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              Solidarietà o statalismo?di Antonio Martino
 
 Queste pagine, frutto di riflessioni sviluppatesi negli anni, 
              erano state scritte come contributo alla campagna elettorale per 
              le elezioni politiche del 13 maggio dello scorso anno. Si 
              proponevano di illustrare la natura dei problemi che affliggono 
              l’assistenzialismo di Stato non solo in Italia, in vista delle 
              riforme che proponevamo in vista della nostra possibile vittoria 
              elettorale. Com’è ovvio, data la sua origine e il suo obiettivo, 
              l’analisi è presentata in forma semplificata, nell’intento di 
              richiamare l’attenzione su quelli che considero gli aspetti più 
              rilevanti degli errori del nostro welfare. Ma il tono non tragga 
              in inganno: non si tratta di un divertissement intellettuale. 
              Pubblicarle oggi, quando ci troviamo a dovere dare esecuzione ad 
              un preciso mandato popolare, può servire a ricordarci la gravità 
              del nostro impegno e le aspettative di cambiamento che la nostra 
              battaglia politica ha determinato. Com’è ovvio, non riusciremo a 
              risolvere in tempi brevi tutti i problemi del welfare – sono 
              ancora insoluti in tutto o in parte in quasi tutti i paesi 
              occidentali – ma può essere utile ricordare a noi stessi qual è la 
              direzione verso cui gli italiani ci chiedono di muovere. Anche se 
              riusciremo a realizzare solo un cambiamento parziale in questa 
              direzione, si tratterà comunque di un’autentica rivoluzione.
 Per troppi anni “solidarietà” è stato uno di quei termini usati 
              con grande frequenza, specie dai politici, perché “suonava bene”, 
              aveva un connotato positivo, ma che non veniva quasi mai definito. 
              C’era soltanto la vaga presunzione che essere solidali 
              significasse prelevare quattrini ad alcuni cittadini (i 
              contribuenti) per destinarli ad altri cittadini, beneficiari di 
              quest’atto di solidarietà. Avendo assunto il termine un connotato 
              positivo, c’è stata negli ultimi decenni una nobile gara fra i 
              politici ad accrescere le spese destinate alla solidarietà, ad 
              allargare le dimensioni dello Stato sociale. Questa estensione è 
              stata particolarmente cara alle sinistre, che non hanno mai voluto 
              essere seconde a nessuno in fatto di generosità a spese dei 
              contribuenti. E alla fine ha prevalso l’assunto per cui un paese 
              sarebbe stato tanto più solidale quanto maggiore fosse il livello 
              di spesa pubblica da dedicare allo scopo. La conseguenza di questa 
              idea è che un paese sarebbe tanto più solidale quanto maggiore è 
              il numero delle persone che dipendono dalla carità pubblica per 
              andare avanti. In quest’ottica, il massimo della solidarietà 
              sarebbe la situazione in cui tutti dipendono dalla carità pubblica 
              per sopravvivere. 
              Noi siamo, invece, convinti che un paese è tanto più efficace e 
              solidale quanto maggiore è il numero di cittadini indipendenti, 
              che riescono ad andare avanti senza doversi affidare alla carità 
              pubblica, e che il massimo di solidarietà si abbia, in realtà, 
              quando nessuno dipende dalle elargizioni pubbliche. Accettando 
              questa seconda impostazione, si perviene all’ovvia conclusione che 
              1) un paese è tanto più solidale quanto maggiore è il numero di 
              persone che riesce a trovare un lavoro dignitoso che gli consente 
              di essere autosufficiente e, 2) che un sistema assistenziale che, 
              in nome della solidarietà, distrugge posti di lavoro, lungi 
              dall’essere solidale, è in realtà nemico della solidarietà “vera”. 
              Quello che ha prevalso in Italia negli ultimi decenni è stato, 
              appunto, un assistenzialismo di questo tipo, perché le imposte 
              necessarie a finanziare l’assistenzialismo di Stato hanno gravato 
              sulla busta paga dei lavoratori configurando un’autentica imposta 
              sull’impiego. La differenza fra il costo del lavoro (quanto il 
              datore di lavoro spende) e la remunerazione netta (quanto il 
              lavoratore incassa) – il cosiddetto “cuneo fiscale e contributivo” 
              – è arrivato ad aggirarsi sul 50 per cento del totale. Questo 
              significa che per ogni milione di remunerazione netta al 
              lavoratore, il datore è stato costretto a pagare anche una 
              “penale” di un milione allo Stato. È come se lo Stato avesse detto 
              ai datori: «assumete pure, se volete, ma se vi permetterete di 
              farlo, per ogni milione versato al lavoratore dovrete pagare una 
              multa di un milione». 
              Le conseguenze di questa insensata punizione inflitta 
              all’occupazione sono state devastanti: un tasso di disoccupazione 
              a livelli elevatissimi, un tasso di occupazione fra i più bassi al 
              mondo, una percentuale di disoccupazione “cronica” sul totale 
              inaccettabile (il 70 per cento contro l’11 per cento degli Usa e 
              il 15 per cento del Giappone). Il risultato è stato che la 
              “solidarietà” all’italiana ha avuto come ovvia conseguenza il 
              fatto di avere creato un esercito di persone destinate a dipendere 
              stabilmente dalla carità pubblica perché il costo di questa si è 
              tradotta nella drastica diminuzione di opportunità di impiego 
              produttivo. Il welfare italiano è stato quindi fino ad ora la 
              causa del problema che avrebbe dovuto risolvere. Non sarebbe male, 
              quindi, ripensare a fondo l’intera questione.
               
               
              L’incertezza ed il rischio sono caratteristiche ineliminabili 
              della nostra vita: qualsiasi attività comporta assunzione di 
              rischi. Quando attraversiamo la strada mettiamo inconsapevolmente 
              a confronto la probabilità di essere travolti da un’automobile con 
              l’importanza che attribuiamo al fatto di passare dall’altro lato 
              della strada. Se decidiamo di attraversare è perché riteniamo la 
              seconda considerazione più importante della prima. Tuttavia, com’è 
              ovvio, la maggior parte di noi preferirebbe ridurre al minimo o 
              eliminare del tutto il rischio dalla propria vita. Anche se si 
              tratta di un auspicio irrealizzabile, gran parte delle decisioni 
              di politica economica è ispirata proprio da quell’obiettivo. 
              L’avversione al rischio sono forse determinati dall’ansia, dalla 
              paura che la mancanza di certezze provoca in noi. Nell’osservare 
              l’organizzazione della società, ci spaventa e rattrista il destino 
              di quanti, senza loro colpa, vengono a trovarsi in condizioni di 
              vita che riteniamo inaccettabili. Non ci sembra “giusto” che ci 
              siano nostri concittadini ammalati privi di assistenza medica 
              adeguata, poveri che non riescono a soddisfare neanche bisogni che 
              ci appaiono elementari, giovani che non riescono a trovare lavoro, 
              anziani privi di mezzi di sussistenza. Si sono trovati in quelle 
              condizioni perché nel gioco della vita hanno estratto a sorte “una 
              carta bassa”, il rischio ha giocato a loro danno. E se la stessa 
              sorte fosse toccata a noi o ai nostri cari? 
              Non ci rassicura molto la constatazione che la probabilità di un 
              esito tanto triste sia bassa, nè che essa possa essere 
              ulteriormente ridotta grazie al nostro impegno: la situazione è 
              comunque inaccettabile, dobbiamo fare di tutto per eliminarla. 
              Questo sentimento diffuso e nobile ci spinge in molti casi ad 
              adoperarci in prima persona per alleviare le disgrazie dei nostri 
              simili attraverso attività caritatevoli. Ma anche questo “rimedio” 
              volontario, privato e diretto non appare sufficiente; nasce così 
              la richiesta di intervento pubblico, in assenza del quale si 
              ritiene che l’ammontare di mezzi volontariamente destinati allo 
              scopo si rivelerebbe inadeguato per la soluzione dei problemi. In 
              altri termini, riteniamo necessario che lo Stato faccia ricorso 
              alla coercizione per costringere la collettività a dare a scopi di 
              assistenza più di quanto darebbe spontaneamente. È questa l’idea 
              di base del welfare state. Le origini sono controverse: la tesi 
              sostenuta da diversi studiosi, secondo cui l’inventore 
              dell’assistenzialismo di Stato nella sua forma moderna sarebbe 
              stato Bismarck, che lo avrebbe introdotto (1881) per far perdere 
              terreno all’opposizione socialdemocratica, non è accettata da 
              tutti. Ma, anche se si preferisce credere che il welfare state 
              abbia avuto origini nobili, che sia nato cioè per la sincera 
              preoccupazione di venire incontro alle esigenze dei nostri 
              concittadini meno fortunati, il giudizio difficilmente potrebbe 
              essere oggi positivo. 
              Questo non perché la desiderabilità degli obiettivi dichiarati 
              dell’assistenzialismo sia venuta meno, ché anzi essa è ormai 
              generalmente riconosciuta, ma perché lo strumento si è rivelato 
              inadeguato allo scopo. Mentre il costo dei programmi di assistenza 
              pubblica, infatti, ha ormai raggiunto livelli astronomici, 
              compromettendo in molti casi la solvibilità dello Stato sociale, i 
              risultati sono stati assai deludenti: l’assistenzialismo di Stato 
              si è rivelato un pessimo affare, specie per coloro che si 
              riprometteva di aiutare: i poveri e i deboli, proprio quelli che 
              avrebbe dovuto liberare dalla paura. Il lettore, comunque, farà 
              bene a non dimenticare che quanto vale per l’Italia vale anche, 
              sia pure in misura diversa, per altri paesi: lo Stato 
              assistenziale è ovunque sotto accusa, sia per il costo eccessivo 
              che per i risultati ritenuti insoddisfacenti.
 Il costo dell’assistenzialismo
 
 Per avere un’idea delle dimensioni assolute e della crescita nel 
              tempo dell’assistenzialismo di Stato, può essere utile guardare 
              alla spesa per prestazioni sociali e alla sua evoluzione. Secondo 
              i dati ufficiali, dal 1974 al ’99 la spesa per prestazioni sociali 
              è aumentata di oltre ventiquattro volte in termini nominali, 
              passando dal dodici per cento a oltre il diciassette per cento del 
              Pil. In termini reali, tenendo conto cioè dell’inflazione, 
              l’incremento è stato del 174 per cento; in tutti questi anni, 
              oltre un terzo delle spese totali del settore pubblico è stato 
              destinato appunto a questo scopo. Anche se altre categorie di 
              spesa sono cresciute più rapidamente della spesa per prestazioni 
              sociali, non c’è dubbio che la crescita di questa spesa 
              costituisca una delle ragioni principali dell’iperfiscalità e 
              della conseguente disoccupazione, per non parlare della protesta 
              fiscale. Tanto per darne una illustrazione, nel ’99 la spesa per 
              prestazioni sociali è stata il cinquantasette per cento del 
              gettito combinato delle imposte dirette ed indirette!
 
              E ancora: la crescita della spesa “sociale” è stata in passato 
              largamente responsabile del dissesto finanziario dello Stato: se 
              l’incidenza della spesa “sociale” sul prodotto interno lordo fosse 
              rimasta costante dal 1974 al 1991, nel 1991 il deficit pubblico 
              sarebbe stato inferiore alla metù del suo valore: 68.076 miliardi 
              anziché 151.242, il 4,77 per cento del Pil anziché il 10,6 per 
              cento. Sarebbe stata sufficiente una modesta misura di 
              contenimento della crescita della spesa sociale (non una riduzione 
              del suo valore assoluto) per dare un significativo contributo al 
              risanamento della finanza pubblica. Lo Stato assistenziale, 
              quindi, è arrivato a costare troppo. Tuttavia, se a fronte del 
              costo ingente dell’assistenzialismo di Stato si avessero risultati 
              incontestabili in termini di socialità, la difesa di questo tipo 
              di intervento sarebbe ancora possibile. Le cose, sfortunatamente 
              per i superstiti sostenitori del welfare state, non stanno in 
              questi termini. 
              Per quanto possa apparire incredibile a chi abbia riflettuto anche 
              solo per un istante sulla realtà della fornitura pubblica di 
              servizi e sul loro costo, c’è ancora chi si dice convinto della 
              natura “sociale” della spesa pubblica. Per difendere 
              l’assistenzialismo di Stato, secondo taluno, basterebbe il 
              richiamo all’articolo 2 della Costituzione, dove si accenna ai 
              «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e 
              sociale». La tesi è che le spese assistenziali soddisfano nobili 
              esigenze di “socialità”. Evidentemente, qualcuno crede che 
              l’assistenzialismo sia “sociale”, serva cioè gli interessi dei 
              poveri. Sarà quindi meglio chiarire questo punto. Anzitutto, è 
              perlomeno dubbio che la spesa per prestazioni sociali sia 
              effettivamente motivata dal desiderio di migliorare le condizioni 
              dei meno abbienti. Infatti, alla domanda: «chi ha più bisogno di 
              assistenza, i ricchi o i poveri?» credo che tutti risponderebbero 
              che sono i poveri ad avere più bisogno di aiuto. Ma, se sono i 
              poveri ad avere più bisogno di aiuto, perché l’assistenzialismo di 
              Stato è aumentato al diminuire della povertà? Oggi il reddito 
              reale è enormemente più alto e più uniformemente distribuito che 
              in passato, eppure, come detto sopra, le spese per lo Stato 
              assistenziale non hanno smesso di crescere al crescere del 
              reddito. Sembrerebbe proprio che l’assistenzialismo pubblico tanto 
              caro alle sinistre non abbia avuto come fine quello di ridurre la 
              povertà. 
              Non basta. L’assistenzialismo di Stato di derivazione bismarckiana 
              è basato su una concezione paternalistica della povertà: lo Stato 
              individua alcuni bisogni ritenuti “essenziali” e si assume l’onere 
              di fornire, spesso in condizioni di monopolio, i relativi servizi 
              all’intera collettività. Indipendentemente da tante altre 
              possibili considerazioni, questo modo di affrontare il problema 
              della povertà è inefficiente, perché la ridistribuzione in natura, 
              dal momento che viola la libertà di scelta dei beneficiari, 
              ottiene, a parità di costo, un risultato inferiore dal punto di 
              vista del benessere di questi ultimi; o anche, se si optasse per 
              la ridistribuzione in moneta, si potrebbe conseguire un risultato 
              uguale a quello attuale con un esborso complessivamente minore. Se 
              a questo si aggiunge che il costo dell’assistenzialismo di Stato 
              grava su tutti, anche sui poveri, mentre i benefici vanno spesso a 
              tutti, anche a coloro che non sono poveri, ci si può rendere conto 
              del fatto che la “socialità” dello Stato assistenziale è perlomeno 
              dubbia, data la presenza di elementi regressivi di 
              ridistribuzione.
               
               
              E ancora: dato che i servizi resi sono spesso assai 
              insoddisfacenti, il bismarckismo nostrano, introdotto da forze 
              politiche di centro-sinistra con il pretesto di garantire 
              “uguaglianza di accesso” a servizi pubblici essenziali, finisce 
              col realizzare una “ineguaglianza di uscita” dall’inefficienza 
              pubblica. In genere, solo i benestanti possono, infatti, 
              permettersi di pagare due volte gli stessi servizi, optando per la 
              fornitura privata. Inoltre, occorre tenere presente una lezione 
              ormai acquisita: lo Stato assistenziale costa enormemente più di 
              quanto rende, il che è ovvio sol che si ponga mente alle modalità 
              del suo funzionamento. Lo Stato, infatti, grava la collettività di 
              costi per poter distribuire benefici, sotto forma di “servizi 
              sociali”. Tuttavia, dal momento che il trasferimento ha un suo 
              costo, quello che la collettività riceve dallo Stato è sempre meno 
              di quello che la collettività deve pagare. Dal momento che è 
              presumibile che i “costi di trasferimento” siano crescenti al 
              crescere delle dimensioni dei programmi, la differenza fra costo 
              dell’assistenzialismo e benefici da esso resi aumenta al crescere 
              della “socialità”. In altri termini, dove vige l’assistenzialismo 
              una gran parte delle somme va, in vario modo, dispersa nei canali 
              burocratici, rappresentando una perdita netta per il Paese (ma non 
              per politici e burocrati) e non raggiungendo mai i beneficiari 
              dichiarati.
               
               
              Ci limitiamo a un’illustrazione approssimativa ma importante e 
              relativa alla prassi dell’ultimo governo di centro-sinistra: se i 
              370.367 miliardi di spesa per “prestazioni sociali” nel 1999 
              fossero stati distribuiti al 25 per cento più povero dell’intera 
              popolazione (supponendo per assurdo che un italiano su quattro sia 
              povero), avrebbero trasformato l’Italia in un paese di soli 
              benestanti, consentendo di elargire un reddito aggiuntivo di quasi 
              26 milioni (25.955.000) all’anno ad ognuno dei 14.269.500 italiani 
              “poveri”: quasi 104 milioni (103.820.000) per ogni famiglia di 
              quattro persone. Anche se si tratta di un calcolo 
              sovrasemplificato, non c’è dubbio che esso illustra una 
              considerazione importante: se le risorse per anni destinate 
              all’assistenzialismo di Stato fossero state impiegate 
              effettivamente ed efficacemente per venire incontro ai bisogni dei 
              nostri concittadini meno fortunati, la povertà sarebbe oggi 
              scomparsa. Il fatto che la povertà non sia ancora scomparsa, nel 
              momento in cui illustra l’inefficienza dei programmi delle 
              sinistre, fa sorgere il dubbio che, in realtà, scopo vero 
              dell’assistenzialismo non fosse il benessere dei beneficiari. Del 
              resto, se scopo dell’assistenzialismo fosse quello di migliorare 
              le condizioni dei beneficiari dichiarati, si sarebbe ricorsi alla 
              ridistribuzione in moneta come al metodo più efficace.
               
               
              E ancora: se l’assistenzialismo pubblico avesse avuto come scopo 
              quello di aiutare chi ne ha bisogno, lo Stato assistenziale 
              avrebbe dovuto adottare un criterio selettivo (dare solo a chi si 
              trova, per esempio, in condizioni di provata indigenza) non 
              universale. Così facendo, infatti, la riduzione del numero dei 
              beneficiari avrebbe consentito di massimizzare le dimensioni 
              dell’aiuto agli effettivamente bisognosi. Il criterio di 
              elargizione universale, invece, si è sostanziato nel conferimento 
              di benefici a tutti, anche ai ricchi, nel momento stesso in cui il 
              costo dell’assistenzialismo è pesantemente gravato su tutti, anche 
              sui poveri. È come se lo Stato avesse preso ai poveri per dare ai 
              ricchi con una ridistribuzione regressiva; in ogni caso non 
              sarebbe stato l’aiuto a chi ne ha bisogno a motivare 
              l’assistenzialismo universale. 
              Il punto fondamentale da tenere presente per capire la natura 
              dell'assistenzialismo di Stato è che esso è servito agli interessi 
              di burocrati e di politici legati all' "industria dell'assistenza" 
              molto più di quanto non agli interessi dei poveri. Questo spiega 
              perché si sia avuta crescita della spesa pubblica "sociale" al 
              crescere del reddito. Prendiamo il caso dell'assistenza sanitaria 
              pubblica.Com'è noto, il servizio sanitario nazionale storicamente è stato 
              introdotto col nobile proposito di garantire a tutti, anche ai 
              meno abbienti, un'assistenza adeguata. Questo scopo non è però 
              stato realizzato: anche se non si condivide l'opinione espressa da 
              diversi organi di stampa, secondo cui il sistema delle Asl (ex-Usl) 
              costituisce "lo scandalo del secolo", non c'è dubbio che il fatto 
              che circa la metà degli aventi diritto all'assistenza pubblica 
              abbia comunque fatto ricorso a cure private fornisce una misura 
              del fallimento dell'operazione.
 
 I più penalizzati dal sistema assistenziale sono stati proprio i 
              meno abbienti, che ne hanno dovuto sopportare una parte del costo 
              senza potersi permettere di rivolgersi ad alternative private 
              all'inefficienza pubblica. Solo i benestanti, infatti, hanno 
              sempre potuto disporre dei mezzi per pagare due volte l'assistenza 
              sanitaria: una volta con le imposte ed una seconda volta con il 
              costo delle prestazioni private o dell'assicurazione. Infine, il 
              finanziamento del servizio sanitario ha provocato negli anni il 
              risentimento dei contribuenti. Per rendersi conto delle dimensioni 
              della ridistribuzione non necessariamente progressiva che il 
              servizio sanitario nazionale ha comportato, invito il lettore a 
              immaginare uno scenario alternativo rispetto al passato prossimo 
              assistenzialista. Nell'analizzare il problema è bene tenere 
              distinti due aspetti diversi: il finanziamento del servizio, che 
              deve essere tale da garantire l'accesso anche ai meno abbienti, e 
              la sua fornitura, che deve essere quanto più efficiente possibile.
 
 Cominciando col finanziamento, teniamo presente che l'assistenza 
              sanitaria pubblica non è mai stata "gratis", costando come 
              qualsiasi altro servizio. Il costo del servizio sanitario pubblico 
              ha raggiunto negli anni un livello di spesa annua superiore ai 130 
              mila miliardi. Una cifra non disprezzabile: circa 2.300.000 lire a 
              testa per ogni italiano, ricco o povero, giovane o vecchio, 
              pensionato o disoccupato, ecc. Se si fosse ottenuto un 
              dimezzamento di tale spesa, bloccandola a un valore massimo di 65 
              mila miliardi, si sarebbero "restituiti" gli altri 65 mila 
              miliardi ai contribuenti: ogni cittadino italiano avrebbe ricevuto 
              così un assegno di 1.150.000 lire, libero di spenderle come meglio 
              credeva. Oppure, si sarebbe potuto usare quel risparmio per 
              realizzare - già da anni - una riforma fiscale che avrebbe fatto 
              apparire moderata quella attuata da Reagan: quella cifra è infatti 
              superiore al 20 per cento dell'intero gettito delle imposte 
              dirette. (Tante altre cose si potevano realizzare con 65 mila 
              miliardi: si poteva, per esempio, costruire ogni anno 325.000 
              alloggi da 200 milioni l'uno, ospitando così un'intera città di 
              oltre un milione di abitanti!).
 
 I restanti 65 mila miliardi di spesa sanitaria avrebbero potuto 
              essere devoluti al 20 per cento più povero della popolazione 
              italiana per garantire anche ai poveri l'accesso all'assistenza, 
              attraverso l'acquisto di un'assicurazione sanitaria privata che 
              avrebbe garantito la copertura di ogni tipo di spese mediche. La 
              cifra sarebbe stata, infatti, ampiamente adeguata, consentendo di 
              elargire ad ognuno degli 11.400.000 italiani "poveri" un assegno 
              di 5.700.000 lire, ben 22.800.000 lire per la famiglia media di 
              quattro persone. Con quella cifra i nostri "poveri" avrebbero 
              potuto dotarsi di assicurazioni sanitarie onnicomprensive, 
              adeguate a coprire qualsiasi spesa sanitaria e garantire quanto il 
              servizio sanitario nazionale si è guardato bene dall'offrire negli 
              ultimi decenni: un'assistenza medica di buon livello per tutti. Si 
              sarebbe potuto, poi, obbligare l'altro 80 per cento della 
              popolazione a stipulare un'assicurazione sanitaria con 
              caratteristiche di copertura fissate per legge, pagandola di tasca 
              propria (non dimentichiamo che tutti gli italiani riceverebbero, 
              in qualche forma, quella famosa restituzione di 1.150.000 lire a 
              testa, 4.600.000 lire per la famiglia media di quattro persone). 
              Un finanziamento di questo genere sarebbe convenuto a tutti: ai 
              poveri, che sarebbero stati dotati di una copertura assicurativa 
              adeguata tale da garantire loro libertà di scelta nel campo 
              dell'assistenza sanitaria; ai non poveri cui lo smantellamento del 
              servizio sanitario nazionale avrebbe consentito di "restituire" 
              reddito attraverso una autentica riforma fiscale e che sarebbero 
              stati liberati dalla necessità di pagare due volte l'assistenza 
              sanitaria.
 
 Quanto all'efficienza, è evidente che i problemi sanitari sono 
              stati per un lungo periodo la conseguenza del fatto che i 
              fornitori del servizio hanno operato in condizioni di 
              irresponsabilità senza essere sottoposti alle regole della 
              concorrenza e non rispettando il vincolo del bilancio. Se avessero 
              dovuto finanziarsi sul mercato, coprendo i costi con gli incassi 
              per le prestazioni fornite, avrebbero avuto un incentivo poderoso 
              ad essere efficienti, correndo il rischio di perdere clienti a 
              favore dei loro concorrenti. Disponendo, invece, di un 
              finanziamento "a piè di lista", non hanno di fatto avuto nessuna 
              ragione per migliorare la qualità delle loro prestazioni. 
              Immaginate cosa fosse accaduto se il reddito del salumaio fosse 
              stato fissato dallo Stato e se fossimo stati costretti ad 
              effettuare tutti i nostri acquisti esclusivamente da lui, senza 
              possibili alternative.
 Per ciò che riguarda la fornitura, quindi, sarebbe stato opportuno 
              privatizzarla del tutto e costringere gli operatori a rispettare 
              il vincolo del bilancio, finanziandosi esclusivamente con gli 
              incassi connessi alla fornitura del servizio. Se questo progetto 
              si fosse realizzato, tutti gli italiani avrebbero già goduto di 
              un'assistenza sanitaria davvero adeguata, cosa che oggi la nostra 
              spesa sanitaria non può fornire.
 
 In realtà, il vantaggio non riguarderebbe proprio tutti, ed è per 
              questa ragione che quel progetto è stato di difficile 
              realizzazione. In un sistema come quello delineato, l'offerta di 
              servizi sanitari diverrebbe competitiva; le istituzioni relative 
              (ospedali, cliniche, laboratori di analisi, ecc.) verrebbero 
              disciplinate dalla concorrenza e dovrebbero far quadrare i 
              bilanci. I medici e tutti gli operatori sanitari capaci 
              guadagnerebbero forse più di adesso, i pigri e gli incapaci 
              dovrebbero modificare le proprie abitudini o cambiare mestiere. 
              Non ci sarebbe più burocrazia sanitaria e gli attuali burocrati 
              dovrebbero trovare lavoro altrove; nè ci sarebbero più prebende 
              per i politici della sanità, che si vedrebbero costretti a farne a 
              meno. Le frodi si ridurrebbero drasticamente (le compagnie di 
              assicurazione avrebbero interesse a vigilare per impedirle) e 
              quanti per anni si sono "guadagnati da vivere" truffando l'erario 
              nel settore della sanità sarebbero stati costretti a darsi ad 
              attività socialmente meno dannose.
 
 Questo esercito di politicanti, burocrati inutili, operatori 
              sanitari pigri o incompetenti, e profittatori ha goduto di una 
              percezione corretta del proprio interesse: sapendo che la 
              trasformazione dell'assistenza sanitaria nel senso delineato, se 
              avrebbe giocato alla collettività, avrebbe comunque danneggiato il 
              loro interesse privato. Si trattava, del resto, di una lobby 
              potentissima, che difficilmente avrebbe reso possibile una seria 
              riforma del settore. In questa chiave risulta evidente che i 
              famosi 130 mila miliardi non erano affatto destinati 
              all'assistenza sanitaria della collettività, ma avevano invece 
              come scopo principale l' "assistenza" di politici e burocrati che 
              hanno vissuto a spese della sanità pubblica.
 
 Le pensioni
 
 Se è quindi ormai necessario e improrogabile che tutto 
              l'assistenzialismo italiano vada al più presto riformato, è 
              altrettanto vero che alcune riforme sono più urgenti di altre. E 
              la più urgente di queste riforme è senz'altro quella che ci viene 
              da anni inutilmente chiesta da tutti gli esperti del settore, 
              oltre che da organismi indipendenti, come il Fondo monetario, l'Ocse, 
              l'Ue, Bankitalia, ecc.: quella delle pensioni. Per quanto 
              riguarda, infatti, la sostenibilità del nostro sistema 
              pensionistico pubblico nella sua forma attuale - ferma restando 
              una fisiologica, anche se in verità assai contenuta, discordanza 
              di pareri - sembra ormai esserci un consenso assai diffuso: a meno 
              di dar vita a riforme radicali, quel sistema non è davvero più 
              sostenibile.
 
 In aggiunta alla dubbia sostenibilità del sistema sociale 
              assistenziale, va detto che, prescindendo dagli aspetti 
              ridistributivi (per molti fortunati, la sua "generosità" è stata 
              per anni un'autentica manna dal cielo), il sistema a ripartizione 
              non costituisce affatto un buon affare: se gli interessati 
              avessero potuto impiegare liberamente le somme che sono ancora 
              costretti a versare al sistema pensionistico pubblico, avrebbero 
              ottenuto tassi di rendimento marcatamente maggiori. Secondo alcune 
              stime, il rendimento dell'impiego in azioni ed obbligazioni 
              sarebbe in media superiore di circa due volte e mezzo a quello del 
              sistema pubblico a ripartizione. E non mancano stime che 
              suggeriscono una differenza ancora più marcata. Per esempio, fino 
              al 1983 negli Stati Uniti era possibile uscire dal sistema 
              pensionistico pubblico (Social Security) ed optare per un fondo 
              pensione privato. Uno studio relativo a circa un milione di 
              lavoratori che hanno esercitato quella opzione8 mostra come i 
              lavoratori che hanno optato per il sistema privato godono di 
              pensioni da tre a sette volte maggiori di quelle dei pensionati 
              della Social Security.
 
 Tutti questi dati non lasciano adito a dubbi: è innegabile che 
              l'impiego sul mercato del risparmio previdenziale è la via per 
              consentire di elargire pensioni molto più generose, a parità di 
              contributi, e di ridurre sensibilmente i contributi, a parità di 
              pensione. Per esempio, Jeremy Siegel della Wharton School10 ha 
              calcolato che fra il 1802 ed il 1992 l'investimento in Borsa negli 
              Stati Uniti ha fruttato un rendimento medio annuo reale (al netto 
              cioè dell'inflazione) del 7 per cento. E, com'è ovvio, questo 
              esclude gli anni più recenti, quando i rendimenti si sono rivelati 
              nettamente maggiori della media storica. A parità di benefici, 
              quindi, il costo del finanziamento verrebbe ad essere 
              sensibilmente minore: in base ad una ipotesi, la differenza 
              potrebbe rappresentare quasi i 2/3 dei contributi attuali. I 
              vantaggi del passaggio dal sistema pubblico a ripartizione ad uno 
              "privato" a capitalizzazione sarebbero enormi: aumenterebbe il 
              reddito disponibile, si ridurrebbero le aliquote marginali di 
              imposta, causa di notevoli effetti distorsivi, e diminuirebbe 
              l'imposta sull'occupazione responsabile principale dell'attuale 
              intollerabile tasso di disoccupazione. Infine, si potenzierebbe il 
              mercato finanziario con vantaggi notevoli per l'intera economia 
              nazionale. Secondo l'economista di Harvard Martin Feldstein, 
              "nessun paese sarebbe avvantaggiato più dell'Italia (dal passaggio 
              ad un sistema prevalentemente a capitalizzazione)".
 
 L'assistenzialismo indiretto
 
 Com'è noto una delle paure più diffuse in economia è quella 
              connessa all'occupazione, sia quella determinata dal timore di non 
              riuscire ad entrare nel mondo del lavoro sia quella relativa alla 
              stabilita dell'impiego. Questo induce a prendere in considerazione 
              in questo contesto l'intervento pubblico diretto in economia, 
              anche se non si tratta esplicitamente di un aspetto del "welfare 
              state". All'apparenza sembrerebbe, infatti, trattarsi di 
              assistenzialismo, di intervento cioè volto a ridurre incertezza e 
              paura, a vantaggio dei meno abbienti. Un'analisi spassionata del 
              fenomeno conduce però alle stesse conclusioni cui siamo pervenuti 
              in tema di sanità. L'intervento diretto dello Stato nell'economia 
              è stato, nel corso degli anni, variamente giustificato. La prima, 
              e più popolare, giustificazione, com'è noto, è stata quella 
              attinente alla necessità di "sostenere" l'occupazione, di "creare" 
              posti di lavoro. L'idea ispiratrice è stata che, in assenza di 
              intervento pubblico, il mercato avrebbe determinato livelli di 
              occupazione complessiva inaccettabilmente bassi.
 
 Tale tesi, molto diffusa in passato, si è rivelata 
              pericolosissima, proprio perché plausibile: è stato detto che le 
              ipotesi sono come le calunnie, sono tanto più pericolose quanto 
              più sono plausibili. Si tratta di un classico esempio della 
              differenza fra effetti visibili ed effetti invisibili delle 
              decisioni di politica economica. L'intervento pubblico "crea" 
              posti di lavoro per quanti sono assunti nell'impresa in questione; 
              questo è l'effetto visibile. Ma chiediamoci anche da dove sono 
              venuti i quattrini con cui sono stati finanziati i "lavori 
              socialmente utili", la creazione di imprese pubbliche o il 
              ripianamento delle perdite di imprese passive; com'è ovvio, dalle 
              tasche dei contribuenti. Questi hanno avuto, quindi, meno soldi da 
              spendere, e sono stati costretti a ridurre i propri consumi e 
              risparmi. Sia la riduzione dei consumi sia quella dei risparmi si 
              sono sostanzialmente tradotti in una diminuzione di fondi al 
              sistema produttivo, con conseguente riduzione di posti di lavoro: 
              questo è stato l'effetto invisibile.
 
 Il teorema corretto è, in realtà, il seguente: se l'intervento 
              pubblico può "creare" direttamente o indirettamente posti di 
              lavoro nel settore assistito (pubblico o privato), il suo costo ne 
              distrugge però nel settore privato (produttivo). Certo, 
              fortunatamente, anche nel piano teorico le opinioni 
              sull'intervento pubblico e l'occupazione si sono modificate negli 
              ultimi tempi, soprattutto per via della rapida crescita della 
              fiscalità. Il "cuneo salariale" cui si accennava prima - la penale 
              inflitta all'occupazione dagli oneri fiscali e contributivi 
              destinati a finanziare il welfare - ha messo in luce i meccanismi 
              attraverso i quali lo statalismo ha distrutto e continua a 
              distruggere posti di lavoro, chiudendo di fatto le porte del mondo 
              del lavoro ufficiale ai giovani che tentano di entrarvi.
 
 Purtroppo, il contrasto fra la visibilità dell'occupazione 
              "creata" dall'intervento pubblico e l'invisibilità 
              dell'occupazione da esso distrutta permane, e si traduce nel fatto 
              che pochi si rendono conto dei danni determinati dallo statalismo; 
              e ancora oggi, a sinistra, c'è che crede che esso crei 
              occupazione.
 Una seconda argomentazione a favore dell'intervento pubblico 
              diretto nell'economia è stata quella che, in Italia, si potesse 
              promuovere lo sviluppo del Mezzogiorno. Ma anche questa è oggi una 
              tesi alquanto desueta: dopo i risultati a dir poco deludenti (il 
              tasso di disoccupazione al Sud è quasi quadruplo rispetto a quello 
              del Centro-Nord), chi continua a sostenere l'opportunità 
              dell'intervento pubblico come terapia per lo sviluppo delle 
              regioni meridionali appare quasi provocatorio.
 
 Come meridionale, tuttavia, non posso tacere del danno enorme e 
              duraturo che lo statalismo ha prodotto per decenni all'economia 
              meridionale, distorcendo il sistema di incentivi e rendendo più 
              attraente per i nostri giovani la "sistemazione" nel settore 
              politico-parassitario a scapito di quello produttivo. Anche se di 
              difficile quantificazione, si tratta di un grave colpo inferto 
              alle potenzialità di sviluppo del Sud. Prendiamo, per esempio, i 
              cosiddetti "lavori socialmente utili" che hanno avuto origine nel 
              Mezzogiorno (in Sicilia sono stati creati da un articolo della 
              finanziaria regionale, i beneficiari vengono, pertanto, chiamati 
              "articolisti" e sono ancora un autentico esercito) e sono stati 
              poi esportati anche altrove. Il giovane che per anni ha percepito 
              un assegno, sia pure modesto, ha in realtà subìto un danno 
              permanente per una serie di ragioni. L'incentivo a cercarsi 
              un'occupazione produttiva è stato pesantemente ridotto: se, 
              infatti, trovava un lavoro perdeva l'assegno per il "lavoro 
              socialmente utile", ed è dubbio che, al netto di quello che 
              avrebbe perduto, il compenso per il primo lavoro giustificasse la 
              fatica di cercarlo.
 
 In secondo luogo, l'interessato veniva convinto dalla 
              corresponsione dell'assegno che la sua occupazione era un problema 
              per lo Stato, per i politici, non certo per lui. E ancora, mentre 
              percepiva l'assegno, molto spesso svolgeva un altro lavoro, in 
              nero, guadagnando grazie alle due entrate più di quanto avrebbe 
              guadagnato con un lavoro ufficiale. Infine, ma si potrebbe 
              continuare a lungo, avendo percepito soldi dallo Stato per anni, 
              finiva col convincersi di avere semplicemente usufruito di un suo 
              diritto, di modo che finiva per pretendere (e non è detto che non 
              lo ottenesse) un "posto" stabile nell'amministrazione pubblica. 
              Aggiungendo danno al danno, il costo di questa devastante 
              operazione demagogica ha gravato pesantemente sui datori e sui 
              lavoratori del resto dell'economia, riducendo l'occupazione 
              produttiva. La morale è assai semplice: occupazione non significa 
              - come non poteva significare - percepire un reddito, significa 
              produrre un reddito. Perché l'occupazione possa essere stabile 
              deve essere produttiva. Se, col pretesto di creare occupazione, 
              destiniamo risorse a scopi improduttivi, impoveriamo il Paese, 
              sciupando risorse scarse che potrebbero essere utilizzate 
              proficuamente in altro modo. Non è un caso che dove l'intervento 
              pubblico diretto a creare occupazione è stato più largamente 
              usato, il Mezzogiorno, la disoccupazione è stata maggiore e lo 
              sviluppo economico è stato strutturalmente impedito.
 
 Se, invece, di perseguitare ferocemente l'occupazione tassandola 
              in misura che non ha eguali nel mondo industriale, lo Stato avesse 
              consentito ai datori di assumere senza penali di sorta; se, invece 
              di soffocare sotto una montagna di adempimenti amministrativi le 
              iniziative imprenditoriali, le si fosse incoraggiate; se, ogni 
              qual volta si doveva dar vita ad un insediamento industriale si 
              fosse rinunziato a mettergli i bastoni fra le ruote in mille modi; 
              se, invece di punire il successo, tassandolo, e premiare i 
              fallimenti con le mille forme di "aiuti", si fosse consentito alle 
              imprese di operare in condizioni di piena responsabilità; se si 
              fossero fatte tutte queste cose, l'economia italiana avrebbe da 
              tempo creato in un batter d'occhio molte centinaia di migliaia di 
              nuovi posti di lavoro.
 Tornando al filo principale del nostro discorso, vengo quindi a 
              quella che ritengo la spiegazione vera della esistenza di un toppo 
              largo settore pubblico in Italia. Anzitutto, una riflessione 
              ovvia: quello che conta veramente da un punto di vista economico 
              non è la titolarità dell'impresa, se pubblica o privata, ma la sua 
              gestione, se economica o anti-economica. Ora, se si volesse la 
              gestione economica di una data impresa, questa potrebbe benissimo 
              essere privata; se si vuole che sia pubblica, in altri termini, è 
              perché non si vuole che venga gestita economicamente.
 
              È questo il fondamentale punto di partenza di qualsiasi analisi 
              seria delle motivazioni dell’intervento pubblico: si è voluta la 
              titolarità pubblica perché non si voleva la gestione economica. E 
              la ragione va ricercata nel fatto che la gestione anti-economica 
              dell’impresa significava che i fattori produttivi in essa 
              impiegati percepivano remunerazioni superiori al valore della 
              produzione complessiva. Come sostenuto da Leonard Read, quando uno 
              riceve un reddito che non produce, qualcun altro produce un 
              reddito che non riceve e non riceverà mai. La “pubblicità” 
              dell’impresa, in altri termini, è stato semplicemente un 
              espediente per ridistribuire reddito a favore dei fattori 
              produttivi ivi “occupati “. 
              I vantaggi che ognuno dei dipendenti dell’impresa pubblica passiva 
              ricavava dalla situazione sono stati notevoli, immediati e a lui 
              ben noti. I costi che tale situazione comportava per la 
              collettività sono stati, invece, scarsamente compresi e di lungo 
              respiro. Pertanto, nel contrasto fra l’interesse generale della 
              collettività e quello particolare dei pochi beneficiari, in Italia 
              per troppo tempo è stato quest’ultimo a prevalere. È stato per 
              questa ragione fondamentale, e non per le varie giustificazioni di 
              volta in volta addotte, che l’intervento pubblico si è diffuso, 
              che le imprese in esso operanti sono state inefficienti e che la 
              privatizzazione è stata così difficile da realizzare. 
              Vediamo di chiarire. Prendiamo come esempio un’impresa pubblica 
              che ha occupato 10.000 persone e realizzato perdite per, diciamo, 
              57 miliardi all’anno, perdite che sono state “ripianate” con una 
              sovvenzione pubblica. In una situazione del genere, ognuno dei 
              10.000 dipendenti ha ricevuto in media 5.700.000 lire all’anno di 
              reddito in più rispetto a quello che produceva. Se il costo di 
              tale operazione di “ripianamento” è stato distribuito “a pioggia” 
              sull’intera collettività nazionale, ognuno dei 57 milioni di 
              Italiani ha finito per sopportare un costo annuo di sole 1.000 
              lire. Ecco la prima asimmetria: ognuno dei dipendenti della 
              impresa pubblica passiva ha avuto molto da guadagnare da una 
              situazione simile (5.700.000 lire), mentre ognuno di coloro su cui 
              è gravato il costo ha, in realtà, sopportato una perdita 
              relativamente piccola (1.000 lire).
              
               
              In secondo luogo, mentre è assai probabile che ognuno dei 10.000 
              beneficiari ha saputo esattamente quanto gli rendeva l’esistenza 
              della impresa pubblica, è perlomeno dubbio che lo sapessero tutti 
              i 57 milioni di italiani. In conseguenza di ciò, mentre coloro che 
              hanno finito per trarre vantaggio da questa situazione si sono 
              battuti fino allo stremo perché non venisse modificata, i 
              danneggiati non hanno fatto molto per cambiare le cose, sia perché 
              ognuno di essi sopportava una perdita modesta, sia perché è assai 
              probabile che nessuno sapesse come stavano le cose. Qualsiasi 
              riferimento a noti impianti siderurgici non è casuale.Inutile aggiungere che questo tipo di situazione è stata 
              certamente conveniente per la classe politica, sia perché ne ha 
              accresciuto enormemente il potere, sia perché ne ha amplificato 
              l’immagine. Pensate alla enorme influenza che per anni ha 
              conferito ai politici la gestione di interessi colossali come 
              quelli del settore pubblico: la possibilità di favorire amici, 
              parenti e sostenitori con lucrose quanto poco impegnative 
              “sistemazioni”, per non parlare della inevitabile, sistematica 
              collusione fra interessi privati e pubblici. Ma, anche quando il 
              politico era certamente onesto sotto il profilo materiale e 
              personale, l’intervento pubblico gli offriva ugualmente qualcosa 
              di importante: l’immagine, la possibilità di dare l’impressione di 
              essere impegnato seriamente al perseguimento del bene comune, la 
              visibilità, che per il politico costituisse condizione essenziale 
              di sopravvivenza. Come diceva Napoleone, la causa vera della 
              rivoluzione francese fu la vanità, la libertà ne fu solo il 
              pretesto.
 
              Allo stato attuale, la correzione di rotta, se le considerazioni 
              sin qui esposte sono vere, non poteva, non può, essere cercata, 
              come sosteneva la sinistra, in un management più efficiente: il 
              problema non è la qualità della gestione, ma l’assenza di corretti 
              incentivi. L’inefficienza dei paesi comunisti non era dovuta ad 
              incapacità di gestione: anche se l’Urss avesse avuto a 
              disposizione manager capaci, sarebbe stata ugualmente 
              spaventosamente inefficiente. 
              Sembra un paradosso, ma è un’ovvietà; un’economia di mercato 
              concorrenziale si basa infatti su un “meccanismo di filtro”: la 
              concorrenza spazza via le imprese inefficienti e lascia crescere 
              quelle più competitive. Le aziende gestite da manager incapaci non 
              sopravvivono, quelle guidate da gestori di successo prosperano. 
              Ancora più importante è il fatto che nel libero mercato a decidere 
              se un manager sia bravo o meno non è un organismo politico o 
              amministrativo (che non solo manca di criteri obiettivi di 
              valutazione, ma è anche sempre corruttibile), ma un meccanismo 
              impersonale come il mercato. Sono i clienti delle imprese ad 
              attribuire i “voti” nella pagella dei manager: acquistando o 
              rifiutandosi di acquistare il prodotto in questione determinano il 
              successo o il fallimento dell’impresa, la “promozione” o la 
              “bocciatura” del suo manager. 
              I manager incapaci, quindi, in un’economia libera vengono 
              costretti a cambiare mestiere. Possono continuare ad esistere solo 
              quando manca o viene reso inefficace il criterio di valutazione 
              del loro operato, cioè quando manca il mercato. L’esistenza di 
              manager capaci, quindi, è conseguenza del libero mercato e della 
              proprietà privata, che determinano anche l’efficienza complessiva 
              dell’economia. Il problema dell’efficienza, quindi, è un problema 
              di libertà: un’economia libera è anche efficiente, un’economia che 
              non è libera non può nemmeno essere efficiente11. Alla luce di 
              queste considerazioni, e dell’esperienza fallimentare del settore 
              pubblico, ci si rende conto della straordinaria validità 
              dell’affermazione fatta dalla signora Thatcher nel 1979, a 
              proposito di un Paese che si trovava allora in condizioni assai 
              simili a quelle dell’Italia di vent’anni dopo: «In Inghilterra 
              esistono due settori: il settore privato, che è controllato dallo 
              Stato, e quello pubblico, che non è controllato da nessuno». 
              Per quanto riguarda il nostro tema, l’aspetto da sottolineare è 
              che l’intervento pubblico in economia ha sempre rappresentato uno 
              strumento di ridistribuzione di reddito del tutto simile nella 
              sostanza, anche se non nelle motivazioni “ufficiali”, ai programmi 
              dello Stato assistenziale. Come questi ultimi, il suo vero scopo è 
              sempre stato il trasferimento di risorse dal settore produttivo 
              privato a quello politico-burocratico. Solo il futuro dirà se 
              prevarranno gli interessi della collettività alla gestione 
              razionale delle risorse o quelli dei gruppi di pressione volti al 
              mantenimento dello status quo.Conclusione
 
 La parabola storica dell’assistenzialismo di Stato non ci ha 
              comunque liberato dalla paura. Questo “fratello maggiore” che 
              avrebbe dovuto curarci se ammalati, provvedere alla nostra 
              vecchiaia, alleviare la nostra povertà, garantirci un’istruzione 
              qualificata, assicurarci un impiego, ha insomma miseramente 
              fallito i suoi obiettivi. Il timore di una vecchiaia priva di 
              mezzi non è stato esorcizzato dal sistema pensionistico pubblico: 
              anche se si prescinde dall’esiguità delle pensioni di Stato e dai 
              gravi dubbi sull’equità di un sistema in cui è spezzata la 
              relazione fra contributi pagati e pensione cui si ha diritto, 
              resta il fatto che il sistema pensionistico pubblico, basato sulla 
              ripartizione, versa in condizioni di assai dubbia solvibilità 
              attuariale. Il sistema a ripartizione (in inglese: pay as you go), 
              infatti, copre il costo della pensioni corrisposte con i 
              contributi pagati dai lavoratori attuali. Date le tendenze 
              demografiche in corso, il numero dei potenziali beneficiari va 
              aumentando, mentre si riduce quello di coloro su cui grava il 
              costo del sistema pensionistico. Nasce così la non infondata paura 
              che, quando sarà il momento, la pensione di Stato su cui avevamo 
              fatto affidamento non ci consentirà nemmeno il tenore di vita, 
              anche basso, che ci attendevamo. Se a questo si aggiunge che le 
              imposte che siamo costretti a pagare per coprire le spese dello 
              Stato assistenziale riducono la possibilità di provvedere col 
              nostro risparmio ad assicurarci una comoda vecchiaia, si 
              comprenderà come non sia infondata la tesi secondo cui 
              l’assistenzialismo di Stato ha accresciuto, non ridotto, la paura 
              della vecchiaia.
 
              Allo stesso modo, la paura delle malattie non è stata ridotta dal 
              servizio sanitario nazionale: il crescente ricorso ad 
              assicurazioni sanitarie private e l’elevata percentuale degli 
              aventi diritto a cure pubbliche “gratuite” che si rivolgono a cure 
              private a pagamento costituiscono prova irrefutabile del 
              fallimento dell’assistenzialismo di Stato in campo sanitario. Alla 
              normale paura delle malattie si è aggiunta quella di rischiare di 
              finire in strutture sanitarie pubbliche, di cui le cronache hanno 
              fornito per anni illustrazioni terrificanti. La paura della 
              povertà non è stata ridotta: l’assistenzialismo pubblico non ha 
              eliminato la povertà anche se ha una quantità tale di risorse che 
              avrebbe effettivamente potuto realizzare quell’obiettivo 
              leggendario. In base alla definizione ufficiale di “povertà”, 
              negli ultimi anni il numero di poveri è aumentato, non diminuito. 
              La disoccupazione non ha smesso di costituire causa di paura solo 
              perché l’assistenzialismo alle aziende, l’intervento diretto dello 
              Stato in economia, si proponevava il nobile obiettivo di “tutelare 
              i livelli di occupazione”. Secondo i dati ufficiali, la 
              disoccupazione ha, anzi, raggiunto nell’ultimo decennio livelli 
              assai elevati, e la paura ad essa connessa è semmai stata 
              accresciuta dalla sistematica distruzione di opportunità di 
              impiego dovuta allo statalismo ed all’iperfiscalità. 
              In sostanza, se lo Stato assistenziale non ha ridotto le cause di 
              paura, ha in compenso accresciuto enormemente l’incertezza circa 
              il futuro. Se lo scopo reale dell’assistenzialismo di Stato fosse 
              stato quello di ridurre la paura, l’obiettivo non solo è stato 
              mancato, ma si è addirittura ottenuto il risultato opposto. Oggi 
              l’Italia ha l’obbligo e il mandato popolare per invertire la 
              rotta, per riprendere la via dello sviluppo, che avevamo 
              abbandonato e che costituisce l’unica speranza di risolvere i 
              nostri problemi. L’ultimo decennio è stato di gran lunga il 
              peggiore nella storia della Repubblica: dal 1951 al 1960, il 
              reddito reale è aumentato del 66,5 per cento; dal 1961 al 1970, 
              del 53 per cento; dal 1971 al 1980, del 45,75 per cento; dal 1981 
              al 1990, del 29,7 per cento; dal 1991 al 2000, soltanto del 12,5 
              per cento. Gli anni Novanta ci hanno fatto diventare un paese in 
              via di sottosviluppo. 
              Per ricominciare a crescere oggi abbiamo l’obbligo di 
              ridimensionare drasticamente e subito l’invadenza pubblica 
              anzitutto riducendo sia la spesa pubblica sia il prelievo 
              tributario. Uno studio12 basato su dati relativi a 23 paesi membri 
              dell’Ocse e 60 paesi sottosviluppati ha dimostrato, al di là di 
              ogni ragionevole dubbio, questa elementare verità. Le conclusioni, 
              per quanto ci riguarda, possono così essere sintetizzate:a) la spesa pubblica per le funzioni fondamentali (core functions) 
              dello Stato stimola la crescita economica, l’aumento della spesa 
              oltre quel livello finisce per rallentare lo sviluppo;
 b) una spesa pubblica dell’ordine del 30 per cento del Pil (come 
              in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta) è compatibile con tassi 
              di sviluppo annui pari o superiori al 5 per cento, una spesa pari 
              al 45 per cento del Pil o più riduce la crescita a tassi pari o 
              inferiori al 2 per cento (l’esperienza italiana è conforme).
 
              Ricondurre spesa pubblica e fiscalità al loro livello fisiologico 
              richiede coraggiose riforme dell’assistenzialismo italiano – su 
              più fronti: previdenza, sanità, scuola, università, l’intero 
              sistema di trasferimenti – attribuendo un ruolo crescente alla 
              fornitura privata di questi servizi in concorrenza con quella 
              pubblica, in modo da renderla anzitutto più efficiente, e 
              consentendo inoltre una sempre maggiore libertà degli interessati 
              di scegliere fra fornitori alternativi.
              
               
              Per troppi anni lo Stato assistenziale ci ha imposto la difesa 
              degli interessi dei fornitori dei servizi (burocrati, politici, 
              sindacalisti, insegnanti, personale sanitario, ecc.) anziché di 
              quelli dei destinatari (pensionati, pazienti, studenti, ecc.). Il 
              costo elevato ed i risultati deludenti nascevano, del resto, 
              proprio da questo: con un sistema monopolistico in cui i fornitori 
              dei servizi sono stati protetti dalla concorrenza e hanno usato 
              l’apparato a loro vantaggio, i destinatari non hanno avuto alcuna 
              voce in capitolo. Adesso, con i risultati elettorali del 13 maggio 
              e il programma della Casa delle libertà, è arrivato il momento per 
              ribaltare la situazione, separare la fornitura (che deve essere 
              effettuata in concorrenza fra vari soggetti) dall’accesso (che 
              deve essere garantito dallo Stato a quanti non se lo possono 
              permettere), e restituire libertà di scelta agli interessati. 
              Questo è possibile, attraverso il sistema dei “buoni” 
              (buono-scuola, buono-sanità, ecc.). Solo così riusciremo a 
              contemperare le esigenze di solidarietà vera con quelle 
              dell’efficienza, in quadro di libertà e concorrenza. 
              La strada è chiara: dobbiamo passare dalla falsa solidarietà 
              dell’assistenzialismo, col suo patrimonio di ristagno, 
              disoccupazione e incertezza, per non parlare degli sprechi e della 
              corruzione che per troppi anni hanno penalizzato l’Italia, alle 
              concrete opportunità che solo lo sviluppo può darci. La vera 
              solidarietà è quella offerta da un paese che ci affranca dalla 
              dipendenza dalla carità pelosa della politica, ci consente di 
              provvedere da noi stessi ai nostri bisogni, rende facile trovare 
              un’occupazione attraente, produrre un reddito adeguato ai nostri 
              bisogni, e soprattutto ci lascia liberi di scegliere come 
              utilizzare la massima parte del nostro reddito, destinandolo alle 
              alternative da noi preferite.
 24 maggio 2002
 (da 
              Ideazione 2-2002, marzo-aprile) |