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              Perché i conti non tornanodi Francesco Forte
 
 La irosa polemica estiva sui conti dell’economia italiana e della 
              finanza pubblica, condotta da una sinistra digiuna di potere da un 
              anno, dopo un sogno roseo, che durava oramai da due lustri, 
              dall’epoca di inizio di Mani pulite, induce a riflettere con 
              maggiore calma e precisione: a) su quello che è realmente accaduto 
              nello scenario internazionale; b) sulla situazione italiana; c) 
              sulle previsioni per il futuro; d) sulla linea di condotta che 
              dovrà tenere il governo italiano, nel quadro europeo. In 
              particolare sarà necessario soffermarsi sulle proposte di modifica 
              del Patto di stabilità europeo di Amsterdam e delle regole di 
              Maastricht sui debiti e i deficit: perché su questi temi si è 
              oramai sviluppata una vasta discussione, in parte in rapporto alle 
              politiche keynesiane. Queste un tempo erano un cavallo di 
              battaglia della sinistra. Ma ora, almeno in Italia, sembra che la 
              sinistra abbia dimenticato Keynes.
 
 Innanzitutto, partiamo dalle vicende americane. Quello che è 
              accaduto negli Usa nel secondo trimestre del 2002 può essere 
              sintetizzato da una valutazione del presidente della Federal 
              Reserve, Alan Greenspan: le deviazioni che sono emerse nella 
              corporate governance degli Stati Uniti, dal caso Enron, a quello 
              World Come, hanno minato la fiducia del risparmiatore 
              nell’investimento e hanno generato una imprevista ondata 
              regressiva. Le sue conseguenze future sono difficili da valutare, 
              ma essa di certo influisce negativamente sulla situazione 
              economica degli Usa, nel secondo, nel terzo e nel quarto trimestre 
              attuale. Ne consegue che, mentre si prevedeva una crescita 
              dell’economia Usa del 2,5 per cento nel 2002, per effetto della 
              ripresa nel secondo semestre di quest’anno, ora il Fondo Monetario 
              Internazionale valuta al 2,2 per cento l’andamento complessivo 
              dell’economia Usa nel 2002. Dalle mezze frasi di Greenspan emerge 
              la possibilità che la ripresa si allontani maggiormente. E per 
              questo, mentre scriviamo – agosto 2002 – la Fed non ha sparato 
              l’ultima cartuccia, consistente nel ribasso di 0,25-0,5 punti del 
              tasso di interesse a breve che è già al modestissimo livello dello 
              1,75 per cento, ma si riserva di farlo prossimamente. Dalla crisi 
              di World Com e da altri eventi, si desume, per altro, che 
              l’economia high tech Usa sta subendo un effetto di sovra 
              investimento maggiore di quello che si pensasse nel settore dei 
              telefoni, che si ripercuote su una vasta gamma di settori 
              connessi. Ed è assai pesante la diminuzione della crescita 
              prevista per l’economia americana dal Fondo monetario per il 2003: 
              anziché un +3,25 per cento, solo il +2,5 per cento. In sostanza, 
              nel 2003, gli Usa non saranno quella locomotiva dell’economia 
              mondiale che si sperava.
 
 A questo punto, dobbiamo passare all’Europa, dove si registra uno 
              sgonfiamento della congiuntura economica. La spagnola Telefonica e 
              la finlandese Sonera si sono ritirate dal mercato dei telefoni di 
              terza generazione (3G) annunciando che rinunciano all’uso della 
              licenza che avevano comperato e che la ammortizzeranno, con i 
              mezzi resi disponibili dall’avere tirato i remi in barca. Subito 
              dopo anche Orange, una delle star della telefonia d’avanguardia, 
              ha ammesso di avere sbagliato i calcoli e ha chiesto una proroga 
              alla Svezia per l’attuazione di una rete di telefonia cellulare, 
              in cui possiede una licenza di 3G, con impegno di copertura del 
              99,98 per cento del mercato entro il 2003. Il costo degli 
              investimenti per le reti e le stazioni di base è troppo elevato, 
              rispetto al traffico previsto. Ciò perché la trasmissione di dati, 
              da parte degli operatori d’affari, che doveva costituire la crema 
              del traffico del 3G non sembra si materializzi in misura 
              consistente, anche a prescindere dalla cattiva congiuntura. Le 
              attuali capacità delle reti telefoniche fisse, accresciute 
              mediante la cablatura sembrano più che sufficienti per vario 
              tempo. Il fatto che il sistema 3G possa fornire trasmissioni con 
              velocità doppia non appare decisivo, per spostare il traffico ai 
              3G, salvo nel caso di drastiche riduzioni di tariffe, rese 
              possibili dal fatto che si possono mandare più dati per unità di 
              tempo. Ma come ridurre le tariffe, se gli investimenti sono 
              costosi e le imprese telefoniche hanno 200 miliardi di dollari di 
              debiti (o euro), in buona parte fatti per acquistare le licenze 
              dai governi? Telecom France è vicina al dissesto, la crisi di 
              Deustche Telekom ha determinato la cacciata dal vertice di Ron 
              Sommer, astro della nuova generazione tedesca di imprenditori. 
              Erickson, a causa del rallentamento produttivo del settore 
              telefonico è in difficoltà. E anche la prospettiva brillantissima 
              Nokia si è appannata.
 
 Le previsioni del Fmi per l’economia europea sono cupe, in 
              particolare lo sono per quella della Germania. Infatti, nel 2002 
              la crescita del Pil tedesco, secondo queste stime sarà solo dello 
              0,7 per cento. Soprattutto è deludente il dato per il 2003, in cui 
              ci sarebbe solo un esile miglioramento di 0,4 punti al +1,1 per 
              cento. E tutta l’Europa ne soffrirà. E’ agevolmente spiegabile – 
              senza chiamare in causa una crisi del modello capitalistico 
              americano che rimane quello dominante, sulla scena mondiale – la 
              prospettiva di un andamento economico “a piccolo trotto”che emerge 
              per gli Stati Uniti. Essi stanno raccogliendo i cocci di un lungo 
              periodo di boom e di euforia dell’economia e della borsa, cui è 
              seguita una recessione, tutto sommato modesta, in confronto ai 
              grandi cicli del passato. La fase di ristrutturazione è in atto. E 
              quel 2,5 per cento di crescita del Pil nel 2003, che fa storcere 
              il naso a Washington sarebbe considerato un annuncio radioso a 
              Berlino. Ciò che non è spiegabile, con riferimento al 
              rallentamento dopo un periodo di alta congiuntura, è la incapacità 
              dell’Europa della moneta unica di crescere. E in particolare si fa 
              fatica a credere che l’economia tedesca, che pure presenta grandi 
              imprese con tecnologie avanzate e proiettate sui mercati 
              internazionali, sia così poco dinamica. Sorprende che, nonostante 
              i quattro milioni di disoccupati, Berlino non riesca a rendersi 
              conto che deve esserci qualcosa di sbagliato, nel modello 
              economico che esso ha, sin qui, orgogliosamente gestito. Compresi 
              gli sgravi fiscali alle grandi imprese che sono serviti a 
              migliorarne i bilanci, ma non a suscitare una nuova ondata di 
              investimenti.
 
 Probabilmente siamo di fronte a una crisi sempre più profonda dei 
              modelli economici dell’Europa continentale, basati su un’elevata 
              tassazione, su un’elevata rigidità dei contratti di lavoro, su 
              posizioni di monopolio di “campioni nazionali” dell’industria e 
              della banca, fra di loro intrecciati: ossia il modello renano di 
              Stato del benessere con concertazione sociale e grande capitale 
              privilegiato. Dopo la creazione dell’euro pochi progressi sono 
              stati compiuti – salvo i recenti tentativi italiani – per 
              smantellare questo modello. Ma il discorso sul tema ci porterebbe 
              troppo lontano. Ora ci basta annotare che il rialzo dell’euro sul 
              dollaro non ha avuto luogo in virtù di un effetto propulsivo da 
              parte del mercato finanziario europeo sull’economia dell’area 
              della moneta unica, ma a causa della debolezza di Wall Street, di 
              cui abbiamo visto le cause. E ciò comporta che questo rialzo ha 
              generato un rallentamento dell’esportazione europea, in un periodo 
              di bassa domanda interna, con conseguenze negative sulle 
              previsioni economiche di quest’area.
 
 Il terzo aspetto del non previsto rallentamento congiunturale del 
              2000 riguarda l’America Latina: crisi dell’Argentina, poi crisi 
              del Brasile e dell’Uruguay . L’Fmi è sotto accusa assieme 
              all’amministrazione Bush. L’aiuto di 30 miliardi di dollari al 
              Brasile del Fondo, deciso in fretta, di fronte al rischio di una 
              crisi che poteva travolgere tutta l’America Latina, ha suscitato 
              le aspre critiche di Le Monde, che chiede addirittura la 
              soppressione del Fondo. Non si avanzano critiche al massiccio 
              intervento a favore del Brasile, che appare, anzi, tardivo ma al 
              ruolo di questa istituzione, che sarebbe complessivamente 
              perverso. Il quotidiano francese sostiene che la crisi 
              latino-americana attuale dipende dagli errori del Fondo Monetario 
              Internazionale, che agisce sotto il dominio degli Usa, le cui 
              decisioni sono molto spesso contraddittorie, Bush aveva predicato 
              la severità. Ma dopo avere portato l’Argentina quasi allo sfascio, 
              con la linea dura, il ministro del Tesoro, O Neil, si è 
              precipitato in Uruguay, con 1,5 miliardi di dollari di anticipo su 
              quelli che ha chiesto al Fmi di erogare. Poi ha sollecitato 
              l’intervento di 30 miliardi in Brasile, senza l’accordo sulle 
              clausole di rigore che il Fondo suole porre, come condizione per 
              gli interventi. Va però aggiunto che la crisi argentina ha altre 
              cause. Essa, per combattere l’inflazione, aveva adottato il 
              sistema di parità rigida con il dollaro, basato sul cosidetto 
              currency board, per cui a ogni peso emesso doveva corrispondere un 
              dollaro nelle riserve del governo federale di Buenos Aires. Ma il 
              rialzo eccessivo del dollaro, rispetto all’euro e ad altre monete, 
              ha messo in ginocchio l’economia argentina, sicché essa ha dovuto 
              abbandonare il regime di dollarizzazione.
 
 Il Fondo Monetario ha sbagliato a non intervenire immediatamente 
              in soccorso di uno Stato, il cui errore principale era di avere 
              creduto nel dogma del cambio fisso, che nessun economista fautore 
              dell’economia di mercato ritiene di poter accettare, ma che era 
              stato accolto con favore del Fondo Monetario, oltreché dagli 
              economisti di Clinton e da quelli di Bush. Si guardava con 
              soddisfazione al fatto che la crisi argentina, pur drammatica per 
              questa nazione, non aveva suscitato un effetto domino sui Paesi 
              vicini. Ma è bastato che nelle elezioni presidenziali del Brasile 
              di autunno emergessero come probabili vincitori nella campagna di 
              autunno due candidati della sinistra sindacale, cui qualche gruppo 
              di capitalisti locali strizza l’occhio, per innescare l’effetto 
              domino, sul Brasile e sull’Uruguay. I mutamenti di linea del Fmi 
              hanno disorientato l’ambiente finanziario e hanno ridotto la 
              credibilità nell’efficacia di questi grossi interventi. Si 
              accusano gli Usa di dettare legge al Fondo e di farlo in modo 
              incoerente. Ha ragione Le Monde a sostenere che l’Europa dovrebbe 
              essere più presente con riguardo alla linea della massima 
              istituzione mondiale di regolazione monetaria. Ma l’Europa è 
              latitante anche per quanto riguarda la sua propria politica 
              fiscale comune. E non vi è alcun tentativo di colloquio 
              istituzionale fra la Commissione europea e il Parlamento europeo e 
              la Bce, nel quadro dell’autonomia di questa. La discussione sulla 
              sostituzione anticipata del presidente della Bce, Wim Duisenberg, 
              con un finanziere francese (Claude Troichet, o chi altro) aggiunge 
              incertezze. Anche queste contribuiscono ai comportamenti 
              oscillanti della Fed, del Tesoro degli Usa, dell’Fmi.
 
 In questo scenario la debolezza della situazione economica 
              dell’economia nell’America Latina non sembra davvero destinata a 
              dissiparsi. E in tutto questo si inserisce la perdurante grave 
              stasi economica del Giappone. Le previsioni sull’economia italiana 
              del “Documento di Previsione economica e finanziaria” fatte dal 
              ministro dell’Economia e Finanze del governo attualmente in carica 
              per il 2002-2006 – che contemplavano un aumento annuale del Pil in 
              termini reali del 3 per cento per tutto il periodo sulla base di 
              un andamento tendenziale del 2,2 per cento per il 2002 e il 2003 e 
              del 2,1 per cento per i tre anni successivi – erano troppo 
              ottimistiche. Ciò anche nell’estate del 2001, come non mancai di 
              rilevare allora, in un articolo su Il Foglio. L’andamento 
              tendenziale su cui si innestava la previsione di crescita di un 
              punto percentuale, dovuto alla politica economica del nuovo 
              governo era troppo elevato, in rapporto al quadro europeo. 
              Tuttavia, quando erano state preparate queste stime non si era 
              ancora verificato l’11 settembre. E, generalmente, si prevedeva 
              per la fine dell’anno un recupero dell’economia europea. La 
              locomotiva europea, si asseriva allora, in autorevoli ambienti 
              internazionali, avrebbe sostituito quella degli Usa, come traino 
              di quella mondiale. Successivamente all’11 settembre, la revisione 
              delle stime economiche, da parte di molte istituzioni pubbliche, 
              fu ispirata a prudenza, anziché a realismo, onde evitare effetti 
              psicologici troppo negativi, che avrebbero aggravato il clima di 
              minaccia, creato dai terroristi di Al Qaeda. Troppo breve fu il 
              sospiro di sollievo, generato dalla rapida vittoria degli 
              occidentali in Afghanistan. Presto ci si accorse che i capi del 
              movimento terroristico non erano stati eliminati e che, comunque, 
              le vere centrali erano altrove. La ripresa di fine anno non vi fu. 
              Un realistico pessimismo cominciò a prevalere nei centri di 
              ricerca economica europei.
 
 Il governo rettificò al 2,4 per cento la previsione per il 2002. 
              La prima parte dell’anno, in Europa, era caratterizzata da un 
              andamento molto debole. Il nostro ministero dell’Economia preferì 
              mantenere una linea ottimistica, resa via via più difficile dal 
              rialzo dell’euro che riduceva le capacità di esportazione italiane 
              come tutte quelle europee (già ostacolate dalla debolezza della 
              congiuntura internazionale). Intanto si manifestava la crisi della 
              Fiat sul mercato interno, in contrasto con i risultati delle case 
              concorrenti, che ne erodevano le quote di mercato. Forse sarebbe 
              stato sbagliato dare, in quelle circostanze, agli italiani un 
              messaggio pessimistico nel Dpef 2003-2006. In ogni caso, quando 
              intervenne il caso Enron, e si vide che anche l’economia americana 
              avrebbe tradito le aspettative di robusta ripresa a fine 2002, 
              mentre l’euro raggiungeva la parità con il dollaro, il nostro 
              governo all’inizio di luglio ha provveduto a modificare le 
              previsioni, sostituendo nel Dpef, alla stima di crescita del Pil, 
              una previsione molto cauta di aumento dello 1,3 per cento soltanto 
              in termini reali. Anche sulla base di tale previsione, è stato 
              mantenuto il progetto di prima tranche di riduzione delle imposte 
              sui redditi, che era stato preannunciato, in coerenza con il 
              programma di governo. Il fare ciò era del tutto logico: di fronte 
              a una situazione economica debole, a causa della riduzione della 
              domanda europea e internazionale e della crisi della maggiore 
              impresa industriale domestica, dovuta a suoi specifici fattori, 
              non è certo ragionevole annunciare che i previsti ribassi fiscali 
              saranno abbandonati. Ma di ciò, più avanti.
 
 Una polemica strumentale che non tiene conto dei dati
 
 Ora dobbiamo occuparci della furibonda polemica che si è 
              sviluppata ai primi di agosto, quando è emersa una serie di dati 
              poco buoni sull’andamento economico e sugli introiti fiscali del 
              2002. L’opposizione ha argomentato che i risultati denotavano un 
              fallimento della politica economica del governo e che in base ai 
              nuovi dati le promesse di riduzioni di imposte non potevano (o 
              dovevano) essere mantenute. Ma tutto ciò è sbagliato. La notizia 
              del dato di giugno, di una flessione dell’indice della produzione 
              industriale del 5,4 per cento rispetto al giugno del 2001 è stata 
              presentata con clamore, omettendo di dire che questo giugno vi era 
              una giornata lavorativa in meno del giugno 2001. Tenuto conto del 
              diverso numero di giornate lavorative, la flessione del giugno 
              risulta dello 1,7 per cento. Non è un dato positivo, ma non è un 
              tracollo. E, soprattutto, si tratta dell’indice della produzione 
              industriale, con base 1995. Questo è un indice fisico, non di 
              valore, non tiene conto dei mutamenti qualitativi, dovuti al 
              progresso tecnologico. Inoltre la composizione del paniere cui si 
              riferisce è del 1995. Nel frattempo sono entrati in campo prodotti 
              nuovi (informatici, ad esempio) non contemplati nell’indice. E 
              alcuni prodotti, importanti nel 1995, sono ora in declino, perché 
              sostituiti da altri, che non sono rappresentati nell’indice o lo 
              sono in misura insufficiente rispetto al loro peso attuale. Infine 
              l’area della produzione industriale si è allargata soprattutto nei 
              “beni intelligenti”dotati di un’esigua base materiale, senza che 
              il vecchio indice fisico ne tenga conto.
 
 Le innovazioni risparmiano materiali a parità di prodotto, anzi 
              con prodotti migliori (i telefonini sono sempre più piccoli e 
              leggeri, così i computer). Che questo indice abbia 
              rappresentatività sempre più dubbia rispetto all’andamento 
              dell’economia, emerge dalla contraddizione fra i dati di tre 
              settori produttivi che nel giugno del 2002 sono saliti rispetto al 
              giugno 2001 e gli altri settori che sono invece scesi. Le 
              produzioni di energia elettrica, gas e acqua presentano questo 
              giugno un +5,3 per cento rispetto al giugno 2001; le raffinerie di 
              petrolio esibiscono addirittura un +7 per cento, gomma e plastiche 
              un +1,9 per cento. Gli indici dell’andamento di questi tre settori 
              sono generalmente buoni indicatori della dinamica dell’economia 
              produttiva e del consumo civile, a cui essi sono strumentali. Ma 
              gli indici fisici di tutti i settori produttivi, diversi da questi 
              tre, sono in calo e la domanda di consumi, stando ai dati 
              ufficiali, sarebbe in declino (primo trimestre) o stagnante. Dove 
              sono mai finiti quell’elettricità e quel gas? E perché le 
              raffinerie lavorano il 7 per cento in più dello stesso mese del 
              2001, nonostante un giorno di lavoro in meno? Dove pensano di 
              vendere quella benzina, quel gasolio, quell’olio combustibile in 
              più? E come mai la produzione di plastica, con un giorno di lavoro 
              in meno, è aumentata del 2 per cento? Domande senza risposta, 
              salvo ammettere che l’indice fisico della produzione industriale 
              con base 1995 non dà più il polso dell’andamento economico. Non si 
              tratta di economia sommersa, ma di economia non rilevata 
              statisticamente, il che è diverso. È accaduto anche negli Usa 
              negli anni ’90, nella fase di sviluppo high tech simile a quella 
              in cui ci troviamo ora noi.
 
 Ed ecco il secondo dubbio. Il prodotto nazionale nel complesso 
              crescerebbe, nel primo semestre, solo dello 0,3 per cento. Ma, in 
              contrasto con questi dati, ci sono quelli dell’occupazione. Essa, 
              secondo l’Inail sarebbe aumentata di 845.000 unità nel primo 
              semestre. E secondo l’Ocse la disoccupazione è scesa al 9,1 per 
              cento contro il 9,6 dello scorso anno. Nessuno nella nostra 
              sinistra fa cenno a questo dato, mentre si era riso con 
              scetticismo quando Berlusconi aveva promesso la creazione di un 
              milione di posti di lavoro, non in un anno, ma in più anni. Com’è 
              possibile questa crescita occupazionale, mentre l’economia 
              sembrerebbe al palo? Ammessa una modesta crescita di produttività, 
              cioè del prodotto per addetto, dello 1 per cento, con le attuali 
              stime dell’aumento del prodotto nazionale reale del +0,3 per 
              cento, vi dovrebbe essere un calo dell’occupazione, non un 
              aumento. È impossibile che la nuova occupazione sia tutta 
              emersione di economia sommersa. Infatti, la legge sull’emersione 
              dell’economia sommersa ha sin qui funzionato in misura irrisoria. 
              Ma ammettendo pure che una buona parte di questa maggiore 
              occupazione consista di emersione del sommerso, ciò dovrebbe 
              risultare nel calcolo del prodotto nazionale, trattandosi di un 
              totale cospicuo. Ma non se ne parla. Dunque la stima di un misero 
              0,9 per cento di crescita del Pil del 2002, non convince. 
              Concludendo: la crescita dello 1,3 per cento del Pil del 2002, di 
              cui al Dpef, non può essere smentita allo stato delle informazioni 
              dai dati Istat sull’indice della produzione industriale.
 
 Accanto alla revisione dell’andamento tendenziale – sovrastimato – 
              e al sopraggiunto peggioramento del quadro internazionale e alla 
              crisi della Fiat, occorre considerare il fatto che il programma 
              dei cento giorni e le successive misure, con cui il governo 
              Berlusconi pensava di rilanciare la nostra economia, non hanno 
              avuto sino ad ora gli effetti sperati. In quel punto di maggior 
              crescita dovuto al programma del nuovo governo vi era un elemento 
              di ottimismo, soprattutto per quanto riguardava l’impatto 
              immediato. Come ho spiegato altrove, la politica dell’offerta, su 
              cui fa perno questo programma, per sua natura, ha soprattutto 
              effetti di medio-lungo termine, quelli immediati sono meno 
              rilevanti. Ma a parte ciò, vari fattori hanno agito da freno. 
              L’immagine di un governo favorevole all’impresa come quello 
              Berlusconi su cui si contava, per un effetto immediato di 
              rilancio, è stata effettivamente recepita dagli operatori 
              economici: lo dimostra la fiducia dimostrata, con il successo 
              dello scudo fiscale, che ha comportato il rientro contabile in 
              Italia di 54 miliardi di euro, di residenti esteri, contro una 
              previsione di 50, già alta: il successo dell’operazione non è 
              spiegabile certo con la disillusione circa l’investimento 
              finanziario internazionale del risparmio, dato che una quota 
              cospicua di essi è rimasta nelle banche estere. Ma mentre si dà 
              credito a questo governo, circa la sua volontà e capacità di 
              ridurre le imposte e smantellare i “lacci e laccioli” che 
              ostacolano la libera iniziativa, si sono dovuti riscontrare due 
              eventi, che hanno ostacolato la volontà e la capacità di 
              investire, innovare e rischiare. Innanzitutto il varo delle grandi 
              opere e la stessa politica degli investimenti pubblici hanno 
              trovato il freno di lungaggini procedurali difficili da superare, 
              mentre la legge Merloni sui lavori pubblici si rileva sempre più 
              macchinosa e foriera di potenziale corruzione, come la Corte dei 
              conti ha, con preoccupazione, segnalato.
 
 La furibonda campagna contro le modeste attenuazioni dell’articolo 
              18 dello Statuto dei Lavoratori per le piccole imprese e il Sud, 
              prima con uno sciopero generale, poi con la promessa di iniziative 
              agitatorie in autunno, è servita per togliere dal progetto 
              governativo i benefici per il Sud e ha ingenerato dubbi sulla 
              possibilità di proseguire nella flessibilità del mercato del 
              lavoro. Soprattutto, ha generato nelle imprese piccole e medie un 
              clima di attesa, in relazione all’effettiva incidenza che questa 
              nuova linea potrà avere, nelle relazioni aziendali. E’ paradossale 
              che mentre la Fiat si prepara a perdere migliaia di addetti, 
              tramite procedure di risoluzione collettiva dei contratti di 
              lavoro e si invoca, ormai anche da parte della sinistra, un 
              tempestivo intervento della General Motors a rilevarne il settore 
              auto, la Cgil conduca una campagna volta a creare tensione nelle 
              fabbriche e a ostacolare le forme di flessibilità del lavoro. 
              Quasi un invito a de-localizzare dall’Italia l’auto e le industrie 
              connesse. In queste condizioni, la scelta del governo di 
              dichiarare che la sua politica rimane immutata, in particolare nel 
              campo tributario, appare una linea obbligata: per dare un 
              orizzonte di fiducia al mondo della produzione, affinché non vi 
              sia lo sciopero degli investimenti e prosegua la messa in regola 
              del lavoro irregolare e l’assunzione di manodopera.
 
 E qui si viene alle cause e ai problemi dello scarso gettito 
              fiscale erariale, registrato nel primo semestre del 2002, il cui 
              incremento è solo dello 1,5 per cento. Questo aumento non 
              corrisponde alla crescita del Pil secondo le stime Istat. Infatti 
              sommando al tasso di inflazione un po’ superiore al 2 per cento la 
              misera crescita reale ufficiale dello 0,3 per cento, si ha un 
              aumento del Pil nominale del 2,5 per cento circa. Invece, con un 
              +1,5 per cento le entrate fiscali affluite al Tesoro sarebbero 
              cresciute di meno del tasso di inflazione, cioè sarebbero 
              diminuite, in termini reali di uno 0,5. Ma le entrate contributive 
              facenti capo all’Inps, nel primo semestre, presentano una crescita 
              del 4 per cento: trattandosi di contributi proporzionali ai costi 
              del lavor; ciò implica un’analoga crescita dei redditi da lavoro 
              dipendente e autonomo, tassati con i contributi che affluiscono 
              all’Inps. La causa dell’anomala flessione, in termini reali, delle 
              entrate fiscali erariali sta essenzialmente nel cattivo andamento 
              dell’autotassazione di giugno, che è la somma del saldo su quanto 
              anticipato nel 2001 e dell’acconto del primo semestre 2002. Essa 
              presenta una flessione del -15 per cento per l’Irpef e del -18 per 
              cento per l’Irpeg, che non si spiega certo con la semi-stagnazione 
              economica registrata dall’Istat, ma contraddetta dai dati sulla 
              dinamica dell’occupazione e delle entrate contributive. Se anche 
              il prodotto nazionale in moneta corrente quest’anno fosse eguale a 
              quello dello scorso anno, non vi sarebbe ragione per avere un calo 
              delle entrate di autotassazione di questa entità.
 
 La cause vanno cercate altrove. Innanzitutto pesa negativamente la 
              rivalutazione dei cespiti nei bilanci delle imprese, stabilita 
              dall’allora ministro delle Finanze Visco. Questo in quanto essa è 
              stata accompagnata dalla possibilità di effettuare, sin dal primo 
              anno ad essa successivo, ampi ammortamenti, corrispondenti al 
              maggior valore dei cespiti rivalutati. Ciò ha inciso sui bilanci 
              fiscali che hanno redatto le società, per lo scorso anno e, in 
              previsione, per questo, ossia sui conguagli di autotassazione e 
              sugli anticipi della prima rata 2002. Un altro fattore, che limita 
              i debiti fiscali delle imprese, nell’anno in corso, dovuto a 
              Visco, è l’effetto cumulativo della Dit (Dual income tax) e super 
              Dit, che esonerano il reddito presunto degli utili delle imprese 
              destinati a investimenti: senza distinguere quelli di rimpiazzo da 
              quelli nuovi. Il tributo non genera uno stimolo specifico ai nuovi 
              investimenti, a differenza della legge Tremonti, che agevola gli 
              investimenti aggiuntivi rispetto alla media di quelli degli anni 
              precedenti. Ma Dit e super Dit erodono, man mano in misura 
              crescente, la base imponibile, per le imprese già da tempo sul 
              mercato, che si finanziano reinvestendo gli utili. A ciò, sempre 
              sul conto dell’allora ministro Visco, si aggiunge il fatto che il 
              lavoro coordinato e continuativo è stato tassato alla fonte, 
              mediante trattenuta e pertanto non dà più apprezzabili introiti 
              nell’autotassazione. Infine, è da presumere che sui redditi 
              imponibili del 2002 peserà l’effetto della legge Tremonti bis, 
              che, come accennato, agevola fiscalmente gli investimenti 
              aggiuntivi. Se la somma di sgravi generata dalla Tremonti fosse 
              ampia, ci sarebbe da rallegrarsene, perché vorrebbe dire che il 
              ciclo dell’investimento in Italia sarà in ripresa. E i gettiti 
              perduti in sede di tassazione dei redditi di impresa e lavoro 
              autonomo si ritroveranno nella tassazione indiretta sul maggior 
              giro d’affari e di consumo e nei maggiori introiti contributivi. 
              Il problema della minor dinamica delle entrate del 2002, come si è 
              notato, in parte notevole è imputabile alla politica tributaria 
              del precedente governo, che ha tagliato l’erba nel terreno su cui 
              avrebbe dovuto raccogliere il governo successivo. A ciò bisogna 
              aggiungere il buco di circa un punto di prodotto nazionale lordo, 
              che è stato trasmesso dal governo di centro-sinistra, che ha 
              portato il deficit 2001 al 2,2 per cento del Pil contro lo 1,2 per 
              cento preventivato.
 
 Va anche aggiunto che la delibera di Eurostat, l’Ufficio 
              statistico della Comunità europea, di disconoscere come entrate di 
              competenza nell’esercizio in cui sono effettuate le cessioni di 
              immobili compiute mediante cartolarizzazioni parziali, in corso di 
              attuazione da parte del ministro Tremonti, ha ridotto di mezzo 
              punto le entrate del 2001 e, presumibilmente, di uno 0,3 per cento 
              quelle del 2002. E’ assurdo che sia un Ufficio statistico a 
              decidere sull’interpretazione del contenuto contabile delle regole 
              del Patto di stabilità di Amsterdam e di Maastricht, anziché 
              Ecofin, l’organo dei ministri finanziari del Consiglio europeo. E 
              il presidente della Commissione europea, da cui questo Ufficio 
              dipende, è anche candidato a dirigere il centro-sinistra, nella 
              tornata elettorale alla fine della legislatura in corso. Se il 
              bilancio 2002 fosse partito da un disavanzo del 2001 dello 1,2 per 
              cento del Pil, o almeno dello 1,7 per cento, tenendo per buoni i 
              proventi delle cartolarizzazioni disconosciuti da Eurostat, 
              sarebbe più facile raggiungere, comunque, nel 2002 il traguardo di 
              un deficit dello 0,5 per cento come stabilito negli impegni 
              comunitari. È difficile stimare se, con la riduzione della 
              dinamica delle entrate e il buco pregresso, si arriverà a un 
              deficit fra lo 0,5 e lo 1,1 per cento del Pil come stimato dal 
              governo sino a tutto luglio, oppure esso toccherà lo 1,5 per cento 
              -1,7 per cento. L’Unione europea ha già corretto la stima del 
              nostro governo del luglio, di un massimo dello 1,1 per cento, 
              ritenendo che il livello fosse piuttosto di un 1,3 per cento.
 
 Ormai si discute apertamente dell’esigenza di allentare il rigore 
              del Patto di stabilità europeo e vengono avanzate le proposte più 
              svariate, molte delle quali inaccettabili, in quanto in contrasto 
              non con tale Patto, ma con le regole di Maastricht, che fanno 
              parte della Costituzione fiscale e monetaria europea e, come tali, 
              non dovrebbero essere modificate, se non con una procedura di 
              revisione del Trattato chiaramente improponibile, alla luce delle 
              istanze di rafforzamento della cornice costituzionale dell’Unione 
              europea e, comunque, tale da richiedere tempi lunghi. Le regole di 
              Maastricht impediscono di togliere dal calcolo del deficit il 
              complesso delle spese di investimento o una parte di esse, come le 
              spese per infrastrutture o i progetti di sviluppo economico e 
              sociale co-finanziati dai fondi comunitari. Il Trattato di 
              Maastricht, infatti, nel fissare il 3 per cento come limite ai 
              disavanzi ammessi, specifica che si potrebbero tollerare deroghe, 
              in casi particolari, anche tenendo conto del fatto che si tratta 
              di spese di investimento. Da ciò si desume che le spese pubbliche 
              di investimento, vanno incluse tutte, ai fini del calcolo deficit: 
              semmai si può tollerare un deficit superiore al 3 per cento del 
              Pil. Ma ciò è precluso ai Paesi che abbiano un debito superiore al 
              60 per cento del Pil, come l’Italia, per i quali vi è un obbligo 
              di riduzione tendenziale del rapporto fra debito e Pil. La 
              Germania, se varcasse non solo il tetto del 3 per cento del 
              deficit sul Pil, ma anche quello del 60 per cento del debito sul 
              Pil dovrà spiegare in che misura ciò non violi il Trattato di 
              Maastricht. Per l’Italia la soglia da non varcare, per evitare una 
              crescita del rapporto debito/Pil è quella di un deficit pari al 
              2,5 per cento circa, che è quello del tasso di crescita monetario 
              del Pil. Infatti, con un rapporto debito Pil del 108 per cento 
              come quello italiano, ogni punto di inflazione riduce il peso del 
              Pil sul prodotto lordo dello 108 per cento. Come si nota, non è di 
              violazioni delle regole del Trattato di Maastricht che si dovrà 
              discutere per l’Italia, anche nella peggiore delle ipotesi.
 
 Si tratta, invece, di discutere dell’applicazione del Patto di 
              stabilità di Amsterdam, frettolosamente accettato, a suo tempo, 
              dal governo Prodi, nonostante la palese assurdità delle sue 
              clausole. Infatti, sia pure in modo tortuoso (ma non ambiguo) in 
              tale testo si afferma che i governi europei dovranno raggiungere 
              il pareggio del bilancio o realizzare un surDaily, prima di avere 
              titolo a realizzare dei deficit, con caratteri anticiclici, nei 
              periodo di carattere recessivo, in senso statistico. E in questa 
              argomentazione sono racchiuse due autentiche “bestialità” di 
              ragionamento. Intanto, le misure anticicliche, dal punto di vista 
              economico, non hanno bisogno di aspettare che il Pil decresca: 
              vanno innescate prima che questo accada, per tenere conto dello 
              sfasamento temporale nei loro effetti, e, inoltre, non vi è nulla 
              di “sacro” nel fatto che il Pil decresca, per riconoscere una 
              fluttuazione ciclica verso il basso: si può avere una recessione, 
              in senso economico (e non statistico), quando il tasso di 
              crescita, dopo essere stato sostenuto, tende verso lo zero, in 
              presenza di capacità produttiva inutilizzata e disponibile senza 
              inflazione. Se si escludessero dal concetto di recessione queste 
              fluttuazioni non sotto lo zero, ma verso lo zero, non avremmo più 
              i cicli economici, solo perché uno statistico ha loro cambiato 
              nome, nonostante che la forma di ciclo sia visibilissima nel 
              diagramma dell’andamento economico.
 
 E poi che senso ha ammettere che sono ragionevoli le azioni 
              anticicliche, ma subordinarle al fatto che vi sia stato in 
              precedenza il pareggio del bilancio o un surDaily? Se esse non 
              aumentano il rapporto debito/Pil e servono a rianimare l’economia, 
              e combattere la disoccupazione, senza pericolo di inflazione, 
              quale è il ragionamento economico – non il cavillo da legulei – 
              per cui non vanno attuate in presenza di una rilevante 
              depressione, se il Tesoro non ha realizzato in passato il pareggio 
              o il surDaily. E, invece, le azioni antcicliche sarebbero 
              consentite, anche con una depressione minore, se in anni passati 
              il bilancio era in pareggio ? Vi è chi sostiene che si può evitare 
              di modificare il Patto di stabilità, perché è abbastanza 
              flessibile per consentire una sua interpretazione, in relazione 
              gli impegni di tendere al pareggio del bilancio. Questa soluzione 
              è più diplomatica ddi quella di modifica esplicita del Patto: e, 
              soprattutto, essa non lede l’orgoglio di chi a suo tempo lo 
              scrisse o sottoscrisse o elogiò. In concreto, per l’Italia, è 
              importante rimanere con un deficit sotto il 2 per cento, che 
              segnala che ci si avvicina mano mano al pareggio e che si fa 
              qualche passo, sia pure piccolo, per ridurre il rapporto 
              debito/Pil anche in periodi di brutta congiuntura. Questo mi pare 
              debba essere il nostro Piave. Senza rinunciare a riduzioni di 
              aliquote fiscali, per rispettare il “patto con gli italiani”, 
              basato sulla politica economica sul lato dell’offerta.
 
 11 ottobre 2002
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