Un’isola della corrente
di Guido Possa


Le “liberalizzazioni” dei mercati dell’energia elettrica e del gas (mercati un tempo ben distinti, tendenti ora in parte a sovrapporsi), sono state certamente le innovazioni di gran lunga più importanti introdotte nella XIII legislatura nel settore della politica industriale. L’intera struttura della nostra industria operante in questi due mercati sia sul lato dell’offerta sia sul lato della domanda ne risulterà a lungo termine profondamente modificata. Entrambe queste innovazioni legislative sono state innescate da due direttive europee: la direttiva n. 96/92/CE del 19 dicembre 1996 concernente “norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica” e la direttiva n. 98/30/CEE del 22 giugno 1998 concernente “norme comuni per il mercato interno del gas”. L’espressione “mercato interno” significa il mercato comune dell’insieme dei quindici paesi dell’Unione Europea. Entrambe le direttive sono a maglia piuttosto larga e in vari punti ingenue o mal strutturate. Comunque le prescrizioni di fondo sono chiare: le legislazioni nazionali devono essere modificate in modo da garantire a tutti i produttori di energia elettrica e del gas dell’Unione Europea la possibilità di offrire le proprie produzioni nei paesi membri, in aperta e leale concorrenza tra loro, senza restrizioni, favoritismi o penalizzazioni, e altresì in modo da garantire ai clienti finali (inizialmente solo ai maggiori consumatori, definiti clienti idonei, ma progressivamente a tutti) la possibilità di accedere con contratti diretti ai produttori di energia elettrica e di gas. Le direttive richiedono in particolare: l’abolizione dei monopoli nazionali storicamente creati nei due settori dell’energia elettrica e del gas, il libero accesso alle reti di trasporto a condizioni eque e trasparenti da parte dei produttori che lo richiedono e l’immediata suddivisione dei clienti finali nelle due categorie dei clienti idonei e dei clienti vincolati, i primi costituiti dai clienti di maggiore importanza, idonei a stipulare contratti diretti con i produttori, i secondi, i piccoli consumatori, vincolati all’utilizzo di un unico predeterminato fornitore.

Si tratta di direttive che non è eccessivo definire di portata rivoluzionaria rispetto alla realtà prevalente in Europa fino a qualche anno fa, caratterizzata nella maggior parte dei paesi dalla nazionalizzazione delle imprese fornitrici di servizi di pubblica utilità (energia elettrica, gas, distribuzione dell’acqua, trasporto ferroviario, telecomunicazioni). Tale scelta si era storicamente imposta nei diversi stati per varie ragioni, di natura sia economica, sia politica, sia ideologica. Tra esse in particolare: la volontà di garantire a tutti i cittadini in modo possibilmente uniforme su tutto il territorio nazionale la fruizione dei servizi di pubblica utilità, ritenuti sempre più “diritti economici” dei cittadini, volontà unita alla convinzione che solo il monopolio pubblico avrebbe consentito di raggiungere in breve tempo tale obiettivo; la diffusa opinione che in alcuni settori produttivi (in particolare, in quello dell’energia elettrica) la sola forza del mercato non fosse in grado di indirizzare le scelte d’investimento nella direzione che superiori interessi nazionali richiedevano; una forte avversione ideologica nei confronti di situazioni caratterizzate dal controllo da parte di privati di segmenti di attività industriale in tutto o in parte monopolio naturale. Negli ultimi due decenni tale prevalente assetto ha subìto nelle opinioni pubbliche e politiche dei paesi europei un processo di profonda revisione. Ad esso hanno contribuito diverse motivazioni, sia di tipo politico (in particolare, la fine della contrapposizione bipolare capitalismo-comunismo e l’affermarsi negli stati europei della prospettiva politica dell’Unione Europea a superamento delle tradizionali politiche nazionali di potenza), sia di tipo economico (in particolare, la progressiva convinzione che l’affidamento della produzione e distribuzione di beni fondamentali per la comunità dei cittadini, quale l’energia elettrica, ad una unica impresa monopolistica comportasse ormai molte più inefficienze che benefìci).

La “delega” al governo

Entrambe le “liberalizzazioni” di cui parliamo sono state introdotte nella nostra legislazione con una identica procedura: a) recepimento della direttiva mediante la legge comunitaria annuale; b) conferimento al governo nella stessa legge comunitaria di una delega legislativa (caratterizzata da criteri e principi direttivi assai generici) per la ridefinizione di tutti gli aspetti rilevanti del sistema; c) emanazione da parte del governo del decreto legislativo attuatore della delega. Per quanto riguarda la liberalizzazione del mercato elettrico, le fasi a) e b) sono state realizzate con la legge comunitaria del 1998 (la legge 24 aprile 1998, n. 128) all’articolo 36, e la fase c) con il decreto legislativo n. 79 del 1999 (il cosiddetto decreto Bersani) entrato in vigore il 1 aprile 1999. Per quanto riguarda la liberalizzazione del mercato del gas, le fasi a) e b) sono state realizzate con la legge comunitaria del 1999 (la legge 17 maggio 1999, n. 144) all’articolo 41, e la fase c) con il decreto legislativo 23 maggio 2000 n. 164. Circa questa procedura dobbiamo innanzitutto severamente stigmatizzare il ricorso alla delega legislativa fatto dalla maggioranza di centrosinistra (comune a moltissimi altri casi nella XIII legislatura).

Delegare al governo il riassetto legislativo di settori produttivi del paese così importanti, sulla base di princìpi e criteri direttivi molto generici, significa esautorare il Parlamento dalle proprie competenze, violando patentemente la Costituzione. Ma c’è di più e di peggio. L’onere legislativo che con tanta dilettantesca facilità il governo ha assunto con tali deleghe, si è dimostrato, almeno nel caso della definizione del nuovo assetto del mercato dell’energia elettrica, ben superiore alla capacità di elaborazione, di mediazione e di sintesi necessaria. Di tale inadeguatezza sono ad esempio prove i vistosi ritardi di molti mesi che hanno afflitto la quasi totalità delle decine di adempimenti previsti dal fondamentale decreto legislativo Bersani, adempimenti essenziali per il concreto avvio del nuovo sistema elettrico italiano: in questo quadro il governo non è stato nemmeno in grado di prevedere correttamente, al momento dell’emanazione di questo decreto, quanto tempo sarebbe stato necessario per provvedere alla preparazione dei propri adempimenti.

Un mercato isolato.

Il consumo di energia elettrica in Italia è stato nel 1999 pari a circa 265 miliardi di kWh, l’unità di energia elettrica comunemente utilizzata. Un’idea sul significato fisico di tale unità di misura può trarsi dai seguenti elementi: per produrre un kWh in un impianto idroelettrico sono necessari 367 Kg d’acqua che cadono da 1000 metri (assumendo un rendimento di conversione pari ad 1); per produrre un kWh in un impianto termoelettrico è necessario bruciare 0,215 kg di olio combustibile (assumendo un rendimento di conversione pari a 0,4). Il consumo di energia elettrica cresce attualmente in Italia al ritmo di circa il 2 per cento per anno. Ma le potenzialità di crescita sono superiori. La politica tariffaria italiana ha infatti sempre voluto comprimere fortemente alcuni consumi di energia elettrica, in particolare quelli domestici superiori ad una data soglia, piuttosto bassa (i consumi domestici sono circa un quarto di tutti i consumi). Un solo esempio: l’utente domestico residente con potenza installata di 3kW (la potenza di gran lunga più adottata in Italia) ha pagato nell’ultimo bimestre 2000 il consumo bimestrale eccedente 440 kWh (un consumo nient’affatto eccezionale) la bellezza di 490,8 lire il kWh (una enormità).

Il prezzo dell’energia elettrica per l’utente finale dipende dalla somma dei tre costi di produzione (importazione), trasporto e distribuzione. Sia i costi di trasporto sia i costi di distribuzione sono in Italia più elevati che non nella maggior parte degli altri paesi europei, per varie ragioni, tra cui la difficile orografia del nostro paese e certi oneri associati al trasporto dell’energia elettrica. Si tratta di costi di un certo rilievo, poco comprimibili, nettamente inferiori tuttavia al costo di produzione. E' questa la voce di costo che ha la massima incidenza sul prezzo finale dell’energia elettrica. Il costo di produzione dell’energia elettrica è a sua volta la somma di due costi, il costo di ammortamento e manutenzione dell’impianto di produzione e il costo di approvvigionamento del materiale necessario per far girare l’impianto. Poiché in Italia circa l’80 per cento della produzione di energia elettrica avviene per via termoelettrica (e, per la parte restante, il 18,5 per cento per via idroelettrica, l’1,5 per cento per via geotermica e solo lo 0,05 per cento per via eolica e solare), la principale voce di costo dell’energia elettrica è costituita dal costo di approvvigionamento dei combustibili da bruciare negli impianti termoelettrici, che sono attualmente nell’ordine: gas naturale, olio combustibile, carbone, orimulsion, combustibili in gran parte approvvigionati sui mercati esteri.

Il consumo di gas in Italia è stato nel 1999 pari a circa 68 miliardi di metri cubi, poco meno di un terzo (31 per cento) dell’intero fabbisogno energetico nazionale (181,4 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio). Il consumo di gas è in rilevante espansione (3,3 per cento per anno), principalmente perché il gas sta sostituendo l’olio combustibile nella produzione di energia elettrica. L’approvvigionamento è stato coperto (sempre per il 1999) per il 27 per cento circa dalla produzione nazionale e per il restante 73 per cento dalle importazioni. L’Eni attraverso l’Agip controlla quasi il 90 per cento della produzione nazionale. Un altro produttore nazionale di rilievo è l’Edison (8 per cento). Oltre il 90 per cento delle importazioni sono effettuate dall’Eni (attraverso la Snam). Il secondo importatore nazionale di gas è l’Enel, il terzo è l’Edison. Il gas viene importato in Italia tramite metanodotti, tutti realizzati dall’Eni in collaborazione con imprese estere e ora in comproprietà dell’Eni con tali imprese. I paesi da cui si importa il gas sono principalmente tre: Algeria (per il 54 per cento del totale delle importazioni), tramite il metanodotto a due linee che attraversa il canale di Sicilia, Russia (per il 38 per cento delle importazioni), tramite un apposito lunghissimo metanodotto che attraversa tutta l’Europa, e Olanda (per il 6 per cento delle importazioni).

Il metanodotto che collega l’Olanda con l’Italia è l’unico interamente entro il territorio dell’Unione Europea. Una piccola percentuale delle importazioni, riguardante l’importazione di gas dalla Nigeria contrattata dall’Enel, avviene tramite navi metaniere che fanno la spola tra la Nigeria e un porto attrezzato situato in Francia (di qui il gas viene inviato a destinazione tramite i metanodotti di Gas de France e Snam). I metanodotti sono opere assai costose da realizzare. Per assicurare il loro ammortamento i contratti di approvvigionamento del gas hanno una durata assai lunga, non inferiore a 20-25 anni, e la forma singolare di contratti take or pay (in base ai quali il gas viene comunque pagato, anche se non ritirato), una forma per l’acquirente insieme un po’ capestro e un po’ protettiva. A parte un piccolo impianto situato vicino a La Spezia, l’Italia non dispone attualmente di porti attrezzati per l’attracco di navi metaniere. Perché tali navi, che trasportano il gas sotto forma liquida, raffreddato a temperature bassissime, possano scaricare il loro contenuto, è necessario che il porto sia attrezzato con apposito impianto gassificatore. Si tratta di un tipo d’impianto complesso e costoso. Attualmente in Italia sono previsti due impianti, entrambi sulla costa dell’Adriatico: uno in progetto a Brindisi, con un investimento della società inglese British Gas, ed uno sul punto di essere concretizzato a Rovigo dove sarà costruita un’isola artificiale al largo della laguna, su progetto Edison-Mobil.

I nuovi concorrenti

Sono ormai trascorsi due anni dall’entrata in vigore del decreto Bersani che ha avviato la liberalizzazione del mercato elettrico. Esaminiamo quali sono stati finora i suoi effetti e quali saranno quelli prevedibili nel prossimo futuro. Il decreto Bersani ha separato verticalmente i tre segmenti di mercato della produzione di energia elettrica, del trasporto e della distribuzione. Solo il segmento di mercato della produzione di energia elettrica è stato ritenuto pienamente contendibile, alla condizione tuttavia che l’operatore dominante Enel Spa dal 1 gennaio 2003 non possa produrre o importare (e perciò vendere) più del 50 per cento del totale dell’energia elettrica prodotta e importata in Italia e entro la stessa data abbia ceduto ai concorrenti una parte dei propri impianti di produzione, (suddivisi nelle tre società di produzione Elettrogen, Eurogen e Interpower) per un totale di 15.000 MW. Per inciso, questa è una potenza piuttosto rilevante, pari a circa il 30 per cento della potenza massima richiesta dalla rete italiana alla punta di consumo, che si verifica in dicembre (50.000 MW). Nessuna di queste tre cessioni è a tutt’oggi avvenuta. E' attualmente in corso la gara per la vendita di Elettrogen. Il segmento del trasporto dell’energia elettrica (costituito dalla rete di trasmissione dell’energia elettrica ad alta tensione e dai suoi dispositivi di controllo) è stato affidato in regime di monopolio ad una società pubblica di nuova costituzione, il Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale (Grtn), interamente posseduta dal Tesoro, società che sta muovendo in questi mesi i suoi primi passi. Al Grtn è stato anche affidato il delicato compito del dispacciamento degli impianti di produzione nazionali (e delle importazioni), ossia del comando del livello dell’energia elettrica erogata in ogni istante da ogni impianto di produzione e da ogni linea di importazione.

Tale centralizzazione assicura che in ogni istante la somma dell’energia elettrica prodotta in Italia e di quella importata sia corrispondente a quella richiesta dai consumatori italiani, corrispondenza necessaria poiché l’energia elettrica non si può immagazzinare (a parte il pompaggio d’acqua dal bacino inferiore a quello superiore in impianti idroelettrici a due bacini). Il decreto Bersani lascia all’Enel la nuda proprietà della rete nazionale di trasmissione. Nel segmento della distribuzione di energia elettrica, anch’esso avente carattere di monopolio come quello del trasporto (data la non duplicabilità delle rete di distribuzione), il decreto Bersani ha adottato la soluzione della concessione di servizio pubblico. Le date di scadenza delle concessioni in essere sono state prorogate al 31 dicembre 2030. Di tali concessioni fruiscono l’Enel e le società partecipate dagli Enti locali, nelle città in cui sono operanti e in ambiti territoriali contigui.

Come abbiamo detto, il segmento di mercato nettamente più importante ai fini dell’incidenza sul prezzo finale dell’energia elettrica è quello della produzione. Vediamo cosa hanno fatto gli operatori presenti su questo mercato in questi due anni. In questo periodo l’Enel non ha fatto nessun importante investimento in nuovi impianti di produzione di energia elettrica o in modifiche di impianti esistenti. Va notato che gli impianti termoelettrici dell’Enel, progettati a suo tempo come impianti policombustibile (e ancora molto validi se considerati in quest’ottica), bruciano attualmente gas metano con un basso rendimento di conversione (il 38-39 per cento), mentre i moderni impianti a gas a ciclo combinato riescono ad ottenere rendimenti del 55 per cento. Il grande parco impianti dell’Enel non conta nemmeno un impianto di questo tipo. Non pungolata dalla concorrenza, l’Enel si è comportata come una qualunque società industriale in un mercato totalmente dominato, evitando di fare investimenti in nuovi impianti e scaricando sui consumatori l’eccesso di costi di approvvigionamento del combustibile dovuto ai suoi impianti non specializzati per l’uso del gas.

L’Enel ha effettuato quasi unicamente investimenti volti ad assicurare la possibilità di fornitura di servizi aggiuntivi rispetto a quello tradizionale della vendita di energia elettrica (gas, acqua, telecomunicazioni, eccetera), investimenti ritenuti strategici perché in grado di garantire un vantaggio competitivo sul mercato che si produrrà nel lungo periodo, previsto essere quello della fornitura congiunta di una pluralità di servizi. Anche i concorrenti dell’Enel attuali e potenziali (Edison, Sondel, Società partecipate dagli enti locali, Eni, eccetera) non hanno fatto investimenti importanti in nuovi impianti. Essi sono rimasti in attesa della vendita delle tre società Elettrogen, Eurogen e Interpower e in attesa altresì dell’emanazione di uno dei decreti previsti dal decreto Bersani, quello relativo alla semplificazione delle procedure autorizzatorie e concessorie relative a nuovi impianti e a modifiche di vecchi impianti di produzione di energia elettrica (decreto che ha visto la luce in questi giorni, con un ritardo di un anno (!) rispetto alla scadenza prevista del 1 aprile 2000).

Obiettivi a lungo termine

E’ naturale chiedersi a questo punto quanto tempo sarà ancora necessario perché il mercato della produzione di energia elettrica diventi in Italia realmente contendibile e la concorrenza cominci ad assicurare agli utenti consistenti diminuzioni del prezzo dell’energia elettrica. Ad avviso dello scrivente, saranno necessari ancora parecchi anni, certamente non meno di cinque, e non è detto che cinque anni bastino. Per impensierire l’Enel i produttori italiani competitori dovranno o dotarsi di nuovi impianti di produzione (del tipo a gas a ciclo combinato) o modificare gli impianti termoelettrici acquisiti dall’Enel nelle tre società Elettrogen, Eurogen e Interpower, trasformandoli in impianti del tipo a gas a ciclo combinato. Ma per realizzare questi nuovi impianti o per modificare i vecchi impianti occorrerà molto tempo. Basti pensare che attualmente il tempo di approvvigionamento del componente più importante degli impianti a gas a ciclo combinato, la turbina a gas, è di almeno 36 mesi dall’ordine. Durante questo prevedibilmente lungo transitorio le uniche garanzie che il consumatore avrà circa una ragionevole correttezza del prezzo dell’energia elettrica (e circa una sua progressiva diminuzione mediante il meccanismo del price cap) saranno dovute all’azione di controllo esercitata dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas. Questa previsione assume implicitamente che l’Enel sia poco esposta alla concorrenza delle importazioni di energia elettrica. Occorre al riguardo fornire qualche spiegazione. Come è noto, i prezzi del kWh in Francia e Germania sono molto inferiori a quelli praticati in Italia, essendo i costi di produzione minori del 35-40 per cento.

L’Italia importa attualmente (e da anni) circa il 16 per cento del proprio consumo di energia elettrica, una quota molto elevata, equivalente alla produzione di impianti eroganti una potenza complessiva di circa 5500 MW. L’importazione di energia elettrica è tale da saturare praticamente la portata delle linee elettriche di collegamento ad alta tensione esistenti tra l’Italia e gli altri paesi europei. Non è prevedibile che vi sia nel prossimo futuro un importante ampliamento di tali collegamenti (sia per le enormi difficoltà ad ottenere i permessi per nuovi elettrodotti, sia per gli elevati costi di tali infrastrutture). Si potrà ottenere invece qualche aumento dell’energia elettrica trasmessa mediante le linee di collegamento esistenti. Ma l’unico consistente beneficio che potranno avere gli utenti (o almeno gli utenti in grado di stipulare contratti diretti con i produttori e venditori di energia elettrica prodotta all’estero) deriverà dalla possibilità di sostituire l’Enel nei contratti di importazione a suo tempo stipulati (in condizione di monopolio), contratti ancora in essere con l’Enel per un importo pari a circa il 50 per cento del totale delle importazioni, ma progressivamente in scadenza nei prossimi anni.

La strozzatura dei collegamenti elettrici in alta tensione tra l’Italia e il resto d’Europa, isola, anche se non completamente, il mercato italiano dell’energia elettrica da quelli degli altri paesi europei. Tale parziale isolamento è destinato a protrarsi per parecchi anni a venire. Il consumatore italiano potrà quindi trarre solo un limitato beneficio dalla più favorevole situazione relativa all’offerta di energia esistente nei mercati di paesi vicini come la Francia e la Germania. In tali paesi, come sappiamo, il costo di produzione dell’energia elettrica è oggi inferiore di almeno il 40 per cento rispetto a quello effettivo in Italia. Viene naturale domandarsi a che cosa sia dovuta questa enorme differenza. Le cause sono diverse, tra cui anche cause naturali come la maggiore scarsità di fonti energetiche primarie nel nostro paese; ma le responsabilità nettamente prevalenti sono politiche: il maggior costo di produzione dell’energia elettrica italiana è in gran parte da attribuire alla nostra dissennata politica energetica, che ha portato all’abbandono del nucleare con il referendum del novembre 1987 e che ha vistosamente limitato l’utilizzo di una fonte energetica primaria a buon prezzo come il carbone. Tale maggior costo dell’energia elettrica in Italia ha gravi conseguenze sulla competitività di tutta la nostra industria energivora (l’industria siderurgica, l’industria metallurgica, certe produzioni chimiche). Queste conseguenze sono tanto più gravi quanto più aumenta il grado di globalizzazione dell’economia. In particolare l’elevato costo dell’energia elettrica sta determinando una forte e crescente spinta alla delocalizzazione degli impianti delle industrie energivore fuori del nostro paese.

Ma anche in prospettiva la situazione non andrà molto meglio. Immaginiamo per un momento che tutto il nostro parco di impianti termoelettrici sia trasformato in impianti a gas a ciclo combinato, con rendimenti termodinamici pari al 55 per cento (contro gli attuali rendimenti medi degli impianti termoelettrici Enel pari al 38-39 per cento). Ebbene, anche in questa situazione ipotetica e molto favorevole, con gli attuali prezzi del gas (che è impensabile ritornino ai bassi valori di qualche anno fa) il costo di produzione del kWh in Italia sarebbe di almeno 40 lire superiore a quelli attuali in Francia e Germania. In sintesi lo sviluppo in Italia di un mercato realmente competitivo nel settore della produzione dell’energia elettrica, che porterà certamente all’eliminazione degli impianti a minor rendimento e ad un complessivo miglioramento dell’economia della produzione di energia elettrica (sono questi i benefìci della concorrenza), non potrà comunque se non in parte attenuare il grande divario attualmente esistente in tale settore tra l’Italia e gli altri principali paesi europei.

Un nuovo protagonista: il gas liquefatto

Il decreto legislativo che liberalizza il mercato del gas naturale in Italia, emanato circa un anno fa, è intervenuto in una situazione totalmente dominata dall’Eni. E' di proprietà dell’Eni (della Snam) la rete nazionale dei metanodotti. L’Eni è di gran lunga il principale produttore nazionale di gas e il principale importatore di gas. Tale situazione dominante, praticamente di tipo monopolistico, si è creata nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale per effetto della particolare politica di intervento pubblico nel settore petrolifero iniziata da Enrico Mattei. Il decreto regolamenta tutte le attività riguardanti la filiera del gas: l’importazione, la coltivazione dei giacimenti, lo stoccaggio, il trasporto e il dispacciamento, la distribuzione e la vendita del gas. L’attività di trasporto e dispacciamento è definita di interesse pubblico. A tutti gli utenti della rete di trasporto deve perciò essere garantita libertà di accesso a parità di condizioni, con la massima imparzialità. Tale diritto si estende anche all’utilizzo dei terminali di Gnl (Gas Naturale Liquefatto). L’attività di distribuzione del gas è definita di servizio pubblico e come tale si svolge in regime di concessione. E' prescritta la separazione societaria da tutte le altre attività, sia per l’attività di trasporto e dispacciamento (che però può comprendere, previa separazione contabile, l’attività di stoccaggio), sia per l’attività di distribuzione. A decorrere dal 1 gennaio 2003 e fino al 31 dicembre 2010, nessuna impresa del gas può vendere ai clienti finali più del 50 per cento del consumo nazionale di gas su base annuale. Il decreto definisce i requisiti per la qualifica di cliente idoneo. Comunque a partire dal 1 gennaio 2003 tutti i clienti saranno idonei. Per effetto del decreto l’Eni si è recentemente dichiarato disponibile a vendere in borsa la società proprietaria della rete nazionale dei metanodotti, ad un prezzo intorno ai 20.000 miliardi. Ma le tariffe di trasporto del gas sulla rete nazionale stabilite (o in via di definizione) da parte dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas sono ben inferiori a quelle che retribuirebbero convenientemente tale ammontare di capitale. Per il momento quindi l’Eni non venderà la propria rete nazionale di metanodotti.

Anche il mercato italiano del gas è poco collegato ai mercati del gas degli altri paesi dell’Unione Europea. L’unico grande metanodotto transalpino esistente è quello utilizzato per il trasporto in Italia del gas prodotto in Olanda. Risulta assai difficile ad altri produttori e importatori europei di gas (come Gas de France e British Gas) offrire ai clienti italiani in competizione con l’Eni le proprie produzioni, data la limitatezza delle portate trasportabili da questo unico metanodotto (in buona parte occupato dai contratti di importazione di gas dall’Olanda). Né d’altra parte sono in funzione in Italia terminali per navi metaniere. Questa situazione di parziale isolamento è destinata a perdurare, perché sia nuovi metanodotti transalpini sia terminali per navi metaniere sono infrastrutture costose e di lunga realizzazione. In conclusione, la liberalizzazione dei mercati dell’energia elettrica e del gas in Italia, non sta portando affatto ai consumatori italiani, nemmeno a quelli qualificati clienti idonei; quei benefìci che forse ingenuamente avevano sperato. La transizione dalle preesistenti strutture produttive a base monopolistica e nazionale caratteristiche di tali mercati nel nostro paese a quelle proprie di mercati unici pienamente contendibili estesi al territorio di tutti i paesi dell’Unione Europea, teorizzate nelle direttive, di cui abbiamo detto all’inizio di questo articolo, si sta dimostrando assai più complessa e delicata di quanto gli eurocrati di Bruxelles avevano previsto.

29 novembre 2001

(da Ideazione 3-2001, maggio-giugno)

 



 

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