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              Sindacato: poteri e limiti della 
              concertazionedi Massimo Lo Cicero
 
 La CGIL si presenta nel movimento sindacale italiano con una 
              posizione singolare: la denuncia di un collateralismo tra governo, 
              Confindustria ed altre istituzioni economiche, come la banca 
              centrale, e di una parallela marginalizzazione del metodo della 
              concertazione, che aveva garantito gli obiettivi di risanamento 
              economico nel difficile decennio che ha concluso il ventesimo 
              secolo nel nostro paese. In termini banali questa denuncia si può 
              interpretare come una sorta di rivelazione. Concertano tutti ma 
              escludono il movimento sindacale. Dunque siamo in presenza di una 
              convergenza oggettiva che ha un fine: escludere il sindacato dalla 
              condivisione delle scelte di fondo.
 
 Questa conclusione è evidentemente paradossale perché non conviene 
              a nessun governo escludere pregiudizialmente un importante attore 
              sociale. A maggior ragione quando il venir meno della 
              responsabilità delle condivisione attenuerebbe di molto l’impegno 
              di quel medesimo attore nella dinamica reale dei rapporti, che si 
              sviluppano a valle delle decisioni del governo stesso. La verità è 
              che l’obsolescenza della concertazione è oggettiva e non è il 
              risultato di una pregiudiziale ideologica alimentata dalla nuova 
              maggioranza politica. Essa, infatti, rappresentava un cemento 
              necessario per rafforzare la base di consenso negli anni Novanta 
              per due ragioni contingenti: la fragilità estrema della 
              maggioranza parlamentare e la esistenza di un traguardo imposto da 
              cause di forza maggiore.
 
 Se l’Italia voleva essere accettata nel club europeo della moneta 
              unica e della stabilità doveva normalizzare la gestione della 
              propria finanza pubblica. Questa opzione fu interpretata dai 
              governi in carica in termini di una immediata stretta fiscale, cui 
              sarebbe seguita una successiva fase di espansione economica. Essa 
              fu perseguita rigorosamente. In quel contesto la condivisione del 
              traguardo, e del percorso scelto per tagliarlo, era decisiva ed 
              imponeva la massima area di consenso sociale. A riprova di questa 
              interpretazione ci sono i risultati: il traguardo è stato tagliato 
              pagando il prezzo di un sostanziale blocco della crescita nella 
              seconda metà degli anni Novanta. Il tasso medio annuo di 
              espansione del reddito, tra il 1995 ed il 2000, è stato pari ad 
              1,66 per cento. Il resto è cronaca.
 
 Come è accaduto sovente nella nostra storia nazionale, questo 
              modello di relazioni sociali era importato dalla Germania. Ed era 
              una delle tante applicazioni di quello che si chiama 
              “corporatismo”. Espressione singolare con cui si indica una 
              politica economica molto diversa dal dirigismo e dalle ambizioni 
              stataliste tradizionali. In questo caso si tratta solo di 
              annunciare in anticipo la dimensione delle fette in cui sarà 
              ripartita la futura “torta” del reddito nazionale, per compattare 
              gli sforzi di tutte le componenti sociali nella sua produzione 
              efficiente. Il cemento di lungo periodo di questa politica 
              economica, evidentemente, è anche la crescita stabile delle 
              dimensioni della torta. Quando questo non accade le organizzazioni 
              sociali condividono una sconfitta e non un risultato e ne risulta 
              indebolita la relativa capacità di attrazione verso i propri 
              associati. Si può guardare la cosa anche da un altro punto di 
              vista. La concertazione obbligata può ribaltare i propri effetti 
              anche in presenza delle migliori intenzioni da parte dei suoi 
              promotori. Si pensi agli avvocati furbi, quando scrivono negli 
              statuti delle società che, per decidere su cose importanti, 
              occorre il voto favorevole dell’80 per cento dei soci. Essi 
              sognano il potere della maggioranza ma, in effetti, regalano il 
              potere ad una esigua minoranza che, con un solo voto, può rendere 
              padrone della situazione il 20 per cento dei soci.
 
 L’obsolescenza della concertazione, per concludere, dipende da tre 
              fatti oggettivi: l’esistenza di una chiara e stabile maggioranza 
              parlamentare che sostiene l’esecutivo; l’esigenza di trovare una 
              politica economica che si fondi sulla mobilitazione di una 
              moltitudine di azioni individuali, orientate alla crescita, e non 
              su grandi programmi di stabilizzazione, onerosi fiscalmente e 
              condivisi socialmente; le aspettative di una nuova generazione di 
              lavoratori, che vedono il proprio futuro affidato alla knowledge 
              economy, e alla sua capacità di adattarsi ai processi economici, e 
              non a grandi architetture organizzative, che l’incertezza travolge 
              proprio in ragione della loro intrinseca rigidità.
 
 1 marzo 2002
 
 maloci@tin.it
 
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