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              Enron, il mercato non perdona (chi abusa)di Federico Vasoli
 
 Giornali e opinionisti italiani hanno gridato allo scandalo. E, in 
              effetti, il fallimento della settima impresa statunitense non è 
              cosa da poco. Parliamo della Enron, colosso dell’energia e delle 
              materie prime, nonché una nota finanziatrice di Repubblicani e 
              Democratici, per un rapporto di tre a uno a favore dei primi. Un 
              gigante, insomma. Che, a poco più di quindici anni dai suoi primi 
              passi da nano, è crollato quando nessuno, tra il grande pubblico, 
              se lo sarebbe aspettato. E le cassandre delle nostre parti, poco 
              inclini a fidarsi del mercato, hanno dato l’estrema unzione al 
              capitalismo statunitense, oltre, naturalmente, a dissotterrare 
              vecchie antipatie preconcette nei confronti dell’amministrazione 
              repubblicana.
 
 Certo, il mercato americano è molto più dinamico e molto meno 
              regolato, rispetto al nostro. La Enron poteva costituire un numero 
              imprecisato di società (da mal di testa lo schema riportato sul 
              Financial Times del primo febbraio!) con solo il tre percento di 
              soci esterni al gruppo per poter assorbire i propri debiti. 
              Attraverso questa rete, la Enron poteva girare le proprie cambiali 
              alle controllate, le quali le pagavano attraverso l’acquisto di 
              azioni della capogruppo, così la quotazione lievitava. Il tutto 
              senza dover consolidare il bilancio. E’ bene precisare, comunque, 
              che il presidente Bush ha recentemente proposto un piano di tutela 
              dei lavoratori dipendenti sottoscrittori di fondi pensione. Se 
              tutto questo fosse avvenuto da noi, dove – come lucidamente 
              descritto in un recente editoriale su Milano Finanza – le 
              operazioni borsistiche si svolgono clandestinamente nei salotti di 
              qualche dama romana, allora sì che il “caso” Enron sarebbe stato 
              un vero “scandalo” di dimensioni sistemiche. E, invece, a livello 
              di mercato, l’unica conseguenza è stata un’ulteriore flessione 
              dell’indice Dow Jones, seguita, peraltro, da una lieve ripresa. In 
              America, chi abusa della grande libertà concessagli viene 
              puntualmente punito dal mercato, come è stato per la Enron.
 
 E’ noto che i grandi gruppi hanno interessi colossali, che vengono 
              portati avanti da eserciti di lobbisti. Ma, almeno, il sistema 
              delle lobbies è relativamente trasparente, mentre il nostro 
              capitalismo casereccio si basa sulle surrettizie confidenze – e su 
              un alto rischio corruzione – che si scambiano i soliti noti. Da 
              noi, per prevenire simili crack, si rischia di spendere in 
              regolamentazione più di quanto costerebbe un fallimento e si 
              rischia di mantenere in vita elefantiache imprese mangia-soldi che 
              farebbero bene a chiudere una volta per tutte. Una maggiore 
              informazione, peraltro, non farebbe male al capitalismo americano, 
              dove la società certificatrice del bilancio spesso coincide con il 
              consulente di fiducia e dove è evidente il conflitto d’interessi 
              tra banche commerciali e banche d’investimento.
 
 La migliore soluzione, comunque, sarebbe un po’ di vecchio e sano 
              buonsenso. In borsa non si gioca: si investe. E chi investe presta 
              (o dovrebbe prestare) una notevole attenzione ad una sterminata 
              serie di fattori. La Enron era già stata denunciata per 
              manipolazione dei prezzi dell’energia in California, un 
              responsabile finanziario si era dimesso nel luglio 2001, dopo aver 
              alleggerito la propria compagnia di qualche milione di dollari, e 
              la quotazione del titolo aveva perso più del cinquanta percento 
              tra l’agosto 2000 e l’agosto 2001. Era, dunque, sensato mettere lì 
              i propri soldi? Ovviamente no, nemmeno su consiglio degli 
              analisti, i quali dovrebbero fare gli amici dei risparmiatori, ma, 
              com’è noto, tengono famiglia e hanno un datore di lavoro che altri 
              non è che una merchant bank, ossia un’impresa che fa soldi 
              manovrando prodotti finanziari. A meno che la banca investa nello 
              stesso titolo che consiglia (e, attenzione, nello stesso istante, 
              a scanso di speculazioni sulle fluttuazioni nelle quotazioni), è 
              credibile che i propri consigli siano assolutamente 
              disinteressati? Chi investe seriamente dovrebbe saperlo. Il 
              mercato non perdona chi sgarra, sia esso un’impresa truffatrice o 
              un risparmiatore sprovveduto.
 
 15 febbraio 2002
 
 federico_vasoli@hotmail.com
 
              
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