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              Liberalizzazione degli scambi: primo "sì" degli Usa
              di Giuseppe Pennisi
 
 Era tardissimo - quasi la mezzanotte (fuso orario italiano) tra il 
              6 ed il 7 dicembre- quando è arrivato il dispaccio di agenzia con 
              il quale si informava che al termine di un appassionato ed 
              appassionante discorso del presidente degli Stati Uniti George W. 
              Bush, il Congresso ha approvato, con una maggioranza risicatissima 
              (di un solo voto), il “fast track bill”, ossia la normativa che 
              concede all’Amministrazione Usa la delega necessaria per 
              partecipare al prossimo negoziato commerciale multilaterale sugli 
              scambi di cui si sono poste le basi alla conferenza ministeriale 
              Wto (Organizzazione mondiale del commercio) tenuta a Doha, 
              capitale del Qatar, proprio un mese fa. Un’analisi dell’Università 
              del Maryland documenta che, dal 1993, almeno 50 deputati 
              repubblicani hanno votato contro la liberalizzazione degli scambi, 
              pure su base regionale, ogni volta che se ne è presentata 
              l’occasione (ad esempio, in occasione della ratifica del trattato 
              Nafta); ben 71 deputati repubblicani hanno votato contro il “fast 
              track bill” quando, nel 1998, è stato presentato 
              dall’Amministrazione Clinton, un risultato considerato tra le 
              determinanti del fallimento della conferenza ministeriale di 
              Seattle del novembre-dicembre 1999.
 
 Dato che alla Camera dei Rappresentanti Bush poteva contare su una 
              maggioranza di soli sei deputati (su un totale di 435) è stato 
              necessario un attento e paziente lavorio diplomatico da parte del 
              rappresentante speciale della Casa Bianca per il negoziato 
              commerciale Robert Zoellick, nonché un forte esercizio della 
              leadership presidenziale, che consente, anche se solo per una 
              manciata di voti, l’apertura del negoziato. Alla fine, come si è 
              detto, il disegno di legge è passato per un solo voto. Quali le 
              implicazioni di breve e medio-lungo periodo? Da solo, il passaggio 
              parlamentare alla Camera non riavvia il motore del commercio 
              mondiale: per quest’anno si prevede un aumento dell’export 
              mondiale del 2 per cento appena, rispetto al 12 per cento del 
              2000, al 5 per cento del 1999 e del 1998 e al 10 per cento del 
              1997. Se il voto fosse stato negativo, però, le prospettive di una 
              frammentazione del commercio mondiale avrebbero senza dubbio 
              pesato sulle possibilità di ripresa dell’economia internazionale e 
              degli scambi di beni e servizi. Si deve ancora superare inoltre 
              l’incognita del Senato, dove, sempre per un solo voto, la Casa 
              Bianca è in minoranza.
 
 Nel medio periodo, il negoziato che potrebbe presto aprirsi sarà 
              marcatamente differente da quelli precedenti. Il vice ministro per 
              le Attività Produttive italiano, Adolfo Urso, lo ha denominato 
              “development round”, in quanto darà attenzione specialmente alle 
              esigenze dei paesi in via di sviluppo, particolarmente di quelli a 
              livello intermedio di reddito, con notevole potenziale di export. 
              Ciò vuol dire salvaguardare gli interessi dell’Italia, e di altri 
              paesi industriali ad alto reddito, soprattutto nei comparti della 
              denominazione d’origine (per limitare contraffazioni), ma 
              significa anche essere consapevoli che, senza una riduzione del 
              protezionismo agricolo europeo e senza un’apertura dei nostri 
              mercati, i paesi in via di sviluppo, che rappresentano la grande 
              maggioranza del Wto non daranno il loro accordo. Il Wto non è più 
              il Gatt di Villa Le Bocage, dove il futuro del commercio mondiale 
              si decideva nello studio del direttore generale sorseggiando 
              brandy e soda. Non è neanche quello della “green room” del Centro 
              Rappart, dove Usa, Ue e Giappone stilavano i punti centrali dei 
              protocolli. E’ un’altra cosa, che non conosciamo bene ancora, ma 
              in cui India, Brasile e Cina sono diventati i principali 
              giocatori. E vogliono fare ascoltare tutta la loro voce.
 
 14 dicembre 2001
 
 gi.pennisi@agora.it
 
              
 
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