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              Denatalità, l’Italia s’è persa il futuro 
              per stradadi Eugenia Roccella
 
 Fino agli anni Sessanta le strade e le case erano piene di 
              bambini. Magari meno idolatrati dai parenti, meno vezzeggiati dal 
              mondo della comunicazione, dei consumi e della pubblicità, ma in 
              realtà più centrali nella vita sociale e familiare. Non c’era il 
              Telefono azzurro, e l’idea corrente era che “uno schiaffone non ha 
              mai fatto male a nessuno”, però i figli erano l’orgoglio di ogni 
              coppia, la speranza su cui si poteva costruire una vita. Se gli 
              italiani sono stati storicamente così protesi verso il 
              miglioramento e il risparmio, disposti a tirare la cinghia e a 
              sacrificarsi, è stato perchè al fondo di questa capacità di 
              accumulazione agiva il desiderio di dare ai propri figli una vita 
              migliore. Il salto economico del dopoguerra, la veloce fuoriuscita 
              dell’Italia dalla povertà e il suo ingresso fra le maggiori 
              potenze industriali, sono certo dovuti al piano Marshall, a una 
              politica economica e sociale lungimirante, alle mille risorse 
              della creatività nazionale; ma anche, in grandissima parte, alla 
              volontà delle famiglie di far studiare i figli, di investire su di 
              loro e di costruire il futuro.
 
 Questo forte sentimento di solidarietà generazionale, così 
              tipicamente italiano, in pochi decenni si è sbriciolato. Il nostro 
              paese è agli ultimi posti nelle classifiche della natalità 
              europea, e anche il piccolo incremento registrato l’anno scorso si 
              è rivelato, alla luce degli ultimi dati Istat, illusorio. La 
              tendenza coinvolge l’intero mondo occidentale, creando un divario 
              tra paesi ricchi e poveri che si allarga in modo esponenziale e 
              allarmante. Come in ogni fenomeno di costume, la crisi è prima di 
              tutto culturale: si è ripetuto fino alla nausea che la 
              procreazione deve essere “responsabile”, cioè frutto di una scelta 
              precisa, non sottoposta al caso, e nei criteri che definiscono 
              questa responsabilità la condizione economica ha acquisito un peso 
              prioritario. La cultura laica si è affannata per anni a spiegare 
              che gli esseri umani sono troppi, che bisogna limitare le nascite, 
              e che i ruoli di madre e padre sono pesanti, difficili da assumere 
              e da svolgere senza adeguata preparazione.
 
 E’ un taglio profondo con il nostro passato. In tutte le civiltà, 
              la prole è considerata una forma basilare di ricchezza, un 
              investimento prudenziale e fruttuoso, e tale lo considerava anche 
              il mondo occidentale, fino a definire i proletari come coloro che 
              non avevano altra risorsa che la prole. Oggi invece i figli sono 
              equiparati a una sorta di consumo di lusso: sono carini ma 
              tremendamente costosi, sia in termini umani che economici, non si 
              sa mai dove piazzarli, e non è affatto detto che poi, da anziani, 
              ce li ritroveremo.
 
 Il fatto è che i figli, nonostante la tendenza a considerarli 
              soltanto dal punto di vista affettivo e privato, sono invece 
              elemento fondante della coesione sociale e della salute economica 
              di un paese. Che la denatalità influisca disastrosamente sui conti 
              del welfare, e in particolare sull’equilibrio della spesa 
              pensionistica, è stato ormai detto e ridetto. Ma ci sono altri 
              elementi di crisi che ne derivano, come la caduta di inventiva, il 
              deperimento della capacità di innovazione tecnologica e della 
              sintonia con le nuove tendenze: attitudini di cui le economie 
              postindustriali non possono fare a meno. L’invecchiamento della 
              popolazione vuol dire avere in circolo meno idee, meno gusto per 
              il rischio e l’avventura, meno energie fresche, meno conoscenze 
              all’avanguardia. Vuol dire ripiegamento, tendenza a privilegiare 
              la rendita e la sicurezza, meno lavoro, meno consumi e meno 
              investimenti.
 
 Se poi allarghiamo l’angolo di osservazione, dobbiamo riconoscere 
              che una società che non fa figli è una società in sofferenza. 
              Inutile spingere sul pedale della solidarietà, nazionale o 
              internazionale, quando si è spezzata la rappresentazione primaria 
              della solidarietà, quella tra generazioni. Se mancano i bambini 
              manca la speranza, la fiducia nel futuro, manca l’idea che 
              sostiene qualunque gruppo umano, cioè che la vita continua e va 
              avanti, perchè la continuità generazionale è la forma umana 
              dell’eternità.
 
 22 novembre 2002
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