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              Al cuore del Libro biancodi Maurizio Castro
 
 Il Libro bianco sul Mercato del Lavoro in Italia. Proposte per una 
              società attiva e per un lavoro di qualità è forse il centro, il 
              cuore stesso del più generale progetto di "Controriforma" della 
              società italiana cui si ispira il governo Berlusconi. 
              "Controriforma" è espressione pronunziata qui in una prospettiva 
              tutta cattolica. Come la "Controriforma" si connotò quale richiamo 
              alla tradizione, in reazione all'atteggiamento antistorico assunto 
              dal protestantesimo e dalla sua impossibilità a costituirsi in 
              unità sociale - e dunque a riconferma della vocazione sociale del 
              cattolicesimo, e insieme quale riaffermazione di un attivismo 
              umanistico fondato sulla difesa del libero arbitrio contro la 
              concezione luterana del servo arbitrio - così il Libro bianco si 
              configura quale operazione di recupero delle esperienze più 
              feconde dei modelli sociali ed economici della tradizione europea, 
              nella prospettiva di ricostruire un diritto del lavoro liberato 
              dalle sfaldate morene di meccanismi implacabili, di ossessionate 
              procedure, di privilegi frustranti, di protervi consociativismi. 
              Tutto orientato alla generazione di occupabilità, il Libro bianco 
              non si presta a interpretazioni equivoche là dove declina le sue 
              proposte di sostituzione dell'attuale impianto rigido e gerarchico 
              della regolazione con un approccio per obiettivi e ispirato al 
              principio della sussidiarietà, ovvero là dove promuove forme di 
              flessibilizzazione del rapporto di lavoro valorizzando le 
              "clausole elastiche" per il rapporto a tempo parziale, o 
              introducendo il "lavoro intermittente", il "lavoro a progetto", lo 
              staff leasing, o riorganizzando i servizi pubblici per l'impiego, 
              o estendendo le competenze delle Agenzie di lavoro interinale, o 
              superando il divieto di intermediazione di manodopera, o 
              promuovendo la diffusione dell'arbitrato e di forme snelle di 
              risoluzione delle controversie, o rigenerando lo Statuto dei 
              lavoratori in un organico Statuto dei lavori.
 
 Ma, insidiosa, beffarda, una bugiaccia tracima dallo sgangherato 
              dibattito sul Libro bianco e, se assume il più delle volte il 
              cipiglio del dettamento solenne, della censura implacabile della 
              Cgil e della sinistra diessina, giunge persino all'ammiccamento 
              lascivo di qualche entrepreneur (imprenditore): che il Libro 
              bianco del governo disegni un modello di legislazione del lavoro e 
              di relazioni industriali acconcio a rendere più gracile, più 
              inibito, più remoto il ruolo delle organizzazioni sindacali. E' 
              vero invece il contrario. Laddove immaginassimo già divenuta 
              concreta e vera l'architettura del Libro bianco, troveremmo un 
              sistema in cui l'area d'intervento, la dimensione, la diffusione e 
              l'intensità della contrattazione risulterebbero accresciute ed 
              elevate. Non solo: ma la traslazione del focus del sistema 
              contrattuale dal contratto di categoria al contratto decentrato, 
              territoriale, distrettuale, aziendale che sia, avrebbe effetti 
              cantaridei, e non già bromurosi, sul dispiegamento della 
              contrattazione medesima nei luoghi di lavoro e sull'esercizio 
              della rappresentanza collettiva. Altro che la tradizionale, 
              torpida delega alle corrusche, ma lontane e incruente battaglie 
              nazionali!
 
 Non a caso, gli autori del Libro bianco, figli del più schietto 
              riformismo continentale, hanno sentito la necessità di integrare 
              la proposta di riforma, bilanciando il decentramento contrattuale, 
              di per sé foriero di un rapporto agonistico fra gli interessi in 
              campo, con un invito rigoroso e vigoroso all'introduzione di forme 
              di partecipazione, di per sé catalizzatrici di processi di sintesi 
              o almeno di composizione unitaria e organica. Tra l'altro, sia 
              consentito il dirlo con schiettezza: per mantenere in equilibrio 
              il sistema rinnovato, l'elemento della partecipazione è decisivo e 
              irrinunciabile. Al centro del modello del Protocollo del 23 luglio 
              1993 stava ancora la contrattazione così come essa sta al centro 
              di quello del Libro bianco: ma, nel primo caso, trattenuta, 
              dall'alto, dalla funzione della "concertazione"; nel secondo, 
              sostenuta, dal basso, dalla funzione della "partecipazione". 
              Entrambi i modelli malamente rovinerebbero, se alla 
              "contrattazione" fosse tolto un riferimento, di senso e di valore, 
              cui ancorarsi: solo che in quello del 1993, il quale ha svolto 
              egregiamente la sua missione storica ma ha perciò esaurito ogni 
              capacità propulsiva, si trattava di un riferimento, come nella 
              tradizione dell'esperienza italiana, di fonte centrale, di tipo 
              prescrittivo, produttivo di una gestione amministrativa; e invece 
              in quello disegnato dal Libro bianco, il quale si prefigge di 
              inverare e materiare in una prospettiva di innovazione fortemente 
              scandita esperienze europee per vocazione e suggestione, si tratta 
              di un riferimento con fonti plurime e periferiche, di tipo 
              induttivo ed "educativo", produttivo di una gestione creativa e 
              proattiva.
 
 Un quadro siffatto è d'altronde coerente con uno scenario 
              macro-economico dove è oramai evidente che i successi competitivi 
              si attingono sviluppando ed esaltando le competenze distintive, 
              quelle più raccolte e radicate intorno a sistemi, a "grumi", di 
              intelligenze e di esperienze collettive comunitariamente e quasi 
              etnicamente costituiti in impresa o in rete di imprese. E nessuna 
              impresa sarà disponibile, in un agone concorrenziale vieppiù 
              violento e inesausto, a rinunziare ai vantaggi offerti dalla 
              specialità del proprio "sapere" di relazioni industriali, 
              appiattendosi e irrachitendosi nei "medioni" delle categorie o dei 
              settori. Da tutto ciò discende un auspicio: che la riforma degli 
              assetti contrattuali sia avviata con ruvida urgenza dalle parti 
              sociali, sia accompagnata e sostenuta dal governo senza intrusioni 
              arroganti ma anche senza ipocriti neutralismi, e sia condotta 
              rapidamente a risultati netti, forti, "rivoluzionari". Mai come in 
              questa materia, e come in queste circostanze, è meglio un 
              cambiamento radicale, anche se osteggiato da molti, che una 
              conservazione pavida dell'esistente, anche se protetta dal 
              rassegnato consenso dei più.
 
 Quanto ai lineamenti della riforma, potrebbero risultare 
              articolati intorno a queste direttrici: a) la riduzione del 
              contratto nazionale di categoria alla definizione (quinquennale) 
              delle retribuzioni minime e degli standard in materia di 
              attivazione, gestione e risoluzione del rapporto, di orario di 
              lavoro e di inquadramento professionale; b) il corrispettivo 
              rafforzamento del contratto decentrato, nella forma tipica del 
              contratto aziendale, ovvero in quella del contratto distrettuale, 
              con durata triennale e piena potestà di regolare, anche in forma 
              derogativa, le materie oggetto degli standard nazionali; c) l'attivabilità 
              residuale e su base volontaria, per le imprese a dimensione locale 
              non coinvolte nella contrattazione aziendale, di contratti 
              territoriali definiti in sede regionale, anch'essi di durata 
              triennale; d) il drastico contenimento dell'intervento della 
              magistratura del lavoro (contaminante, e nell'esperienza storica 
              ostile all'autonomia delle parti), sostituita da collegi arbitrali 
              di fonte contrattuale ma dotati degli adeguati poteri per la 
              soluzione delle controversie collettive, compreso quello di 
              sanzionare i comportamenti delle parti contrari al generale dovere 
              di buona fede negoziale; e) la ridefinizione dei criteri e delle 
              forme della rappresentanza sindacale, funzionale all'attribuzione 
              di appropriate potestà contrattuali generali e all'individuazione 
              di efficienti e affidabili strumenti di validazione democratica; 
              f) l'introduzione di statuti di partecipazione da adottarsi 
              volontariamente nelle imprese, con la previsione di standard 
              minimi certificati (declinati in termini di partecipazione 
              organizzativa, strategica, economica, azionaria, anche attivabili 
              singolarmente e progressivamente) funzionali al riconoscimento di 
              adeguate agevolazioni anche in materia di autonomia normativa.
 
 La partecipazione, in ogni caso, deve, urgentemente, 
              gagliardamente, essere posta al centro del progetto di 
              modernizzazione della società italiana e delle sue declinazioni 
              economico-giuridiche. La partecipazione è l'architrave dell' 
              "impresa nuova", fondata e costituita in "comunità", in 
              Gemeinschaft: organismo uno e unitario in cui confluiscono 
              interessi - rappresentati dal management in nome e per conto della 
              proprietà e dal sindacato in nome e per conto degli operai e dei 
              lavoratori tutti - diversi nella provenienza sociale, ma identici 
              nello scopo, nel télos (risultato) politico. E questo punto di 
              confluenza segnala il "dis-piegarsi" del lavoro, nel suo piegarsi 
              al bene collettivo, come valore: restituendo all'impresa la sua 
              essenziale, radicale, originaria politicità, quale orizzonte e 
              sostanza di autenticità assiologica, quale fonte e sbocco di 
              identità, personale e professionale, morale e civile. Solo che, 
              mentre negli anni Novanta il riaggregarsi comunitario dell'impresa 
              assumeva - nel precipitoso rovinare dei generali, tradizionali 
              sistemi di riferimento politico e della politica in sé - il segno 
              d'un ancoraggio isolato e difensivo, d'un approdo precario e 
              disorientato, oggi diviene il punto di partenza, la scaturigine, 
              la gemmazione d'una riconciliazione piena, integrata, solidale, 
              organica e "organizzata" tra la civitas aziendale e la res publica 
              nazionale, tra questi due gradi e dimensioni della politicità (e 
              dell'identità).
 
 In altri termini, quello cui stiamo assistendo è non già, come i 
              più travisano, un processo di aziendalizzazione dello Stato, 
              bensì, al contrario, di osmosi dello Stato con l'impresa. Epperò 
              un processo reso coerente e armonico dall'omogeneità, e di più 
              dall'uguaglianza, dei valori fondativi dell'uno e dell'altra. 
              D'altronde, sul tema della partecipazione si può davvero edificare 
              un'alleanza che superi "oltraggiosamente" le appartenenze di 
              schieramento, e sappia coagulare le schiette vocazioni in tal 
              senso presenti in molte culture del Novecento italiano: dai 
              cattolici più attenti al tradizionale magistero della Chiesa alla 
              destra sociale, dai cultori di quella forma di capitalismo ben 
              temperato che va sotto il nome di "economia sociale di mercato" 
              alla sinistra riformista e persino a quella "morandiana". 
              Un'alleanza positivamente contaminante nella sua capacità di 
              riconciliazione e di ricomposizione di tanti frammenti della 
              nostra storia e delle nostre storie, la quale può, in una sorta di 
              vivificatrice ibridazione, persino generare un nuovo patto 
              costituzionale, il foedus fondativo della modernizzazione sociale 
              e istituzionale del paese.
 
 In questo senso, per esempio, assume un carattere assai meno 
              accidentale e opportunistico, e anzi strutturale e necessario, 
              anche la tendenza così marcata a una traslazione dal sistema delle 
              relazioni politiche a quello delle relazioni sindacali del modello 
              bipolare. In prospettiva, s'intravede un sindacato giustappunto 
              distinto e organizzato in due "poli", un polo "partecipativo" in 
              cui si federino la Cisl, la Uil, l'Ugl, la Cisal e un contrapposto 
              polo "antagonista" in cui si concentrino la Cgil e i Cobas. 
              Ebbene, se la differenza non corresse su nuovi e paralizzanti 
              collateralismi, se cioè non si riproducessero aree sindacali 
              funzionali ad aree politiche (centro-destra vs. centro-sinistra), 
              bensì si materiasse in una vocazione e in una prassi cooperativa 
              come tali alternative a una vocazione e a una prassi conflittuale, 
              sono persuaso che assisteremmo a una semplificazione e una 
              razionalizzazione positiva e propulsiva delle relazioni 
              industriali italiane (e non mi stupirei se analoga "biforcazione" 
              conoscesse anche il sistema delle rappresentanze datoriali).
 
 7 giugno 2002
 
 (da ideazione 3-2002, maggio-giugno)
 
 
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