| 
              Non reinventiamo l'Iridi Gianni Baget Bozzo
 
 Da questo numero avviamo una collaborazione 
              con 
              Ragionpolitica.it, il sito della Struttura formazione di Forza 
              Italia curato da Alessandro Gianmoena
 
 La Fiat non fa parte solo della economia italiana, fa parte della 
              sua politica. Gli Agnelli, come dinastia hanno sostituito i 
              Savoia: in certi momenti l'avvocato sembrava la figura più 
              credibile della nazione, il garante dell'Italia rispetto al mondo. 
              Oggi le sorti del gruppo sono in mano al governo di centro destra 
              di Silvio Berlusconi, trattato dall'Avvocato quando egli era il 
              profilo credibile del capitalismo italiano un parvenu nel salotto 
              buono delle aziende di famiglia nel mondo delle dinastie 
              industriali.
 
 La Fiat come potere politico ha sempre cercato una intesa con la 
              sinistra italiana, nella convinzione che in Italia una politica di 
              destra potesse essere fatta solo a sinistra. In realtà, ciò che 
              interessava alla dinastia era l'intesa con i sindacati. Quando 
              Gianni Agnelli fu presidente della Confindustria, stipulò con i 
              sindacati il "punto pesante" per tutti i livelli della scala 
              mobile, che appiattì il sistema salariale italiano sui livelli più 
              bassi e costituì un forte aggravio al costo sociale delle piccole 
              e medie industrie. E non a caso la Fiat offriva al Pci la più 
              forte riserva di classe operaia esistente ,ed il Pci aveva 
              bisogno, nei suoi anni ruggenti della classe operaia come del 
              pane: è naturale che ci fosse una intesa tra la dinastia torinese 
              ed la dinastia comunista,: una intesa tra gruppi di potere 
              strutturati come tali: disciplinati ed omogenei. Le due dinastie 
              avevano interessi comuni, mantenere, attorno all'auto, una 
              concentrazione operaia, la base sociale della dinastia comunista. 
              Questo era base del sostegno finanziario dello Stato alla Fiat, 
              attraverso Cuccia ed altrove sino al "regalo" dell'Alfa fatto da 
              Prodi, presidente Iri.
 
 E' uno scherzo della Provvidenza che la crisi mortale dei 
              postcomunisti e la crisi della dinastia torinese occupino insieme 
              le pagine dei giornali. D'Alema emarginato da Nanni Moretti è la 
              stessa cosa della Fiat che deve chiudere bottega, a meno che non 
              sia riassorbita dalla Opel con un negoziato intereuropeo o dalla 
              Ford se il gruppo americano esercita l'opzione: ma certo nessuno 
              dei due casi significa il mantenimento dell'attuale livello di 
              occupazione. Le possibilità che il governo Berlusconi ha di 
              trattare sono limitate, la Fiat ha fallito, nonostante il 
              privilegio politico e sociale di cui ha goduto come gestione 
              industriale: il gruppo torinese era frutto di una stagione 
              politica a cui la Fiat era consustanziale. La creatività della 
              dinastia torinese era finita quando il popolo delle partite Iva 
              prendeva il potere.
 
 Il governo Berlusconi si comporterà come il governo Schroeder, 
              punterà danaro pubblico o delle fondazioni nella crisi 
              dell'industria torinese? Sarebbero soldi buttati, il gruppo 
              dirigente della Fiat è stato pestato e trovato scadente, gli 
              Agnelli lo hanno buttato, secondo l'antica regola del capitalismo 
              familiare di privatizzazione dei profitti e socializzazione delle 
              perdite. Reinventare l'Iri nella stagione delle privatizzazioni, 
              la generosità di Berlusconi con gli ex nemici di ieri mi sembra 
              malposta. E certamente liberale non è. Speriamo in Bruxelles, 
              dispiace dirlo, ma è così. Il lato comico sta nel vedere un membro 
              del governo, Gianfranco Miccichè, dichiarare che,se non riprenderà 
              il lavoro a Termini Imerese, i parlamentari siciliani non 
              voteranno la finanziaria in nome della "sicilianità. Come Orlando 
              paladino, Miccichè ha bisogno di un Ruggero che, come dice 
              l'Ariosto, andò a cercare il senno del paladino sulla luna.
  
              
              29 ottobre 2002
 bagetbozzo@ragionpolitica.it
 |