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              Energia e potere mondialedi Giuseppe Sacco
 
 Pubblichiamo l’intervento di Giuseppe Sacco 
              al convegno organizzato dalla Fondazione Ideazione in occasione 
              della presentazione del libro “La politica energetica nel novo 
              contesto internazionale”.
 
 L’evoluzione della situazione internazionale, nei sei mesi 
              trascorsi da quando, a Gubbio, ebbi l’occasione di fare il punto 
              sui nuovi termini della questione energetica mondiale all’indomani 
              del colpo inferto agli Stati Uniti, e venti giorni dopo l’inizio 
              della guerra afgana che a tale attacco aveva fatto seguito, non è 
              stata nel senso di maggiore stabilità e di maggiori certezze. Al 
              contrario, la crisi dell’autunno-inverno 2001-02 si è rivelata una 
              vera manna per gli estremisti di ogni bordo, tanto che molti altri 
              paesi – l’ultimo in ordine di tempo l’India, che lo sta facendo 
              mentre parliamo – hanno tentato – come dicono gli Americani – “of 
              hitchiking the terror car”, di ottenere un passaggio sul treno del 
              terrore, cioè di internazionalizzare conflitti locali attribuendo 
              ai loro avversari l’etichetta di “terroristi islamici”, e di 
              offrirsi all’America per svolgere in tali nuovi conflitti il ruolo 
              tenuto dall’Alleanza del Nord nella guerra afgana. Di fatto, hanno 
              cercato di farsi spalleggiare dagli Usa in guerre volte a ottenere 
              obiettivi che con i problemi generali dell’ordine mondiale non 
              hanno niente a che fare. Si è fatto così più grave il riscjio di 
              un confronto tra Occidente ed Islam, per evitare il quale la 
              diplomazia di Colin Powell aveva egregiamente lavorato prima e 
              dopo l’attacco all’Afghanistan. E con esso anche il rischio di una 
              confronto tra paesi esportatori ed importatori di energia, per 
              evitare il quale l’Opec, dopo l’11 Settembre, aveva imposto grande 
              lentezza e cautela alle proprie reazioni alle oscillazioni del 
              mercato del petrolio.
 
 Nessun continente appare purtroppo estraneo a questo confronto, 
              che da molte parti ha pericolosamente evocato l’idea dello 
              “scontro di civiltà”. L’Europa con i suoi milioni di immigrati 
              islamici, la Russia con la sua irrisolta questione di frontiera 
              con il mondo turco ed iranico, la Cina travagliata dal problema 
              del separatismo del Sinkiang e dall’eterno attrito tra 
              l’espansionismo dei Cinesi d’oltremare e dei Malesi islamici in 
              Asia sud-orientale, l’India ancora alle prese con il Pakistan e 
              con la propria incapacità di accettarne l’esistenza, cioè con 
              l’irrisolta eredità della propria genesi al termine del dominio 
              britannico, l’Africa dove il dinamismo e l’attrazione dell’Islam 
              si scontrano con le tradizioni animiste e la più lenta e difficile 
              penetrazione cristiana: tutte le parti del mondo hanno questioni 
              aperte con il miliardo e passa di seguaci della predicazione di 
              Maometto. Persino l’Australia, a parte il problema degli 
              immigrati, avverte la vicinanza dell’Indonesia, paese islamico ed 
              in forte espansione demografica, e teme la minaccia che tale 
              vicinanza fa pesare sui suoi spopolati territori dell’Ovest. E 
              persino in Sud-America le conseguenze politiche ed economiche, 
              oltre a quelle geopolitiche – come è di moda dire oggi tra coloro 
              che non conoscono il significato di questa parola –, dei conflitti 
              del Medio Oriente e dell’Asia Centrale fanno sentire i loro 
              effetti. In tutto il mondo, infatti, si avvertono le ripercussioni 
              della tendenza dell’Amministrazione Bush-Cheney ad eliminare – o 
              almeno di ridurre fortemente – la dipendenza degli Stati Uniti dal 
              petrolio arabo.
 
 Questo tentativo di rivoluzionare i mercati mondiali della più 
              importante materia prima, deriva dalla non facile situazione 
              politica interna in cui sembra trovarsi il governo del principale 
              produttore mondiale, l’Arabia Saudita. In un primo tempo, dopo 
              l’11 settembre, Riad è parsa presa tra due fuochi, e costretta a 
              destreggiarsi un po’ troppo tra l’alleanza con l’America e le 
              simpatie islamiste di gran parte della sua opinione pubblica, 
              sottolineate dal fatto che ben 15 su 19 dei terroristi dell’11 
              settembre erano suoi sudditi. Successivamente, però, prendendo al 
              balzo l’occasione offerta dall’aggravarsi della tragedia 
              palestinese, il Regno wahabita ha tentato di alleggerire la 
              propria situazione internazionale con un’audace iniziativa 
              diplomatica, il cosiddetto “piano di pace saudita”. Facendosi 
              garante delle forniture petrolifere dell’Occidente esso ha in un 
              certo senso fatto valere l’arma del petrolio, anche se per 
              rafforzare i propri rapporti con Washington, ed in maniera 
              decisamente contraria a come hanno proposto di usarla Iraq e Iran, 
              che spingono invece a favore del boicottaggio degli USA. E la 
              forza che quest’arma mantiene si è ben vista all’incontro tra Bush 
              e il Principe ereditario Abdullah alla fine dell’aprile 2002, dove 
              di fatto l’America si è dovuta piegare, e ha dovuto rinunciare ad 
              una azione immediata contro l’Irak. Ridurre il potere che il 
              mercato del petrolio attribuisce all’asse Arabia Saudita-Kuwait, 
              sarebbe quindi assai utile, in termini di potere mondiale, per 
              Washington. Ma ciò implica due mosse, in entrambe delle quali 
              l’America Latina è pienamente coinvolta: la sostituzione di almeno 
              una parte del petrolio proveniente dalla penisola arabica con 
              idrocarburi importati dai paesi del continente americano, e la 
              rottura del potere dell’Opec sui prezzi mondiali dell’energia.
 
 Autarchia continentale?
 Va notato immediatamente, relativamente alla prima di queste due 
              mosse, che uno sviluppo dell’import americano dal Canada e 
              dall’America Latina costituisce un obiettivo fin troppo ambizioso. 
              Nel 2001, gli Stati Uniti hanno già acquistato dal continente 
              americano quasi metà (42%) di tutte le loro importazioni di 
              idrocarburi. Di questo, circa il 15% proviene dal Canada, e non 
              sembra certo facile accrescere ancora questa quota, a meno di non 
              sfruttare, attraverso un processo costoso e altamente inquinante, 
              i vasti giacimenti canadesi di sabbia impregnata di bitume. Un 
              altro 27% del petrolio bruciato dagli Americani proviene da 
              Messico, Venezuela e Colombia. Ed è la produzione e l’export di 
              questi paesi che gli Stati Uniti avrebbero oggi bisogno di 
              accrescere, per eliminare o ridurre in maniera significativa quel 
              13% delle loro importazioni di petrolio provenienti dall’Arabia 
              Saudita. Da qualche tempo, il Messico è il paese cui guardano non 
              solo gli importatori, ma anche le majors della produzione 
              petrolifera. Ed il loro interesse è diventato assai concreto da 
              quando il Messico ha rotto con una tradizione che ha fatto della 
              società di Stato PeMex il monopolista del petrolio, e ha reso 
              legalmente possibile l’esplorazione e la ricerca di metano da 
              parte dei privati, in questo paese un tempo caratterizzato da un 
              forte nazionalismo economico.
 
 Non va infatti dimenticato, e gli Americani lo hanno ricordato a 
              lungo, che nel 1938 il Messico compì un vero e proprio atto 
              rivoluzionario con l’espropriazione delle compagnie americane del 
              petrolio, ed osò reagire al blocco degli acquisti americani 
              addirittura caricando nei propri porti petroliere che battevano la 
              croce uncinata. Da allora il modello messicano di sviluppo è stato 
              a lungo un modello chiuso e fondato sulla proprietà pubblica del 
              settore energetico . Tale nazionalismo, tuttavia, si è ancora 
              manifestato di recente con un voto del Senato che ha bloccato 
              l’apertura ai privati della produzione di elettricità. Anche oggi, 
              nonostante questa rivoluzionaria liberalizzazione, una politica 
              che voglia aumentare il flusso tra Messico ed USA deve tenere 
              conto del fatto che il Messico esporta già l’86% della propria 
              produzione petrolifera verso gli Stati Uniti.
 
 Per di più, l’unica regione del Messico in cui sembra esistere un 
              forte potenziale– ed in cui le compagnie straniere dovrebbero 
              concentrarsi – è lo Stato del Chiapas, che (risorse sottomarine a 
              parte) è già il secondo produttore all’interno della Federazione 
              messicana. Ma si tratta di un territorio dove negli ultimi otto 
              anni la ribellione del cosiddetto “esercito zapatista”, guidato 
              dal famoso subcomandante Marcos, ha reso praticamente impossibile 
              anche l’attività di esplorazione. Tutta l’area di giungla che 
              copre il sud-est del Chapas e la contigua regione del Petén in 
              Guatemala, dove pure ci sono importanti risorse petrolifere, è da 
              sempre mal controllata dai rispettivi governi. E’ vero che con 
              l’elezione del Presidente Fox è stato avviato un negoziato con 
              Marcos e gli zapatisti. Ma contemporaneamente è stata posta in 
              atto una collaborazione con gli Stati Uniti per formare i corpi 
              speciali dell’esercito messicano, nella previsione che, per 
              sfruttare le rimanenti risorse energetiche del paese, sarà 
              necessario riconquistare militarmente una parte del territorio 
              nazionale. Ed in ciò la condizione del sud del Messico comincia a 
              presentare aspetti che ricordano – fortunatamente, per ora assai 
              da lontano – la tragica situazione colombiana.
 
 Quest’ultimo paese, la Colombia, terzo esportatore 
              latino-americano di petrolio verso gli USA, sembra andare in 
              direzione nettamente contraria ai desideri di Washington in 
              materia di petrolio. Gli inconcludenti negoziati, all’inizio del 
              2002, tra il governo del Presidente Pastrana e la guerriglia sono 
              degenerati in scontri ancora più aperti, nell’ingresso di reparti 
              dell’esercito nella cosiddetta “zona smilitarizzata”, nonché in 
              una serie di rapimenti ed assassini, anche clamorosi, che hanno 
              riproposto in maniera drammatica il problema della violenza che 
              caratterizza il paese fin dal 1948. Gli ultimi sviluppi offrono il 
              quadro di una situazione assai allarmante, e che corrisponde molto 
              da vicino al concetto di “Stato fallito”. La Colombia appare come 
              una specie di Somalia latino-americana, in cui sono attivi vari 
              movimenti di guerriglia, ideologicamente sia di sinistra che di 
              destra. Il principale è il FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias 
              Colombianas), con circa 17.000 uomini in armi, nato negli anni 60 
              dall’unione di diversi movimenti contadini che chiedevano la 
              riforma agraria e la fine delle politiche liberiste. Ma 
              importantissimo è anche il ruolo delle Autodefensas Unidas de 
              Colombia (AUC) guidate da un cittadino italiano, Salvatore 
              Mancuso, esponente degli allevatori di bestiame che il governo non 
              riesce a proteggere dalla guerriglia, e che mettono in campo una 
              forza para militare comparabile a quella del FARC. Tutti i 
              movimenti sono fortemente nazionalisti, ed esplicitamente contrari 
              all’export di energia. Oggetto di continui attentati sono perciò 
              non solo i pozzi, ma soprattutto gli oleodotti. Una di queste 
              pipelines, quella di Cano Limon, ha subito, nel solo 2001, 130 
              atti di sabotaggio.
 
 Il risultato è stato, tra il 1999 e il 2001, una netta diminuzione 
              dell’export di petrolio, il che autorizza a previsioni 
              pessimistiche. E siccome le informazioni su quanto le compagnie 
              siano riuscite ad investire in esplorazione ed in nuovi pozzi sono 
              riservate ed abbastanza contraddittorie, il futuro del settore 
              appare molto incerto. È un fatto però che da anni in Colombia le 
              compagnie petrolifere operano in condizioni pressoché impossibili, 
              al punto che le stesse perforazioni non sono fatte secondo i 
              criteri che sarebbero dettati dalla geologia e dalla tecnica, ma 
              avvengono secondo inclinazioni che consentono di raggruppare le 
              bocche di molti pozzi in un’unica località che viene fortificata e 
              difesa da reparti dell’esercito colombiano, finanziati ed 
              equipaggiati dalle compagnie petrolifere . Secondo alcuni calcoli, 
              la situazione sarebbe così grave che l’export potrebbe cessare del 
              tutto nei prossimi anni, ed addirittura che la Colombia potrebbe 
              diventare importatore di petrolio già nel 2004. È evidente che non 
              si potrà far conto sulle riserve colombiane, se non a lungo 
              termine, e a patto di impegnare truppe americane per il controllo 
              del territorio. Uno spiegamento di forze americane in Colombia 
              comparabile, ma assai più ampio, di quello già in atto nelle 
              Filippine diventa perciò assai probabile, e tra qualche anno, se 
              effettivamente gli USA saranno riusciti a stabilire il controllo 
              del territorio, la Colombia potrà sfruttare appieno il suo grande 
              potenziale petrolifero, e dare il proprio contributo a ridurre la 
              dipendenza USA dalle risorse del Medio Oriente.
 
 Il Venezuela – secondo esportatore latino-americano di petrolio 
              verso gli USA, e quarto esportatore mondiale – non ha problemi 
              comparabili a quelli della Colombia, La sua collaborazione risulta 
              comunque indispensabile per la strategia post-11 settembre di 
              riduzione della dipendenza energetica dell’America dall’OPEC e dai 
              paesi arabi. Questo attore cruciale della partita petrolifera ha 
              però, problemi di ordine politico, internazionale ed interno, come 
              si è visto con gli eventi di metà aprile 2002, quando un golpe ha 
              brevemente allontanato dal potere suo primo Presidente di sangue 
              indio, Hugo Chavez, che aveva abbandonando il sistematico non 
              rispetto venezuelano dei limiti di produzione fissati dall’OPEC, e 
              fatto del Venezuela il paese leader della strategia del cartello 
              petrolifero destinata – coinvolgendo anche la Russia dal lato dei 
              paesi esportatori – a tenere alto il prezzo degli idrocarburi. Il 
              trionfale ritorno al potere del presidente Chavez – anche se ha 
              portato alla guida della PDVSA, la società petrolifera dello Stato 
              venezuelano, un vero esperto accettato da tutti, ed ha consentito 
              la ripresa a pieno ritmo delle esportazioni verso gli Stati Uniti 
              – costituisce un indubbio punto a sfavore della strategia di 
              autarchia energetica continentale dell’Amministrazione Bush.
 
 Questa vicenda ci ha toccato più da vicino di quanto non accada di 
              solito per questioni sudamericane, in quanto ha mostrato ancora 
              una volta la grave disfunzionalità della politica energetica 
              europea, quando la Spagna – più sensibile alle proprie nostalgie 
              imperiali che alle sue gravi responsabilità comunitarie – si era 
              affrettata, senza né consultare, né nulla comunicare ai partners 
              della UE, ad inviare segnali di amicizia al regime golpista. Per 
              di più, lo stesso Aznar si è dimostrato incapace di correggere 
              questo errore. Anzi, nell’incassare, trentacinque giorni dopo il 
              fallito golpe, l’umiliazione di dover accogliere trionfalmente 
              Chavez el indio a Madrid, al vertice tra Unione Europea ed America 
              Latina, ha mancato anche dell’accortezza politica di accennare al 
              fatto che il progetto americano di realizzare una sorta di 
              autarchia petrolifera del continente americano non può in nessun 
              modo interessare l’Europa.
 
 Spezzare le reni all’Opec?
 Per quel che riguarda, invece, la seconda mossa della strategia 
              energetica di Washington – la rottura del potere politico 
              dell’Opec – la partita che unisce petrolio e potere mondiale si 
              gioca tra molti attori, che possono essere raggruppati per 
              semplicità in tre gruppi. In primo luogo l’Opec, poi l’insieme dei 
              paesi formato dalla Russia e dagli Stati ex-sovietici dell’Asia 
              centrale (attorno alle cui risorse ruota l’intero progetto di 
              ridurre il ruolo saudita) che ancora oggi dipendono, per le loro 
              esportazioni, dagli oleodotti sotto controllo di Mosca . Ed infine 
              gli altri produttori che non fanno parte del cartello, tra cui i 
              più importanti sono la Norvegia ed il Messico. Le ragioni della 
              forte influenza dei non-membri sul funzionamento dell’Opec sono 
              evidenti. L’Opec esportava, all’indomani dell’11 settembre, solo 
              una quota relativamente piccola dell’offerta mondiale. Dopo i 
              tagli di 3,5 milioni di barili al giorno effettuati nel corso del 
              2001 al fine di sostenere il prezzo spinto al ribasso dalla crisi 
              economica, più un altro milione e mezzo di barili tolti dalla 
              produzione a fine anno, i paesi membri del cartello nella 
              primavera del 2002 esportano appena ventuno milioni di barili su 
              un totale mondiale di settantacinque milioni. Ogni ulteriore 
              taglio della quota Opec finirebbe perciò per influire poco 
              sull’offerta mondiale, e quindi di avere uno scarso effetto al 
              rialzo, ma di incidere molto di più -in negativo- sulle entrate 
              dei paesi Opec.
 
 Per questo motivo il cartello ha segnalato alla fine del 2001 la 
              propria disponibilità ad un’azione di difesa dei prezzi, 
              attraverso la già citata riduzione della produzione di un milione 
              e mezzo di barili al giorno, solo a condizione che anche i 
              produttori non Opec collaborassero, anche se in maniera piuttosto 
              simbolica. Il contributo dei vari soggetti restava infatti 
              fortemente squilibrato. L’ultimo taglio Opec prevedeva un milione 
              e mezzo di barili in meno nell’offerta del cartello contro 
              cinquecento mila barili da parte di alcuni produttori non Opec, in 
              rappresentanza di quell’insieme di produttori che copre i restanti 
              tre quarti dell’offerta mondiale. Di questo mezzo milione di 
              barili, centocinquantamila avrebbero dovuto essere tagliati dalla 
              Russia, che ha accettato solo dopo un lungo e complesso tira e 
              molla, ed a condizioni che in realtà non consentono di evitare che 
              qualcuno venda al di là della propria quota. Il Messico poi ha 
              accettato di ridurre le proprie esportazioni ma non la propria 
              produzione, mantenendo così la possibilità di costituire delle 
              riserve, oppure di esportare maggiori quantitativi di prodotti 
              raffinati.
 
 La Russia ha mostrato una forte renitenza ad allinearsi con gli 
              altri produttori in gran parte per fattori politici, dato che essa 
              vuole essere un alleato dell’Occidente anche in questo campo, 
              tanto che Putin ha garantito, in maniera assai formale, in un 
              discorso pronunciato davanti al Bundestag a Berlino, che il flusso 
              del petrolio sarebbe continuato. In realtà la Russia sembra aver 
              acquisito il ruolo di vero e proprio “ago della bilancia 
              petrolifera”. Quello dell’Opec e del petrolio è un fronte sempre 
              aperto per il mondo occidentale, importatore netto di energia, e 
              ancora di più per i paesi di nuova industrializzazione come la 
              Cina, dove gli idrocarburi mancano in maniera ancora più grave, ed 
              è un fronte fortemente esposto ai contraccolpi dei conflitti che 
              sistematicamente scuotono i rapporti tra Occidente e mondo 
              islamico, come di nuovo accade nei primi anni del nuovo secolo.
 
 In un momento in cui l’Opec ha tenuto deliberatamente separata la 
              questione del prezzo del petrolio dai due conflitti contemporanei 
              dell’Afghanistan e della Palestina, la Russia, secondo esportatore 
              mondiale di idrocarburi, è venuta a trovarsi in una posizione 
              assolutamente determinante. In linea di principio, in quanto 
              esportatore, Mosca ha un forte interesse ad un prezzo alto del 
              petrolio. Ogni aumento o diminuzione di un dollaro al barile 
              significa per la sua bilancia dei pagamenti circa un miliardo di 
              dollari all’anno in più o in meno. Ma la Russia – dopo il 
              saccheggio operato da Eltsin, Chubais e dai loro compari 
              “oligarchi”, è anche fortemente indebitata, e quindi dipendente 
              dalle grandi organizzazioni finanziarie internazionali.
 
 Tali organizzazioni – come si è visto nel caso dell’Argentina, la 
              cui crisi ha lasciato tutti indifferenti, mentre l’attenzione per 
              la Russia era assai grande – sono assai sensibili agli interessi 
              dei paesi occidentali e fortemente influenzati da questi. E per i 
              grandi paesi industriali, un dollaro in più o in meno nel prezzo 
              del petrolio significa circa dieci miliardi di dollari che 
              rimangono presso i paesi consumatori o che vengono trasferiti ai 
              paesi produttori di petrolio. E siccome quelle occidentali sono 
              poi le economie più dinamiche del sistema internazionale, un 
              dollaro in più o in meno nel prezzo del petrolio significa 
              quindici miliardi di dollari in meno o in più nel prodotto 
              mondiale. L’Occidente è perciò non solo in grado, attraverso la 
              gestione del debito russo, di influire fortemente sul 
              comportamento del Cremlino nei confronti dell’Opec, ma è anche 
              fortemente interessato a farlo.
 
 Anche fattori politici, e non strettamente economici, sono però in 
              gioco in questa complessa partita. Così, il rinnovo a fine marzo 
              2002 della cooperazione Russia-Opec, con il mantenimento dei 
              livelli di produzione del primo trimestre 2002 , è parso un 
              segnale importante, anche perché è avvenuto in maniera meno 
              laboriosa della decisione precedente, quella del taglio della 
              produzione per il primo trimestre del 2002. Questa decisione non 
              sarebbe dettata da motivi tecnici (dato che la ripresa dei prezzi 
              era già avviata) ma dalla brutta sorpresa che il Cremlino ha avuto 
              nel vedere la presenza di militari americani nelle gole della 
              Georgia. La Russia è stata fortemente offesa dall’attivismo e 
              dall’unilateralismo americano, anche perché è stata informata del 
              dispiegamento degli “istruttori militari americani” solo 
              pochissimi giorni prima che ciò avvenisse. E per di più lo ha 
              saputo dagli Americani, e non dai Georgiani, che Mosca considera 
              invece come facenti parte della propria sfera di influenza.
 
 C’è quindi stato un risultato nelle strategie economiche di questa 
              mossa americana sullo scacchiere puramente politico-militare: un 
              brusco riavvicinamento all’Opec nel corso delle trattative per il 
              rinnovo dei tagli di produzione, il cui accordo scadeva il 30 
              marzo. Il prezzo del petrolio ne ha subito risentito, con un forte 
              balzo verso l’alto. Si incominciano cioè a vedere le risposte del 
              sistema economico internazionale all’attivismo unilaterale 
              americano, quando questo si traduce non solo in parole, ma in 
              fatti: un esempio dei più generali problemi che si pongono in un 
              mondo in cui la concentrazione della potenza militare non coincide 
              con la distribuzione della potenza e degli interessi economici. 
              Una controprova di questo meccanismo si è avuta tre mesi dopo, al 
              momento di decidere il livello delle esportazioni russe per il 
              terzo trimestre del 2002. La decisione di Mosca è intervenuta però 
              dopo il viaggio di Berlusconi in Russia e la partecipazione alla 
              riunione di Reijkiavik, e nell’imminenza del Summit NATO di 
              Pratica di Mare (maggio 2002). E, guarda caso, stavolta la Russia, 
              abbandonando la solidarietà tra i produttori di petrolio, ha 
              annunciato la fine dei tagli all’estrazione di greggio.
 
 Ogni riduzione della produzione degli esportatori non Opec - come 
              esplicitamente dichiarato da Messico e Norvegia, cioè gli altri 
              importanti esportatori non OPEC - dipende dalla decisione di 
              analoghi tagli da parte del governo russo. Nell’attuale struttura 
              dell’economia russa, il governo è però talora più debole degli 
              “oligarchi” che si sono impadroniti delle risorse energetiche 
              delle ex URSS. Per gestire una politica energetica pubblica, lo 
              Stato russo ha dovuto perciò ristabilire il proprio controllo 
              sulle società petrolifere, in modo tale che la vicenda dell’OPEC, 
              e la possibilità di continuare a gestire il prezzo del petrolio è 
              venuta ad invertire, in una certa misura, il processo di 
              privatizzazione, ed a confondersi con le lotte interne alla 
              Russia, e con il tentativo di Putin di ridare potere allo Stato e 
              di limitare quello di soggetti economico-politici che ormai 
              giocano soprattutto in una logica multinazionale ed hanno potenti 
              amici in Occidente.
 
 Se i Russi, e con loro gli altri produttori non OPEC, decidessero 
              di non seguire più in avvenire la linea del sostegno ai prezzi 
              decisa dal cartello, i paesi industrializzati, e in primo luogo 
              gli USA, sarebbero naturalmente assai in debito nei confronti di 
              Mosca, perché i bassi prezzi dell’energia sono stati l’unico 
              aspetto positivo della cattiva situazione congiunturale che ha 
              caratterizzato tutto il 2001, ed un loro aumento allontanerebbe le 
              speranze di ripresa. La tentazione di una politica petrolifera che 
              trasformi la Russia in un fornitore in grado di controbilanciare i 
              Paesi islamici, ed avvicini ancora di più le due ex potenze 
              rivali, è quindi assai forte sia a Mosca che a Washington, e può 
              essere danneggiata solo da un eccessivo dinamismo unilaterale 
              degli USA che spinga il Cremlino a decidere secondo una logica 
              diversa, puramente economica.
 
 I paesi più danneggiati da un tale sviluppo sarebbero naturalmente 
              i membri dell’OPEC, ed in primo luogo l’Arabia Saudita. Non che la 
              Russia possa davvero sostituire il Regno wahabita come 
              protagonista del mercato petrolifero mondiale. Le riserve di 
              idrocarburi recuperabili nell’immenso territorio dell’ex-Unione 
              Sovietica sono infatti incomparabilmente più ridotte di quelle del 
              Golfo Persico, che rimane perciò – nel lungo periodo – la 
              cassaforte energetica del pianeta. E a ciò si aggiunge, 
              nell’immediato, tutta una serie di ostacoli obiettivi – in 
              particolare impianti tecnicamente obsoleti e molto malandati – ad 
              un forte aumento dell’export russo di petrolio. Ma nel medio 
              periodo, se ben giocate politicamente, le carte energetiche della 
              Russia possono rivelarsi decisive, e per i prossimi cinque o dieci 
              anni – un tempo lunghissimo nel gioco internazionale della potenza 
              – potrebbero bastare a sottrarre all’OPEC la sua centralità e gran 
              parte del potere che tuttora essa detiene sul mercato 
              internazionale degli idrocarburi.
 
 Riad e gli altri membri del cartello potrebbero però a loro volta 
              contrattaccare, ma in maniera assai diversa da quella fino ad ora 
              seguita e che è consistita nel tagliare collettivamente la 
              produzione per spingere in alto i prezzi. Oltre ad essere poco 
              incisiva, come abbiamo già visto, questa strategia renderebbe 
              necessario un accordo che non c’è tra produttori (perché hanno 
              interessi diversi), ed una fortissima disciplina. L’Arabia Saudita 
              poi, non può ulteriormente tagliare la propria produzione per 
              motivi tecnici dato che i quantitativi di petrolio e quelli di gas 
              estratti dai pozzi sono abbastanza vincolati e sul gas è fondata 
              non solo tutta la produzione di energia elettrica dell’Arabia 
              Saudita, ma anche la desalinizzazione dell’acqua che consente al 
              paese di vivere.
 
 Riad dovrebbe perciò trovare una strategia di reazione 
              completamente diversa, e, nell’immediato, potrebbero farlo in una 
              maniera che sarebbe ben accetta ai consumatori occidentali, ma 
              devastante per la Russia. Con un aumento di produzione i Sauditi 
              potrebbero infatti far cadere i prezzi, e tenerli tanto a lungo al 
              di sotto del costo di estrazione del petrolio russo (che è di poco 
              meno di 10 dollari il barile, contro circa 2 nel Golfo persico) da 
              spezzare il fragile benessere di cui la Russia ha goduto negli 
              ultimi tempi, e che Putin ha saputo tanto abilmente sfruttare sia 
              per mantenere quel minimo di consenso interno di cui non può fare 
              a meno, sia per giocare le proprie carte sullo scacchiere 
              centro-asiatico. Una riflessione approfondita, sotto il profilo 
              dell’interesse europeo, di queste delicate questioni è sinora 
              mancata. Svolgerla sarà una delle funzioni che l’Osservatorio 
              sulle Politiche dell’Energia assegna se stesso. Ma è di immediata 
              intuizione che, così come l’autarchia energetica del Nuovo Mondo è 
              da considerare come una strategia a noi estranea – di cui vanno 
              però prese in attenta considerazione le conseguenze –, l’Europa 
              mantiene un forte interesse ad un funzionamento dei mercati 
              mondiali dell’energia che non venga distorto da fattori strategici 
              o da obiettivi di potenza.
 
 Proprio per la chiara sproporzione tra la sua rilevanza economica 
              mondiale, e il “posto all’ombra” che inevitabilmente le tocca 
              nell’attuale contesto politico internazionale, l’Europa non può 
              disinteressarsi né ai destini dei paesi produttori di petrolio del 
              Medio Oriente (a ancor meno impegnarsi in strategie ad essi 
              ostili), né vedere il suo grande vicino del’est, la Russia, 
              trattato più come una pedina che come un attore importante sullo 
              scacchiere internazionale. Certo, la Russia non è più la 
              superpotenza imperiale che essa un tempo è stata, ma rimane una 
              importante potenza europea, ed un partner che peserà nel processo 
              di rinnovamento e di unità del Vecchio Continente.
 
 24 maggio 2002
 
 gsacco@luiss.it
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