produttori di energia elettrica e di gas. Le direttive richiedono
in particolare: l’abolizione dei monopoli nazionali storicamente
creati nei due settori dell’energia elettrica e del gas, il libero
accesso alle reti di trasporto a condizioni eque e trasparenti da
parte dei produttori che lo richiedono e l’immediata suddivisione
dei clienti finali nelle due categorie dei clienti idonei e dei
clienti vincolati, i primi costituiti dai clienti di maggiore
importanza, idonei a stipulare contratti diretti con i produttori,
i secondi, i piccoli consumatori, vincolati all’utilizzo di un
unico predeterminato fornitore.
Si tratta di direttive che non è eccessivo definire di portata
rivoluzionaria rispetto alla realtà prevalente in Europa fino a
qualche anno fa, caratterizzata nella maggior parte dei paesi
dalla nazionalizzazione delle imprese fornitrici di servizi di
pubblica utilità (energia elettrica, gas, distribuzione
dell’acqua, trasporto ferroviario, telecomunicazioni). Tale scelta
si era storicamente imposta nei diversi stati per varie ragioni,
di natura sia economica, sia politica, sia ideologica. Tra esse in
particolare: la volontà di garantire a tutti i cittadini in modo
possibilmente uniforme su tutto il territorio nazionale la
fruizione dei servizi di pubblica utilità, ritenuti sempre più
“diritti economici” dei cittadini, volontà unita alla convinzione
che solo il monopolio pubblico avrebbe consentito di raggiungere
in breve tempo tale obiettivo; la diffusa opinione che in alcuni
settori produttivi (in particolare, in quello dell’energia
elettrica) la sola forza del mercato non fosse in grado di
indirizzare le scelte d’investimento nella direzione che superiori
interessi nazionali richiedevano; una forte avversione ideologica
nei confronti di situazioni caratterizzate dal controllo da parte
di privati di segmenti di attività industriale in tutto o in parte
monopolio naturale. Negli ultimi due decenni tale prevalente
assetto ha subìto nelle opinioni pubbliche e politiche dei paesi
europei un processo di profonda revisione. Ad esso hanno
contribuito diverse motivazioni, sia di tipo politico (in
particolare, la fine della contrapposizione bipolare
capitalismo-comunismo e l’affermarsi negli stati europei della
prospettiva politica dell’Unione Europea a superamento delle
tradizionali politiche nazionali di potenza), sia di tipo
economico (in particolare, la progressiva convinzione che
l’affidamento della produzione e distribuzione di beni
fondamentali per la comunità dei cittadini, quale l’energia
elettrica, ad una unica impresa monopolistica comportasse ormai
molte più inefficienze che benefìci).
La “delega” al governo
Entrambe le “liberalizzazioni” di cui parliamo sono state
introdotte nella nostra legislazione con una identica procedura:
a) recepimento della direttiva mediante la legge comunitaria
annuale; b) conferimento al governo nella stessa legge comunitaria
di una delega legislativa (caratterizzata da criteri e principi
direttivi assai generici) per la ridefinizione di tutti gli
aspetti rilevanti del sistema; c) emanazione da parte del governo
del decreto legislativo attuatore della delega. Per quanto
riguarda la liberalizzazione del mercato elettrico, le fasi a) e
b) sono state realizzate con la legge comunitaria del 1998 (la
legge 24 aprile 1998, n. 128) all’articolo 36, e la fase c) con il
decreto legislativo n. 79 del 1999 (il cosiddetto decreto Bersani)
entrato in vigore il 1 aprile 1999. Per quanto riguarda la
liberalizzazione del mercato del gas, le fasi a) e b) sono state
realizzate con la legge comunitaria del 1999 (la legge 17 maggio
1999, n. 144) all’articolo 41, e la fase c) con il decreto
legislativo 23 maggio 2000 n. 164. Circa questa procedura dobbiamo
innanzitutto severamente stigmatizzare il ricorso alla delega
legislativa fatto dalla maggioranza di centrosinistra (comune a
moltissimi altri casi nella XIII legislatura).
Delegare al governo il riassetto legislativo di settori produttivi
del paese così importanti, sulla base di princìpi e criteri
direttivi molto generici, significa esautorare il Parlamento dalle
proprie competenze, violando patentemente la Costituzione. Ma c’è
di più e di peggio. L’onere legislativo che con tanta
dilettantesca facilità il governo ha assunto con tali deleghe, si
è dimostrato, almeno nel caso della definizione del nuovo assetto
del mercato dell’energia elettrica, ben superiore alla capacità di
elaborazione, di mediazione e di sintesi necessaria. Di tale
inadeguatezza sono ad esempio prove i vistosi ritardi di molti
mesi che hanno afflitto la quasi totalità delle decine di
adempimenti previsti dal fondamentale decreto legislativo Bersani,
adempimenti essenziali per il concreto avvio del nuovo sistema
elettrico italiano: in questo quadro il governo non è stato
nemmeno in grado di prevedere correttamente, al momento
dell’emanazione di questo decreto, quanto tempo sarebbe stato
necessario per provvedere alla preparazione dei propri
adempimenti.
Un mercato isolato.
Il consumo di energia elettrica in Italia è stato nel 1999 pari a
circa 265 miliardi di kWh, l’unità di energia elettrica
comunemente utilizzata. Un’idea sul significato fisico di tale
unità di misura può trarsi dai seguenti elementi: per produrre un
kWh in un impianto idroelettrico sono necessari 367 Kg d’acqua che
cadono da 1000 metri (assumendo un rendimento di conversione pari
ad 1); per produrre un kWh in un impianto termoelettrico è
necessario bruciare 0,215 kg di olio combustibile (assumendo un
rendimento di conversione pari a 0,4). Il consumo di energia
elettrica cresce attualmente in Italia al ritmo di circa il 2 per
cento per anno. Ma le potenzialità di crescita sono superiori. La
politica tariffaria italiana ha infatti sempre voluto comprimere
fortemente alcuni consumi di energia elettrica, in particolare
quelli domestici superiori ad una data soglia, piuttosto bassa (i
consumi domestici sono circa un quarto di tutti i consumi). Un
solo esempio: l’utente domestico residente con potenza installata
di 3kW (la potenza di gran lunga più adottata in Italia) ha pagato
nell’ultimo bimestre 2000 il consumo bimestrale eccedente 440 kWh
(un consumo nient’affatto eccezionale) la bellezza di 490,8 lire
il kWh (una enormità).
Il prezzo dell’energia elettrica per l’utente finale dipende dalla
somma dei tre costi di produzione (importazione), trasporto e
distribuzione. Sia i costi di trasporto sia i costi di
distribuzione sono in Italia più elevati che non nella maggior
parte degli altri paesi europei, per varie ragioni, tra cui la
difficile orografia del nostro paese e certi oneri associati al
trasporto dell’energia elettrica. Si tratta di costi di un certo
rilievo, poco comprimibili, nettamente inferiori tuttavia al costo
di produzione. E' questa la voce di costo che ha la massima
incidenza sul prezzo finale dell’energia elettrica. Il costo di
produzione dell’energia elettrica è a sua volta la somma di due
costi, il costo di ammortamento e manutenzione dell’impianto di
produzione e il costo di approvvigionamento del materiale
necessario per far girare l’impianto. Poiché in Italia circa l’80
per cento della produzione di energia elettrica avviene per via
termoelettrica (e, per la parte restante, il 18,5 per cento per
via idroelettrica, l’1,5 per cento per via geotermica e solo lo
0,05 per cento per via eolica e solare), la principale voce di
costo dell’energia elettrica è costituita dal costo di
approvvigionamento dei combustibili da bruciare negli impianti
termoelettrici, che sono attualmente nell’ordine: gas naturale,
olio combustibile, carbone, orimulsion, combustibili in gran parte
approvvigionati sui mercati esteri.
Il consumo di gas in Italia è stato nel 1999 pari a circa 68
miliardi di metri cubi, poco meno di un terzo (31 per cento)
dell’intero fabbisogno energetico nazionale (181,4 milioni di
tonnellate equivalenti di petrolio). Il consumo di gas è in
rilevante espansione (3,3 per cento per anno), principalmente
perché il gas sta sostituendo l’olio combustibile nella produzione
di energia elettrica. L’approvvigionamento è stato coperto (sempre
per il 1999) per il 27 per cento circa dalla produzione nazionale
e per il restante 73 per cento dalle importazioni. L’Eni
attraverso l’Agip controlla quasi il 90 per cento della produzione
nazionale. Un altro produttore nazionale di rilievo è l’Edison (8
per cento). Oltre il 90 per cento delle importazioni sono
effettuate dall’Eni (attraverso la Snam). Il secondo importatore
nazionale di gas è l’Enel, il terzo è l’Edison. Il gas viene
importato in Italia tramite metanodotti, tutti realizzati dall’Eni
in collaborazione con imprese estere e ora in comproprietà
dell’Eni con tali imprese. I paesi da cui si importa il gas sono
principalmente tre: Algeria (per il 54 per cento del totale delle
importazioni), tramite il metanodotto a due linee che attraversa
il canale di Sicilia, Russia (per il 38 per cento delle
importazioni), tramite un apposito lunghissimo metanodotto che
attraversa tutta l’Europa, e Olanda (per il 6 per cento delle
importazioni).
Il metanodotto che collega l’Olanda con l’Italia è l’unico
interamente entro il territorio dell’Unione Europea. Una piccola
percentuale delle importazioni, riguardante l’importazione di gas
dalla Nigeria contrattata dall’Enel, avviene tramite navi
metaniere che fanno la spola tra la Nigeria e un porto attrezzato
situato in Francia (di qui il gas viene inviato a destinazione
tramite i metanodotti di Gas de France e Snam). I metanodotti sono
opere assai costose da realizzare. Per assicurare il loro
ammortamento i contratti di approvvigionamento del gas hanno una
durata assai lunga, non inferiore a 20-25 anni, e la forma
singolare di contratti take or pay (in base ai quali il gas viene
comunque pagato, anche se non ritirato), una forma per
l’acquirente insieme un po’ capestro e un po’ protettiva. A parte
un piccolo impianto situato vicino a La Spezia, l’Italia non
dispone attualmente di porti attrezzati per l’attracco di navi
metaniere. Perché tali navi, che trasportano il gas sotto forma
liquida, raffreddato a temperature bassissime, possano scaricare
il loro contenuto, è necessario che il porto sia attrezzato con
apposito impianto gassificatore. Si tratta di un tipo d’impianto
complesso e costoso. Attualmente in Italia sono previsti due
impianti, entrambi sulla costa dell’Adriatico: uno in progetto a
Brindisi, con un investimento della società inglese British Gas,
ed uno sul punto di essere concretizzato a Rovigo dove sarà
costruita un’isola artificiale al largo della laguna, su progetto
Edison-Mobil.
I nuovi concorrenti
Sono ormai trascorsi due anni dall’entrata in vigore del decreto
Bersani che ha avviato la liberalizzazione del mercato elettrico.
Esaminiamo quali sono stati finora i suoi effetti e quali saranno
quelli prevedibili nel prossimo futuro. Il decreto Bersani ha
separato verticalmente i tre segmenti di mercato della produzione
di energia elettrica, del trasporto e della distribuzione. Solo il
segmento di mercato della produzione di energia elettrica è stato
ritenuto pienamente contendibile, alla condizione tuttavia che
l’operatore dominante Enel Spa dal 1 gennaio 2003 non possa
produrre o importare (e perciò vendere) più del 50 per cento del
totale dell’energia elettrica prodotta e importata in Italia e
entro la stessa data abbia ceduto ai concorrenti una parte dei
propri impianti di produzione, (suddivisi nelle tre società di
produzione Elettrogen, Eurogen e Interpower) per un totale di
15.000 MW. Per inciso, questa è una potenza piuttosto rilevante,
pari a circa il 30 per cento della potenza massima richiesta dalla
rete italiana alla punta di consumo, che si verifica in dicembre
(50.000 MW). Nessuna di queste tre cessioni è a tutt’oggi
avvenuta. E' attualmente in corso la gara per la vendita di
Elettrogen. Il segmento del trasporto dell’energia elettrica
(costituito dalla rete di trasmissione dell’energia elettrica ad
alta tensione e dai suoi dispositivi di controllo) è stato
affidato in regime di monopolio ad una società pubblica di nuova
costituzione, il Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale
(Grtn), interamente posseduta dal Tesoro, società che sta muovendo
in questi mesi i suoi primi passi. Al Grtn è stato anche affidato
il delicato compito del dispacciamento degli impianti di
produzione nazionali (e delle importazioni), ossia del comando del
livello dell’energia elettrica erogata in ogni istante da ogni
impianto di produzione e da ogni linea di importazione.
Tale centralizzazione assicura che in ogni istante la somma
dell’energia elettrica prodotta in Italia e di quella importata
sia corrispondente a quella richiesta dai consumatori italiani,
corrispondenza necessaria poiché l’energia elettrica non si può
immagazzinare (a parte il pompaggio d’acqua dal bacino inferiore a
quello superiore in impianti idroelettrici a due bacini). Il
decreto Bersani lascia all’Enel la nuda proprietà della rete
nazionale di trasmissione. Nel segmento della distribuzione di
energia elettrica, anch’esso avente carattere di monopolio come
quello del trasporto (data la non duplicabilità delle rete di
distribuzione), il decreto Bersani ha adottato la soluzione della
concessione di servizio pubblico. Le date di scadenza delle
concessioni in essere sono state prorogate al 31 dicembre 2030. Di
tali concessioni fruiscono l’Enel e le società partecipate dagli
Enti locali, nelle città in cui sono operanti e in ambiti
territoriali contigui.
Come abbiamo detto, il segmento di mercato nettamente più
importante ai fini dell’incidenza sul prezzo finale dell’energia
elettrica è quello della produzione. Vediamo cosa hanno fatto gli
operatori presenti su questo mercato in questi due anni. In questo
periodo l’Enel non ha fatto nessun importante investimento in
nuovi impianti di produzione di energia elettrica o in modifiche
di impianti esistenti. Va notato che gli impianti termoelettrici
dell’Enel, progettati a suo tempo come impianti policombustibile
(e ancora molto validi se considerati in quest’ottica), bruciano
attualmente gas metano con un basso rendimento di conversione (il
38-39 per cento), mentre i moderni impianti a gas a ciclo
combinato riescono ad ottenere rendimenti del 55 per cento. Il
grande parco impianti dell’Enel non conta nemmeno un impianto di
questo tipo. Non pungolata dalla concorrenza, l’Enel si è
comportata come una qualunque società industriale in un mercato
totalmente dominato, evitando di fare investimenti in nuovi
impianti e scaricando sui consumatori l’eccesso di costi di
approvvigionamento del combustibile dovuto ai suoi impianti non
specializzati per l’uso del gas.
L’Enel ha effettuato quasi unicamente investimenti volti ad
assicurare la possibilità di fornitura di servizi aggiuntivi
rispetto a quello tradizionale della vendita di energia elettrica
(gas, acqua, telecomunicazioni, eccetera), investimenti ritenuti
strategici perché in grado di garantire un vantaggio competitivo
sul mercato che si produrrà nel lungo periodo, previsto essere
quello della fornitura congiunta di una pluralità di servizi.
Anche i concorrenti dell’Enel attuali e potenziali (Edison,
Sondel, Società partecipate dagli enti locali, Eni, eccetera) non
hanno fatto investimenti importanti in nuovi impianti. Essi sono
rimasti in attesa della vendita delle tre società Elettrogen,
Eurogen e Interpower e in attesa altresì dell’emanazione di uno
dei decreti previsti dal decreto Bersani, quello relativo alla
semplificazione delle procedure autorizzatorie e concessorie
relative a nuovi impianti e a modifiche di vecchi impianti di
produzione di energia elettrica (decreto che ha visto la luce in
questi giorni, con un ritardo di un anno (!) rispetto alla
scadenza prevista del 1 aprile 2000).
Obiettivi a lungo termine
E’ naturale chiedersi a questo punto quanto tempo sarà ancora
necessario perché il mercato della produzione di energia elettrica
diventi in Italia realmente contendibile e la concorrenza cominci
ad assicurare agli utenti consistenti diminuzioni del prezzo
dell’energia elettrica. Ad avviso dello scrivente, saranno
necessari ancora parecchi anni, certamente non meno di cinque, e
non è detto che cinque anni bastino. Per impensierire l’Enel i
produttori italiani competitori dovranno o dotarsi di nuovi
impianti di produzione (del tipo a gas a ciclo combinato) o
modificare gli impianti termoelettrici acquisiti dall’Enel nelle
tre società Elettrogen, Eurogen e Interpower, trasformandoli in
impianti del tipo a gas a ciclo combinato. Ma per realizzare
questi nuovi impianti o per modificare i vecchi impianti occorrerà
molto tempo. Basti pensare che attualmente il tempo di
approvvigionamento del componente più importante degli impianti a
gas a ciclo combinato, la turbina a gas, è di almeno 36 mesi
dall’ordine. Durante questo prevedibilmente lungo transitorio le
uniche garanzie che il consumatore avrà circa una ragionevole
correttezza del prezzo dell’energia elettrica (e circa una sua
progressiva diminuzione mediante il meccanismo del price cap)
saranno dovute all’azione di controllo esercitata dall’Autorità
per l’energia elettrica e il gas. Questa previsione assume
implicitamente che l’Enel sia poco esposta alla concorrenza delle
importazioni di energia elettrica. Occorre al riguardo fornire
qualche spiegazione. Come è noto, i prezzi del kWh in Francia e
Germania sono molto inferiori a quelli praticati in Italia,
essendo i costi di produzione minori del 35-40 per cento.
L’Italia importa attualmente (e da anni) circa il 16 per cento del
proprio consumo di energia elettrica, una quota molto elevata,
equivalente alla produzione di impianti eroganti una potenza
complessiva di circa 5500 MW. L’importazione di energia elettrica
è tale da saturare praticamente la portata delle linee elettriche
di collegamento ad alta tensione esistenti tra l’Italia e gli
altri paesi europei. Non è prevedibile che vi sia nel prossimo
futuro un importante ampliamento di tali collegamenti (sia per le
enormi difficoltà ad ottenere i permessi per nuovi elettrodotti,
sia per gli elevati costi di tali infrastrutture). Si potrà
ottenere invece qualche aumento dell’energia elettrica trasmessa
mediante le linee di collegamento esistenti. Ma l’unico
consistente beneficio che potranno avere gli utenti (o almeno gli
utenti in grado di stipulare contratti diretti con i produttori e
venditori di energia elettrica prodotta all’estero) deriverà dalla
possibilità di sostituire l’Enel nei contratti di importazione a
suo tempo stipulati (in condizione di monopolio), contratti ancora
in essere con l’Enel per un importo pari a circa il 50 per cento
del totale delle importazioni, ma progressivamente in scadenza nei
prossimi anni.
La strozzatura dei collegamenti elettrici in alta tensione tra
l’Italia e il resto d’Europa, isola, anche se non completamente,
il mercato italiano dell’energia elettrica da quelli degli altri
paesi europei. Tale parziale isolamento è destinato a protrarsi
per parecchi anni a venire. Il consumatore italiano potrà quindi
trarre solo un limitato beneficio dalla più favorevole situazione
relativa all’offerta di energia esistente nei mercati di paesi
vicini come la Francia e la Germania. In tali paesi, come
sappiamo, il costo di produzione dell’energia elettrica è oggi
inferiore di almeno il 40 per cento rispetto a quello effettivo in
Italia. Viene naturale domandarsi a che cosa sia dovuta questa
enorme differenza. Le cause sono diverse, tra cui anche cause
naturali come la maggiore scarsità di fonti energetiche primarie
nel nostro paese; ma le responsabilità nettamente prevalenti sono
politiche: il maggior costo di produzione dell’energia elettrica
italiana è in gran parte da attribuire alla nostra dissennata
politica energetica, che ha portato all’abbandono del nucleare con
il referendum del novembre 1987 e che ha vistosamente limitato
l’utilizzo di una fonte energetica primaria a buon prezzo come il
carbone. Tale maggior costo dell’energia elettrica in Italia ha
gravi conseguenze sulla competitività di tutta la nostra industria
energivora (l’industria siderurgica, l’industria metallurgica,
certe produzioni chimiche). Queste conseguenze sono tanto più
gravi quanto più aumenta il grado di globalizzazione
dell’economia. In particolare l’elevato costo dell’energia
elettrica sta determinando una forte e crescente spinta alla
delocalizzazione degli impianti delle industrie energivore fuori
del nostro paese.
Ma anche in prospettiva la situazione non andrà molto meglio.
Immaginiamo per un momento che tutto il nostro parco di impianti
termoelettrici sia trasformato in impianti a gas a ciclo
combinato, con rendimenti termodinamici pari al 55 per cento
(contro gli attuali rendimenti medi degli impianti termoelettrici
Enel pari al 38-39 per cento). Ebbene, anche in questa situazione
ipotetica e molto favorevole, con gli attuali prezzi del gas (che
è impensabile ritornino ai bassi valori di qualche anno fa) il
costo di produzione del kWh in Italia sarebbe di almeno 40 lire
superiore a quelli attuali in Francia e Germania. In sintesi lo
sviluppo in Italia di un mercato realmente competitivo nel settore
della produzione dell’energia elettrica, che porterà certamente
all’eliminazione degli impianti a minor rendimento e ad un
complessivo miglioramento dell’economia della produzione di
energia elettrica (sono questi i benefìci della concorrenza), non
potrà comunque se non in parte attenuare il grande divario
attualmente esistente in tale settore tra l’Italia e gli altri
principali paesi europei.
Un nuovo protagonista: il gas liquefatto
Il decreto legislativo che liberalizza il mercato del gas naturale
in Italia, emanato circa un anno fa, è intervenuto in una
situazione totalmente dominata dall’Eni. E' di proprietà dell’Eni
(della Snam) la rete nazionale dei metanodotti. L’Eni è di gran
lunga il principale produttore nazionale di gas e il principale
importatore di gas. Tale situazione dominante, praticamente di
tipo monopolistico, si è creata nei decenni successivi alla
seconda guerra mondiale per effetto della particolare politica di
intervento pubblico nel settore petrolifero iniziata da Enrico
Mattei. Il decreto regolamenta tutte le attività riguardanti la
filiera del gas: l’importazione, la coltivazione dei giacimenti,
lo stoccaggio, il trasporto e il dispacciamento, la distribuzione
e la vendita del gas. L’attività di trasporto e dispacciamento è
definita di interesse pubblico. A tutti gli utenti della rete di
trasporto deve perciò essere garantita libertà di accesso a parità
di condizioni, con la massima imparzialità. Tale diritto si
estende anche all’utilizzo dei terminali di Gnl (Gas Naturale
Liquefatto). L’attività di distribuzione del gas è definita di
servizio pubblico e come tale si svolge in regime di concessione.
E' prescritta la separazione societaria da tutte le altre
attività, sia per l’attività di trasporto e dispacciamento (che
però può comprendere, previa separazione contabile, l’attività di
stoccaggio), sia per l’attività di distribuzione. A decorrere dal
1 gennaio 2003 e fino al 31 dicembre 2010, nessuna impresa del gas
può vendere ai clienti finali più del 50 per cento del consumo
nazionale di gas su base annuale. Il decreto definisce i requisiti
per la qualifica di cliente idoneo. Comunque a partire dal 1
gennaio 2003 tutti i clienti saranno idonei. Per effetto del
decreto l’Eni si è recentemente dichiarato disponibile a vendere
in borsa la società proprietaria della rete nazionale dei
metanodotti, ad un prezzo intorno ai 20.000 miliardi. Ma le
tariffe di trasporto del gas sulla rete nazionale stabilite (o in
via di definizione) da parte dell’Autorità per l’energia elettrica
e il gas sono ben inferiori a quelle che retribuirebbero
convenientemente tale ammontare di capitale. Per il momento quindi
l’Eni non venderà la propria rete nazionale di metanodotti.
Anche il mercato italiano del gas è poco collegato ai mercati del
gas degli altri paesi dell’Unione Europea. L’unico grande
metanodotto transalpino esistente è quello utilizzato per il
trasporto in Italia del gas prodotto in Olanda. Risulta assai
difficile ad altri produttori e importatori europei di gas (come
Gas de France e British Gas) offrire ai clienti italiani in
competizione con l’Eni le proprie produzioni, data la limitatezza
delle portate trasportabili da questo unico metanodotto (in buona
parte occupato dai contratti di importazione di gas dall’Olanda).
Né d’altra parte sono in funzione in Italia terminali per navi
metaniere. Questa situazione di parziale isolamento è destinata a
perdurare, perché sia nuovi metanodotti transalpini sia terminali
per navi metaniere sono infrastrutture costose e di lunga
realizzazione. In conclusione, la liberalizzazione dei mercati
dell’energia elettrica e del gas in Italia, non sta portando
affatto ai consumatori italiani, nemmeno a quelli qualificati
clienti idonei; quei benefìci che forse ingenuamente avevano
sperato. La transizione dalle preesistenti strutture produttive a
base monopolistica e nazionale caratteristiche di tali mercati nel
nostro paese a quelle proprie di mercati unici pienamente
contendibili estesi al territorio di tutti i paesi dell’Unione
Europea, teorizzate nelle direttive, di cui abbiamo detto
all’inizio di questo articolo, si sta dimostrando assai più
complessa e delicata di quanto gli eurocrati di Bruxelles avevano
previsto.
29 novembre 2001
(da
Ideazione 3-2001, maggio-giugno)
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