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              La diagnosi di Fazio: giudizi scomodi e 
              pregiudizi ideologicidi Massimo Lo Cicero
 
 Le quattro coordinate di base della diagnosi di Fazio 
              sull'economia nel 2001 sono tutte molto ruvide nei confronti dei 
              paradigmi interpretativi che dominano la scena domestica in 
              Italia. L'impianto logico del Governatore si fonda su giudizi 
              molto espliciti. Primo: la condivisione della interpretazione che 
              Alan Greenspan offre della crisi americana e della possibilità di 
              superarla. In uno con il giudizio sulla sostenibilità della 
              terapia fiscale per fronteggiarla. Secondo: il riconoscimento 
              degli effetti positivi della globalizzazione sulla crescita futura 
              dei paesi più deboli, a patto che il mondo sappia dare vita ad 
              istituzioni capaci di governare questa dimensione globale 
              dell'economia. Ma i governi e gli stati non hanno un ruolo 
              esclusivo nella progettazione di queste nuove istituzioni. Terzo: 
              l'affermazione che l'economia italiana sia riuscita a darsi nella 
              prima metà degli anni Novanta una ragionevole stabilità monetaria 
              ma, nei cinque anni successivi, non abbia trovato la strada della 
              crescita. Ma la strozzatura dell'espansione non è venuta dal 
              sistema degli intermediari finanziari, che hanno retto la sfida di 
              una trasformazione competitiva: essa deriva dalle regole che 
              disciplinano il mercato del lavoro e la previdenza e dalla 
              complessiva inefficienza della macchina pubblica. Lo stato costa 
              molto; l'amministrazione pubblica controlla il 50% delle 
              destinazione del prodotto interno lordo; gli effetti di questo 
              dilagare dello stato sono inefficienti ed inefficaci, 
              contemporaneamente. Quarto: la denuncia del fatto che l'economia 
              privata del nostro paese, stretta tra la dilagante mediocre 
              presenza dello stato, i vincoli esistenti sul mercato del lavoro e 
              la mancata diffusione della cultura finanziaria si è rifugiata in 
              una ridicola dimensione d'impresa.
 
 Ma - smentendo una leggenda nazionale - il Governatore dimostra 
              che la dimensione microscopica delle imprese italiane non è 
              efficiente e non consente di affrontare la sfida delle tecnologie 
              e della crescita. Fazio denuncia esplicitamente i vizi di questa 
              anomalia dimensionale: molte imprese troppo piccole, da un parte, 
              e poche imprese grandi dall'altra. Mancano le imprese di medie 
              dimensioni mentre le grandi imprese, a loro volta, sono piccole 
              per presentarsi adeguatamente alla scala del mercato mondiale ed 
              europeo e, spesso, non hanno la capacità di competere su quei 
              mercati. Si tratta di quattro verità molto scomode da accettare. 
              Non mancano, infatti, i primi tentativi di deformare il contenuto 
              della diagnosi per denunciarne la inadeguatezza, seppure 
              implicitamente. Giuseppe Turani, ad esempio, si produce in un 
              peana delle medie imprese presentandole come casi di dimensioni 
              più piccole ma di successo: che i mercati finanziari non riescono 
              a vedere e che, al contrario delle grandi, presentano performance 
              migliori. Turani non commenta Fazio ma presenta i risultati di una 
              indagine di Mediobanca anche se il suo articolo appare, sulle 
              pagine di un quotidiano romano, dopo la presentazione delle 
              considerazioni finali. Sarà anche vero che si indovina quando si 
              pensa male ma è davvero strano che Turani arrivi alla medesima 
              conclusione di Fazio - peccato che in Italia ci siano così poche 
              imprese medie capaci di fare innovazione e sviluppo - mentre il 
              lettore trae da quell'articolo la sensazione che l'Italia non 
              sappia capire quanto valgono le sue imprese piccole. Cioè una 
              smentita implicita della denuncia di Fazio. Essendo la definizione 
              di piccolo e le conseguenze dell'analisi i punti ambigui ed opachi 
              dell'articolo di Turani rispetto alla diagnosi di Fazio.
 
 L'impianto del Governatore, insomma, si contrappone a due strade 
              intellettuali molto apprezzate in Italia: quella delle tecnocrazie 
              europee e quella delle ricette socialdemocratiche per riformare il 
              capitalismo. Fazio ripiega su una terza tradizione: quella del 
              cattolicesimo liberale. Quella che difende lo stato ma non lo 
              considera un demiurgo e che non mitizza la funzione delle 
              minoranze illuminate, chiamate a governare la cosa pubblica 
              nell'interesse del bene comune. Il Governatore guarda e commenta; 
              misura la distanza che ci separa da paesi che hanno seguito altre 
              strade e denuncia come l'Europa socialdemocratica registri una 
              performance nella equità della redistribuzione dei redditi, in 
              favore dei salariati, peggiore di quella realizzata negli Stati 
              Uniti, all'insegna del capitalismo. Sono proprio queste opzioni 
              americane - per un "istituzionalismo" dove lo stato sia solo 
              primus inter pares rispetto alle altre organizzazioni pubbliche; 
              per le analisi di Greenspan; per la responsabilità di ogni 
              individuo nella costruzione del futuro - che alimentano la 
              diffidenza di un parte della cultura nazionale verso Antonio 
              Fazio. Gli Stati Uniti non sono un modello positivo per una parte 
              della nostra classe dirigente. Ma questo, forse, è proprio il 
              quinto fattore di ritardo che Fazio non ha indicato e che 
              implicitamente si potrebbe aggiungere alla sua lista delle cause 
              che frenano la nostra crescita.
 
 7 giugno 2002
 
 maloci@tin.it
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