L’Italia tra le majors
di Giuseppe Sacco
Le caratteristiche del settore energetico hanno condizionato lo
sviluppo economico dell’Italia sin dagli inizi della sua
industrializzazione. E’ infatti per l’assenza di carbon fossile
che la penisola italiana perde l’occasione della rivoluzione
industriale fondata sul ferro e sull’acciaio, e giunge al
“decollo” solo nell’ultima parte del secolo, in coincidenza con la
disponibilità di quello che si chiamerà allora il “carbone
bianco”, l’energia idroelettrica delle valli alpine. In seguito,
quando un nuovo combustibile, il petrolio, inizia a prendere il
sopravvento, è con l’obiettivo di garantire l’autosufficienza
dell’Italia che viene creata l’Agip. Essendosi questo obiettivo
rivelato impossibile da raggiungere, nel secondo dopoguerra l’Eni
di Enrico Mattei risponderà egregiamente ad un compito analogo, ma
assai meno ambizioso: quello di garantire al paese la sicurezza
degli approvvigionamenti con idrocarburi provenienti in massima
parte dall’estero. Alcuni dei vincoli che tradizionalmente
pesavano sui paesi senza risorse energetiche sono oggi venuti
meno. In primo luogo sono scomparsi alcuni condizionamenti
politico-istituzionali, per la trasformazione radicale del quadro
internazionale che, in questo come in altri campi, ha
caratterizzato l’ultimo decennio del Ventesimo secolo. La
sconfitta dell’ideale rivoluzionario, il disfacimento dell’Urss,
la nascita di un mondo “globalizzato”, la creazione del Wto, la
drastica riduzione della sovranità degli stati e quindi della loro
capacità di subordinare l’economia ad obiettivi politici
promettono - e in qualche caso addirittura segnalano come già in
fieri - l’apertura a forme di concorrenza anche in mercati, come
quello dell’energia, da sempre pesantemente distorti.
Per quel che riguarda le risorse energetiche, fattori tecnici si
uniscono oggi a quelli politici nel favorire questa minore
“imperfezione” del mercato rispetto al passato. Aumenta infatti il
numero dei paesi produttori (il che, sia pure in un periodo di
decadenza del ruolo degli stati, contribuisce in qualche misura a
diversificare l’offerta), mentre l’abbattimento delle barriere
protezionistiche accresce il numero dei mercati di sbocco.
Soprattutto la caduta degli ostacoli istituzionali agli scambi
favorisce, almeno in una prima fase, gli attori di secondo
livello, che coesistono, sul mercato del petrolio, con le grandi
compagnie. Il mercato tende quindi a diventare più flessibile e
complesso, tanto che spesso gli stessi tentativi dell’Opec di
influenzare i prezzi manovrando le quantità prodotte hanno effetto
limitato, almeno nel breve periodo. Un altro fattore che porta
nella stessa direzione è la rapidissima affermazione del gas
naturale come combustibile privilegiato, perché assai poco
inquinante. Sino a pochi anni fa, si trattava di una fonte di
energia relativamente secondaria e di un mercato assai poco
“perfetto”. Negli ultimi tempi, invece, per ragioni ambientali
moltissime centrali elettriche vengono convertite a gas, che è
diventato concorrenziale, ed è preferito nei nuovi impianti, con
una espansione del mercato. Nel frattempo, si allentano quei
vincoli tecnici, come la necessità di una rete di pipelines
intercontinentali, che sino a ieri rendevano estremamente rigida
l’importazione, e legavano per periodi pluridecennali fornitori e
consumatori. Oggi, la crescente diffusione delle tecniche di
liquefazione del gas ne consentono sempre più il trasporto via
mare, trasformando sia i mercati internazionali del gas, sia
quelli interni ai vari paesi. Nel quadro europeo, poi, i contratti
pluridecennali sono sotto attacco della Commissione europea.
Esistono dunque tutta una serie di fenomeni che tendono a
determinare una trasformazione, nel senso dell’apertura e di una
certa concorrenzialità, in un settore a proposito del quale è
facile osservare che - messo a parte il carbone, che negli anni
’50 e ’60 appariva erroneamente come “superato” - il libero
mercato internazionale di fatto non è mai esistito. Il mercato
internazionale del petrolio è rimasto dominato, per quasi tutta la
sua storia, dal cartello delle grandi compagnie americane e di
quelle nate dopo il disfacimento dell’impero ottomano. Dopo gli
anni ’60, a questo cartello si è in parte contrapposto, e in parte
sostituito, ma in realtà si è combinato, il cartello dei paesi
produttori, l’Opec. L’inesistenza di un vero libero mercato
mondiale dell’energia aveva reso inevitabile per i paesi senza
risorse proprie, come l’Italia, dotarsi di enti pubblici capaci di
battersi con i grandi oligopolisti mondiali, ma vincolati
all’obiettivo politico di garantire l’approvvigionamento. Tali
strumenti operativi sono, nel caso italiano come in quello di
molti altri paesi, i “campioni nazionali” per l’esplorazione, lo
sfruttamento e il trasporto delle risorse petrolifere site
all’estero: società legalmente di diritto privato, ma di proprietà
dello stato, volte a fare profitti ma non precipuamente ad essi
finalizzate, e che seguono una logica ed una metodologia diverse
da quelle di un’azienda puramente rivolta all’efficienza. Società
fortemente proiettate verso l’estero, ma che si sono consolidate
negli anni come centri di potere sia interno che internazionale,
come entità di grande peso sia nei rapporti con i paesi
esportatori di risorse energetiche, sia negli equilibri interni.
Per l’Italia è questo il caso dell’Eni.
Il ritorno dell’energia nucleare
Quanto all’altra fonte di energia che all’indomani della guerra
sembrava poter sostituire le risorse più tradizionali, l’energia
atomica, anch’essa è difficilmente compatibile con il mercato
perfetto. La fissione nucleare pone infatti tali problemi di
sicurezza e di controllo, e si avvale di processi produttivi che
determinano così forti ricadute negative all’esterno dell’impresa
produttrice (investendo addirittura le generazione e i secoli
futuri) da rendere indispensabile il controllo da parte dello
stato. In pratica, è quindi pressoché impensabile liberalizzare la
gestione di tali impianti. Non a caso, è la sola Francia, e in
minor misura il Giappone - cioè due paesi con fortissime strutture
statuali - ad aver sviluppato l’energia atomica dando garanzie
credibili contro disastri tipo Chernobyl. Eppure, con l’inizio del
Ventunesimo secolo sono improvvisamente apparsi nuovi segnali di
interesse per l’energia atomica. Di recente, il commissario
europeo per l’energia, Loyola de Palacio, ha segnalato – in un
Libro Verde sulle prospettive e politiche energetiche dell’Unione
Europea – la opportunità di prendere in considerazione il rilancio
di questa più che controversa fonte di energia.
In apparenza ciò è in contraddizione con gli sviluppi della
quotidianità politica, dato che il Libro Verde ha fatto seguito di
poche settimane alla decisione del governo tedesco, sotto la
pressione dei Verdi, di chiudere i 19 impianti atomici presenti
nel paese, e che producono un terzo di tutta l’elettricità
consumata nella principale potenza economica d’Europa. Ma è facile
osservare che, nell’atmosfera di trionfalismo creata dai Verdi, è
sfuggita la domanda di come verrà generata l’elettricità
necessaria nel lungo termine a sostituire quella oggi proveniente
dalle centrali atomiche. E l’unica possibilità oggi tecnicamente
fattibile è ancora con combustibili fossili, che sono - come è
noto - i principali responsabili dell’effetto serra e del
riscaldamento del Pianeta Terra. Per la Germania, in particolare,
è possibile far ricorso agli idrocarburi di cui c’è ampia
disponibilità nella parte occidentale dell’Asia russa. E poiché
nel regno degli oligarchi che si sono impadroniti del sistema
produttivo dei Soviet il prezzo dell’elettricità è artificialmente
basso, sarà possibile importare nella Repubblica Federale
elettricità prodotta sul territorio russo. Qui però, come in tutto
l’ex impero sovietico, le tecniche sono estremamente arretrate e
la manutenzione degli impianti di produzione e di trasporto di gas
e petrolio è notoriamente pessima. Il risultato dell’azione dei
Verdi tedeschi sarà perciò non solo un enorme aumento delle
emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera globale, con
conseguente peggioramento dell’effetto serra, ma anche una
prevedibile molteplicità di incidenti con inquinamento da
idrocarburi in territorio russo. E’ perciò legittimo pensare che,
prima del momento in cui la progressiva chiusura delle centrali
dovrebbe effettivamente avere luogo, un ripensamento sia
probabile.
Nuovi orientamenti sono poi visibili anche in Asia, dove l’aumento
dei consumi energetici è tale da richiedere una nuova centrale da
1000 MW ogni quindici giorni. Dopo tre anni di moratoria atomica,
le principali province cinesi avrebbero deciso la costruzione, tra
il 2001 e il 2005, di quattro o sei nuovi impianti da 1000 MW
ciascuno. Due dovrebbero essere realizzati vicino a Hong Kong e a
Canton, dove già esiste una centrale realizzata dai francesi, e
dove si parla di costruire una seconda ed anche una terza centrale
atomica. Un’altra provincia, quella di Zhejiang, vorrebbe
raddoppiare la capacità della centrale esistente, che è di
fabbricazione cinese e costruirne una seconda, mentre la provincia
di Shandong ha approntato già nel ’99 il progetto della sua prima
centrale atomica. Taiwan, dal canto suo, sta per costruire la sua
quarta centrale. Anche in Cina atomo e gas naturale appaiono tra
loro in alternativa come soluzione dei problemi dell’inquinamento
e del fabbisogno energetico. Infatti, i governi delle province che
vogliono far ricorso all’atomo hanno dovuto convincere il premier
Zhou Rongji, il cosiddetto “uomo di ferro” di Pechino, che è
invece favorevole al progetto di trasferire - con un gigantesco
sistema di pipelines che attraversi tutto il paese da est a ovest
- il gas dell’estremo nord-ovest cinese e, se necessario, quello
dell’Asia centrale ex sovietica. In realtà, sia il gas che l’atomo
saranno entrambi necessari per migliorare la spaventevole
situazione dell’inquinamento dovuto al fatto che la Cina produce
oggi il 70 per cento della propria energia elettrica col carbone,
i cui consumi superano attualmente gli 1,25 miliardi di tonnellate
l’anno, ed aumentano rapidissimamente.
Sulle future decisioni della Cina influirà certamente la decisione
di Bush di non attenersi, per il momento, agli impegni assunti col
Trattato di Kyoto. Tra le ragioni addotte dal governo americano
c’è - tra l’altro - il fatto che questo Trattato non prevede
praticamente restrizioni per l’inquinamento da CO2 prodotto nei
paesi più arretrati come la Cina e l’India. Una revisione del
Trattato per venire incontro alle obiezioni di Washington
costringerà perciò Pechino ad accelerare i progetti di costruzione
degli impianti necessari ad importare via mare il gas liquefatto,
o alternativamente, di nuove centrali atomiche. Gli stessi Stati
Uniti, peraltro, stanno nuovamente pensando all’ipotesi nucleare.
Nulla è stato ancora deciso, però l’apposita commissione
presieduta dal vicepresidente Cheney sta prendendo in
considerazione l’atomo, alla pari delle altre fonti tecnicamente
possibili per risolvere i problemi così violentemente
manifestatisi con i black-out che stanno mettendo in ginocchio
alcuni stati. In California, in particolare la capacità produttiva
è inferiore del 15 per cento alla domanda e la possibilità di
importare dagli stati confinanti fortemente ridotta a causa dei
cambiamenti climatici che da anni ormai fanno scarseggiare le
precipitazioni su tutta la costa del Pacifico.
Comunque, il solo fatto di riprendere in considerazione l’ipotesi
atomica indica un forte cambiamento del clima politico-psicologico
rispetto agli ultimi 25 anni quando, dopo l’incidente di Three
Miles Island, non è stato concesso più nessun permesso di
costruire centrali a fissione nucleare, e si era diffusa l’idea
che le 103 centrali atomiche Usa sarebbero state chiuse prima dei
40 anni della loro licenza. Oggi si parla di estenderne la vita a
60 anni. Di questo capovolgimento nelle fortune dell’energia
atomica, che appare evidente a livello internazionale, potrebbe
beneficiare soprattutto, come esportatore di tecnologie e di
impianti, il settore francese dell’ingegneria. La Francia infatti
produce il 70 per cento della propria energia elettrica con
l’atomo, e i 55 impianti costruiti sul territorio nazionale le
danno una forte superiorità tecnologica. L’Italia, invece, potrà
difficilmente trarne beneficio, se non come importatrice, dalla
Francia, di forti quantitativi di elettricità prodotta con
l’atomo. L’anti-nuclearismo del nostro paese risulta pertanto una
pura ipocrisia sul piano dei princìpi, ed un vero e proprio
inganno su quello della sicurezza, dato che il nord dell’Italia
sarebbe certamente investito in caso di un incidente grave al di
là delle Alpi.
La sicurezza degli approvvigionamenti
L’attuale processo di revisione della politica energetica degli
Stati Uniti è anche interessante sotto un altro profilo. Le
preoccupazioni che ne sono all’origine nascono infatti dalla
constatazione che l’America è ormai dipendente dalle importazioni
per oltre la metà dei propri consumi di petrolio e che ciò implica
dei vincoli di politica internazionale, in particolare in Medio
Oriente, vincoli che vengono visti come intollerabili e
contraddittori con le priorità a lungo termine del paese. Infatti,
l’unica superpotenza sopravvissuta ha ormai i suoi interessi
strategici principalmente in Asia, e tende a ridurre i propri
impegni in altre parti del mondo. Per quel che riguarda la sua
dipendenza energetica, oltre a intensificare la prospezione e lo
sfruttamento sul territorio nazionale, si tenta una soluzione a
carattere “regionale”, cioè nell’ambito del Nord America
vincolando, in maniera rigida, con un grande sistema di pipelines,
le risorse del Messico al mercato del grande vicino del Nord. In
pieno Ventunesimo secolo, proprio da Washington vengono così
rilanciati tre concetti tra loro collegati e che sono in
contraddizione ideologica con la cultura del libero mercato, su
cui dovrebbe essere fondato il mondo globalizzato gravitante su
un’unica superpotenza: il concetto di autosufficienza energetica,
quello di garanzia degli approvvigionamenti e quello di
cooperazione regionale. A parte i toni mercantilistici, o
addirittura autarchici, con cui viene giustificata la priorità
riservata alle fonti nordamericane, la “fuga dalla globalità”,
unita all’idea di preferire il Messico come fornitore, ciò che
lascia perplessi sono il concetto stesso di “garanzia degli
approvigionamenti” e il timore di condizionamenti politici che
potrebbero derivare da possibili minacce sulla disponibilità di
petrolio.
Infatti, in un mondo di libero scambio, come quello che si è
cercato progressivamente di costruire nell’ultimo decennio del
Novecento, il problema della sicurezza degli approvvigionamenti
non dovrebbe neanche porsi. L’accesso alle risorse energetiche,
come a qualsiasi altra risorsa, dipende solo dalla capacità di
pagare i prezzi fissati dal gioco dell’offerta e della domanda. In
questa luce, le proccupazioni per la “dipendenza dalle
importazioni” appaiono come meri pregiudizi ereditati da un
passato di abitudini protezionistiche. E i fatti confermano tutto
ciò. L’evidenza empirica è che queste idee portano la
responsabilità dei molti disastri cui sono andati incontro, dopo
la seconda guerra mondiale, i paesi del Terzo Mondo, pesantemente
influenzati dal “marxismo volgare” che aveva elevato alla dignità
di dogma la politica della “sostituzione delle importazioni”. Di
conseguenza, del tutto superflui appaiono, nella logica di un
mondo globalizzato e totalmente liberalizzato, anche le grandi
compagnie di stato, i “campioni nazionali pubblici” come quelli
creati in Italia in epoca fascista.
In Italia due grandi “campioni nazionali pubblici”, l’Eni e
l’Enel, tradizionalmente garantivano che al paese non venisse meno
la disponibilità di energia. Alla luce della filosofia
politico-economica oggi prevalente essi vengono talora considerati
come dei “dinosauri” destinati all’estinzione. L’Eni viene in
parte privatizzato e in parte demonopolizzato, mentre l’Enel è
costretto a cedere una sostanziosa parte della propria capacità
produttiva. Infatti - come abbiamo sottolineato in precedenza - un
“campione nazionale pubblico” si giustifica solo se il mercato
internazionale di una risorsa - come l’energia - di primaria
importanza per la vita economica non è libero, o è deformato da
fattori politici. Nella misura in cui il fenomeno della
globalizzazione investe davvero - sia pure tra alti e bassi, ed in
maniera più o meno intensa - anche i mercati dell’energia, è
inevitabile che anche la politica energetica degli stati privi di
risorse, come l’Italia, possa trasformarsi, e che diventi meno
prioritario il problema di garantire la sicurezza degli
approvvigionamenti. Lo smantellamento dei “campioni nazionali
pubblici” in questo campo è già in atto e indica un’evoluzione nel
senso di un’Italia meglio inserita nella realtà internazionale. E
questa evoluzione si concreta anche in un altro vantaggio: la
possibilità di aprire alla concorrenza il mercato interno, che -
in presenza di un “campione nazionale” - finiva inevitabilmente
per essere ad esso riservato, se non altro a compenso dei maggiori
costi che derivavano ad un’impresa che doveva muoversi nel mercato
internazionale con “una mano legata dietro la schiena”
dall’obbligo di garantire comunque l’approvvigionamento del paese
in energia.
Veder riemergere nei comportamenti del governo americano
preoccupazioni di questo tipo, deve pertanto indurre ad una seria
riflessione. Sui mercati energetici gravano infatti non solo
alcuni vincoli tradizionali, che la natura imperfetta dei mercati
non tiene in vita nonostante la moda della “globalizzazione”, ma
addirittura vincoli che erano ignoti in passato, nuovi
condizionamenti e nuove - e questa volta addirittura inevitabili -
intrusioni delle logiche politiche. Si è presa ad esempio
coscienza negli ultimi anni del fatto che tutto l’uso dei
combustibili fossili produce ricadute negative sull’intera
umanità, per questa e per le future generazioni. L’effetto serra e
le drammatiche conseguenze di tutte le trasformazioni ambientali
legate a questo settore, pongono l’intera produzione energetica in
una condizione analoga a quella in cui abbiamo visto si trovava in
passato la sola energia atomica. Al punto che gli stati, in gran
parte svuotati di ruolo dalla globalizzazione, tendono a
coalizzarsi per garantire una sorta di governance mondiale, che
avrebbe come primaria e indiscutibile funzione quella di vincolare
e controllare politicamente il settore energetico, in nome e per
l’interesse collettivo dell’umanità. Si profila così una politica
energetica e ambientale planetaria, mentre il prevalere
dell’ideologia liberista tende a svuotare le politiche energetiche
nazionali e gli strumenti operativi finalizzati a questa logica.
L’autarchia europea
Nell’ambito di un quadro globale che - almeno in teoria e a parte
le recenti iniziative americane - sembra portare ad una
progressiva liberalizzazione, si colloca l’attività dell’Unione
Europea, che in materia di disponibilità energetiche finisce per
avere, rispetto al resto del mondo, una posizione in qualche modo
analoga a quella tradizionale dei paesi privi di risorse. Infatti,
a parte le riserve di idrocarburi del Mare del Nord, già
fortemente intaccate, la Ue anche nella sua composizione allargata
dispone solo di significative, ma relativamente costose, risorse
carbonifere, cioè del combustibile più dannoso per l’ambiente. Di
questa sua difficile posizione l’Europa è da sempre consapevole, e
si è sempre comportata secondo una logica tendente a garantire
molto di più che la sicurezza degli approvvigionamenti.
Addirittura, la Cee ha avuto come obiettivo l’autosufficienza
energetica che, assieme all’autarchia agricola, è stato uno dei
motivi economici che hanno originariamente ispirato la costruzione
di quella che è poi diventata l’attuale Ue. Nel primo Trattato,
quello che creò nel 1951 la Comunità del Carbone e dell’Acciaio,
l’obiettivo principale era indubbiamente quello di superare le
politiche autarchiche delle singole nazioni in questi due campi:
politiche autarchiche alle quali (specie nel campo dell’acciaio e
“dei cannoni”) veniva imputata una stretta connessione col
nazionalismo militarista che aveva per due volte devastato il
continente. Non sembrava però in nessun modo che si dovesse
mettere in discussione il fatto che - a quei tempi - i Sei fossero
collettivamente autosufficienti, grazie alle loro miniere di
carbone. Per di più, quando nel ’57 venne firmato il Trattato che
creava il Mercato Comune, ad esso si accompagnò la creazione
dell’Euratom, organismo destinato a rendere autonoma l’Europa dai
rifornimenti petroliferi provenienti dagli ex possedimenti
coloniali e che, con la guerra arabo-israeliana del ’56 e il
blocco del Canale di Suez, si erano dimostrati come
pericolosamente influenzabili da eventi esterni e da strategie
politiche estranee.
In altri termini, l’Europa unita, che è indubbiamente una
protagonista della liberalizzazione economica nella seconda metà
del Novecento, è però anche, specificamente per il settore
energetico, un soggetto portatore di idee che in questo campo non
sono molto in linea con l’idea, che ha oggi grande successo
nell’opinione pubblica e nei media: quella del libero commercio e
di mercati non influenzati da obiettivi politici di soggetti e
gruppi diversi. Insomma, l’unificazione europea è tendenzialmente
volta a liberalizzare gli scambi al proprio interno, ma mostra
talora verso l’esterno atteggiamenti protezionistici. Se si tiene
presente questo quadro internazionale, ed europeo, appare chiaro
che l’Italia dei primi anni 2000 si trova a confronto - nel campo
della politica energetica - con una realtà fortemente condizionata
da fattori extra-economici e con le limitazioni politiche che le
vengono da un duplice ordine di fenomeni. Da un lato deve
rispondere alla domanda di liberalizzazione generalizzata che
viene dalla cosiddetta opinione pubblica internazionale, che è
oggi orientata, nella sua maggioranza e nei grandi interessi che
la condizionano, verso un mondo di liberi flussi - capitali,
merci, idee, e, in misura assai minore, uomini - e che accetta
malvolentieri le esigenze di carattere nazionale. Dall’altro deve
recepire nei propri comportamenti le direttive che vengono da
Bruxelles, in particolare negli ultimi tempi le direttive relative
alla liberalizzazione dei mercati nazionali dell’elettricità e del
gas naturale. E basta leggere il già menzionato Libro Verde
sull’energia per constatare come tali direttive liberalizzatrici,
e tutta la politica europea si ispirino più che all’obiettivo di
un libero mercato mondiale, a quello della unificazione e
liberalizzazione del mercato europeo, concepiti come strumenti per
giungere ad una condizione di autosufficienza, meglio se
ottenibile con un intervento pubblico poco visibile.
Per quanto riguarda gli obiettivi di liberalizzazione, la Ue ha
sinora imposto soprattutto quella dei singoli mercati interni dei
paesi membri. Non molto chiari però restano i rapporti tra questa
trasformazione del mercato interno e la nascita di un vero mercato
unico e liberalizzato dell’energia su scala europea, che è
diventata di recente una priorità della Commissione di Bruxelles.
Se infatti si guarda a ciò che accade nei principali partner
comunitari, si vede una grande prudenza nei confronti dei
“campioni nazionali”. Solo l’Inghilterra sembra costituire
un’eccezione. Nel Regno Unito, fu proprio in un settore che
condizionava pesantemente la politica energetica, quello delle
miniere di carbone, che si esercitò per la prima volta la volontà
privatizzatrice e riformatrice della Signora Thatcher (ma va
notato che spezzare il potere politico dei sindacati e avviare le
privatizzazioni venne facilitato dal fatto che la Gran Bretagna si
era vista negli anni precedenti offrire un’alternativa per
l’autosufficienza energetica con la scoperta di importanti
giacimenti di gas e petrolio nel Mare del Nord). L’attacco alle
strutture monopolistiche è poi continuata anche nel settore degli
idrocarburi, con la privatizzazione della British Petroleum, e lo
smantellamento di British Gas. Ma anche se privatizzata, BP rimane
un colosso a livello internazionale, anzi, lo è ancor più
diventata negli ultimi tempi con l’assorbimento delle società
americane Amoco e Atlantic Richfield. Essa si è trasformata in una
multinazionale a base britannica come l’altro colosso,
l’anglo-olandese Shell, oggi in fase di rafforzamento, attraverso
il tentativo di acquisire risorse di gas in aggiunta alle sue
tradizionalmente abbondanti disponibilità petrolifere in paesi
terzi.
Nel nuovo mondo in cui la proprietà pubblica appare desueta, ed
anche per le aziende private si assiste ad una attenuazione del
loro carattere “nazionale”, il Regno Unito si è adattato ai tempi
e dispone ormai non di uno, ma di ben due multinazionali degli
idrocarburi a base inglese, di due “campioni” proiettati su scala
addirittura mondiale, ma ancora fortemente “nazionali”, dove non
scompaiono la “cultura d’impresa” e la forte consapevolezza degli
interessi britannici. Più semplice, e anche assai tradizionale, è
il caso francese. A parte il totale monopolio statale sul settore
elettronucleare, Parigi non ha proceduto ad alcuno smantellamento
del “campione nazionale” neanche nei campi in cui la concorrenza
internazionale diventa più vivace. Anzi, ha rafforzato il ruolo
della Total attraverso la fusione con la società ex pubblica Elf e
la acquisizione della società belga Fina. Si è così dato vita ad
una major petrolifera francofona che copre un esagono allargato e
anche con qualche ambizione imperialistica in altri paesi, come si
è potuto vedere nel tentativo di annettersi l’Eni.
Naturalmente, la tendenza ad operare tramite “campioni nazionali
pubblici” sopravvive ancora di più nei paesi che non fanno parte
della Ue. E ciò persino nel campo del gas naturale, dove la
tendenza è alla nascita di un mercato mondiale e alla rottura
delle posizioni di monopolio. Finché il gas veniva importato solo
per pipeline, come accade tuttora in Italia, un grandissimo attore
in questo campo restava Gazprom, il “campione nazionale” russo che
controlla una quota assolutamente dominante delle riserve
esistenti. Anche la Sonatrach algerina, gode, grazie al gasodotto,
di un formidabile potere di mercato nei confronti dell’Italia, e
lo stesso accadrà per la società di stato libica una volta
terminato il gasodotto in progetto. Sul mercato del gas naturale,
in cui la domanda aumenta in misura addirittura esplosiva, sono
apparsi però altri produttori, in particolare il Qatar e l’Egitto
che esportano o stanno per esportare via mare, a tutto favore di
quei paesi, come il Giappone, che si sono dotati di infrastrutture
portuali e reti di distribuzione per il gas, come la Spagna, che
ha i porti e gli impianti per la rigassificazione, ma non ha
ancora le reti di distribuzione interna, e come l’Italia che ha
una fitta rete interna di metanodotti ma non ha ancora,
paradossalmente, i sistemi portuali per importare il gas
liquefatto via mare e riportarlo alla forma gassosa. Le tendenze
autarchiche ed il potere dei “campioni nazionali” appaiono quindi,
in questo specifico settore, in declino.
Il dualismo italiano
L’Italia, in questo quadro, sembra muoversi su una linea che le è
purtroppo consueta e che vede scarsa chiarezza degli obiettivi
strategici e forte incertezza da parte del mondo politico, unita
ad un notevole dinamismo industriale. Per quel che riguarda la
classe politica, essa ha dato una grave prova di scarsa attenzione
agli interessi nazionali quando un primo ministro italiano, con
l’entusiasmo del neo-convertito al liberismo, ha espresso in un
vertice italo-francese la disponibilità italiana a proposito di
una ventilata cessione dell’Eni alla Elf. Cessione che sarebbe
stata in contraddizione non solo con ogni possibilità di
continuare nel ruolo di garante degli approvvigionamenti, ma anche
con la recente popolarità che l’idea di libero mercato si è
conquistata nel nostro paese. Perché la logica in cui chiaramente
si muove il nuovo TotalFinaElf, cioè il nuovo “campione nazionale”
francese, è proprio la logica del nazionalismo economico, cioè la
logica il cui superamento potrebbe essere, in estrema ipotesi,
l’unica ragione per accettare, da parte italiana, una perdita di
controllo sul grande patrimonio costituito dalla società
petrolifera italiana.
Dal punto di vista industriale, invece, proprio la tecnostruttura
che dirige l’Eni sta dimostrando una notevole chiarezza di visione
strategica e di efficacia operativa. Poiché la Ue le impone una
riduzione delle proprie attività in Italia, in particolare nella
distribuzione del gas – cui potrebbe invece dedicarsi il Gruppo
Fiat, possibile acquirente di Italgas – nonché una dismissione
della rete dei metanodotti, l’azienda sta opportunamente
destinando le risorse così liberate ad uno sviluppo internazionale
nel campo che è più utile al paese, cioè nell’acquisizione di
risorse petrolifere. L’acquisto della British Borneo e della
Lasmo, anche se non sono sufficienti, vanno in questo senso, ed
hanno rafforzato l’azienda italiana nei confronti dei suoi
principali concorrenti. La linea su cui sembra essere intenzionato
a proseguire il vertice aziendale dell’Eni, concentrarsi sul core
business e andare sempre più upstream e all’estero, sembra insomma
una strategia aziendale giustificata dall’evoluzione del settore.
La politica delle piccole acquisizioni finalizzate a raggiungere
una dimensione adeguata per stare in un mondo di giganti sembra
senza alternative, a meno di non snaturare il carattere nazionale
e distruggere la cultura aziendale dell’Eni.
Anche l’Enel ha, sino ad oggi, tentato di accrescere la
flessibilità e diversificare i propri fornitori. Basta pensare al
contratto per acquisire gas naturale liquefatto dalla Nigeria, gas
che - per non avere il governo mantenuto i propri impegni in
materia di infrastrutture - deve attualmente essere sbarcato e
rigassificato in Francia. L’Enel, si trova indubbiamente in una
situazione diversa da quella dell’Eni, disponendo dell’occasione
offerta dai suoi 29 milioni di clienti connessi in rete, che
costituiscono un asset formidabile, adattissimo alla
diversificazione nel settore delle telecomunicazioni e degli altri
servizi in rete, dove la rivoluzione tecnologica degli anni
Novanta ha determinato grandi aumenti di produttività.
Tale strategia, anche se è stata di recente oggetto di critiche e
di una ingiustificabile penalità imposta alla società elettrica,
sembra dunque rispondere a una strategia industriale piuttosto
logica. Inoltre, l’Enel, nonostante non abbia una tradizione e
un’esperienza in campo internazionale paragonabile a quella
dell’Eni, ha annunziato una strategia volta ad accrescere il
proprio ruolo internazionale, sia nel settore elettrico, come
produttore e distributore, sia - in particolare - come esportatore
di servizi e tecnologie. L’acquisto della Chi, una società
americana specializzata nelle fonti rinnovabili, e probabilmente
di un’altra analoga azienda in America Latina, delinea sotto
questo aspetto interessanti prospettive innovative.
Le grandi aziende italiane operanti nel settore energetico,
costrette dalla Unione Europea ad abbandonare i loro privilegi
monopolistici all’interno del mercato italiano, tendono insomma a
reagire in maniera assai più intelligente e fruttuosa di quanto
non abbia fatto la classe politica. E’ infatti indubbio che il
sistema economico internazionale non può che trarre beneficio
dallo sforzo di internazionalizzazione cui sono spinti gli ex
monopolisti e contribuisce a mantenere il carattere competitivo
nel mercato globale dell’energia, oggi in fase di rapida
trasformazione e in cui sta aumentando la taglia necessaria per
competere. Ed altrettanto benefico è l’ingresso in Italia di altri
operatori, specie se stranieri, nei campi dell’elettricità e del
gas. Entrambe le mosse vanno nel senso della maggiore
concorrenzialità del mercato dell’energia. E questo è
probabilmente il miglior risultato complessivo attendibile con
un’intelligente politica energetica nel quadro internazionale di
incompleta liberalizzazione dei mercati.
Naturalmente, non va dimenticato che la taglia non è tutto. Le
piccole aziende, anche nel campo del petrolio sono spesso le più
innovative. E l’Eni stesso, pur non essendo una delle majors, ne
ha dato prova in passato, “inventando” con spirito pionieristico
il commercio intercontinentale del gas. La riduzione della
presenza degli ex monopolisti, per introdurre la logica e i
vantaggi della concorrenza sul mercato interno, si può ottenere
con un insieme di iniziative politico-legislative che dipendono
solo da noi o quasi: riducendo le complicazioni burocratiche
all’ingresso degli investimenti esteri; rafforzando
l’interconnessione elettrica ad alta tensione con i paesi
confinanti; rendendo più flessibili e concorrenziali gli
approvigionamenti di gas attraverso un diverso tipo di contratti
con i fornitori “fissi” e attraverso la costruzione di
infrastrutture per l’importazione via mare; garantendo una
gestione dei sistemi in rete - elettrodotti, pipelines, e
stoccaggi - che metta finalmente in condizioni di eguaglianza
tutte le aziende in grado di offrire energia ai consumatori. Al
tempo stesso, però, questa riduzione del ruolo interno dell’Eni e
dell’Enel dovrà acccompagnarsi con un ulteriore potenziamento
internazionale di queste due aziende e delle loro tecno-strutture,
in modo da portarle ad investire upstream le risorse liberate
attraverso le dismissioni delle reti, degli immobili e delle
stazioni di servizio. Così facendo l’Italia darà il suo contributo
- certo proporzionato al proprio ruolo economico internazionale di
media potenza - ad un’effettiva globalizzazione del mercato
globale dell’energia, in cui le tendenze oligopolistiche sono,
come è chiaro, assai forti.
I mega-mergers
L’aumento dimensionale delle aziende operanti nel settore
dell’energia risponde infatti ad una logica ineluttabile, ed
investe non solo le aziende europee che abbiamo già citato, ma
anche quelle americane. In particolare, due fusioni hanno
radicalmente trasformato il paesaggio americano in questo campo:
la fusione tra Texaco e Chevron, e soprattutto quella tra Exxon e
Mobil. Quest’ultima fusione ha un valore anche simbolico assai
forte: essa capovolge la più celebre iniziativa di uno stato
sovrano in materia di antitrust, perché coinvolge le due
principali aziende nate dallo smantellamento dell’impero
Rockfeller imposto, circa novanta anni fa, dalla Commissione
antimonopoli. In pratica, segna la fine di un’era in cui il potere
politico riusciva ad imporsi su quello economico. Questa corsa al
gigantismo in campo petrolifero è dovuta spesso a cause di
obiettiva razionalità. Con l’esaurimento progressivo dei
giacimenti più facilmente accessibili e con i problemi posti
dall’eccessiva concentrazione delle riserve attuali nel Golfo
Persico, l’esplorazione e lo sfruttamento delle risorse di
idrocarburi si stanno spostando verso regioni sempre più impervie.
Nonostante i progressi assai notevoli delle tecniche di
esplorazione, perforazione e sfruttamento, gli investimenti ed i
rischi necessari per la ricerca di giacimenti profondi sotto il
mare o sotto i ghiacci sono sempre più colossali, e cominciano ad
essere rischiosi anche per le majors del petrolio, che tendono
perciò ad accrescere le loro dimensioni ed il loro fiato
finanziario con acquisizioni e fusioni.
Il fenomeno della concentrazione tra grandi compagnie riduce il
numero dei protagonisti nel mercato degli idrocarburi, e
parzialmente smentisce coloro che presentano l’aumento della
concorrenzialità dei mercati come la principale conseguenza della
globalizzazione. In realtà, è questo un fenomeno assai dinamico:
nel breve periodo subito dopo l’abbattimento delle frontiere la
concorrenza risulta accresciuta a scapito delle posizioni
monopolistiche interne a ciascun paese. Ma nel lungo periodo, la
dinamica competitiva tende a favorire in molti settori, tra cui
quello energetico, la nascita di “oligopoli globali”. Tra i pochi
“grandi” che questo processo tende a far emergere e consolidare ci
sono oggi - come abbiamo visto - taluni “campioni nazionali
pubblici” ed ex monopolisti di alcuni paesi europei. Ma l’ingresso
in questo ristretto club non è automatico, anzi diventa tanto più
difficile inserirsi in esso, quanto più tardi si aprono le proprie
frontiere. La posizione di compagnie di taglia media, come l’Eni,
rischia perciò di diventare sempre più marginale se - da parte del
paese base - non viene accettata la sfida della crescita
dimensionale e della rapida apertura del mercato interno. Questi
matrimoni tra grandi aziende, come abbiamo visto, hanno ancora un
carattere nazionale. Sicché, mentre la riduzione del numero dei
grandi attori rischia di rendere più, e non meno, oligopolistico
il mercato, riemergono - nonostante il mondo si dichiari “globale”
- forti elementi di “localismo” e di regionalismo continentale. Si
tratta naturalmente di un fenomeno che si accompagna con un
evidente declino della proprietà pubblica anche in questo settore,
e quindi dei “campioni nazionali pubblici” ma non con una
scomparsa totale delle politiche pubbliche energetiche ad
ispirazione e guida delle società multinazionali a base locale.
Anche piccoli attori si comportano secondo questa logica. La
società spagnola Rapsol, per esempio, tende come molte altre
aziende iberiche ad allargarsi attraverso acquisizioni soprattutto
in America Latina, ad esempio con la YPF argentina. Ma la sua
dimensione, per non parlare della condizione generale
dell’azienda, resta insoddisfacente, per cui sono circolate voci
di un possibile acquisto della Rapsol da parte dell’Eni.
L’assorbimento della Rapsol, però, incontra ostacoli nel fatto che
la Rapsol non ha dimostrato grandi capacità tecniche
nell’esplorazione e che in generale rischia di accrescere
fortemente il numero dei problemi ambientali da cui il gruppo Eni
sta venendo fuori. Quel che è più grave però è che pur essendo la
taglia della Rapsol meno della metà di quella dell’Eni in termini
di capitalizzazione, e per di più essendo la società gravata, pur
nella sua piccola dimensione, di debiti che sono il triplo di
quelli dell’Eni, gli spagnoli pretendono - per ragioni non
confessate ma chiaramente nazionaliste - di esercitare una forma
di controllo politico sul nuovo gruppo che verrebbe così a
formarsi. Il quadro energetico mondiale con cui l’Italia deve
confrontarsi è dunque un quadro complesso, in cui si mescolano
tendenze nuove e comportamenti tradizionali, globalismo e
localismi.
Difendersi dai secondi è importante ed irrinunciabile, ma
incoraggiare le prime, cioè le tendenze alla liberalizzazione, è
senza dubbio nell’interesse a lungo termine del nostro paese,
privo come esso è di risorse naturali. E su questo punto non c’è
peraltro dissenso nella classe politica italiana, che oggi
unanimemente si professa come seguace del pensiero economico
liberale. Anzi, il rischio è proprio che una parte di questa
classe politica, con l’entusiasmo di chi fino a ieri era
statalista o peggio, confonda la liberalizzazione con la
distruzione pura e semplice di quanto è stato cosruito nell’ultimo
mezzo secolo, o magari si allei a coloro che ancora covano
propositi di vendetta per la nazionalizzazione elettrica dei primi
anni Sessanta e per il ruolo che Enrico Mattei e l’Eni ebbero, nel
decennio ancora precedente, nella distruzione delle loro posizioni
di rendita parassitaria. Nell’immediato, perciò - se non si
vogliono veder ripetersi anche da noi le disastrose conseguenze
“californiane” delle liberalizzazioni malfatte - è consigliabile
liberalizzare il settore energetico italiano nel quadro di un più
libero mercato internazionale dell’energia. Aprendo le frontiere
all’ingresso di aziende già abituate ad operare in un mercato
davvero caratterizzato sia dalla libertà che dall’esistenza di
regole certe. E contemporaneamente favorendo l’evoluzione degli ex
“campioni nazionali pubblici” in multinazionali a base italiana,
cioè attori capaci di fare anche all’estero la loro parte, con lo
stesso livello tecnico e con utili economici comparabili a quelli
delle majors, tradizionali protagoniste nel settore dell’energia.
29 novembre 2001
(da
Ideazione 3-2001, maggio-giugno)
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