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              Ricerca e formazione, le ragioni del 
              ritardodi Andrea Gumina
 
 Come spesso accade, quando si parla di investimenti in ricerca e 
              formazione nel nostro paese lo si fa in maniera faziosa. E’ vero 
              che la spesa per ricerca e sviluppo in Italia (includendo in essa 
              anche il finanziamento di quella che dovrebbe essere emanazione 
              degli Atenei) impiega una percentuale di Pil inferiore rispetto a 
              quello dei suoi principali competitor (Usa, Giappone e Far East, 
              Nord Europa); e per quanto riguarda il finanziamento del settore 
              scuola nel suo complesso è vero che ad esso venga attribuita una 
              quota di reddito nazionale di molto inferiore, in confronto al 
              resto dei paesi più avanzati. Detto ciò, vale la pena fare un paio 
              di altre considerazioni, che spesso in molti ambienti accademici e 
              scolastici si preferisce omettere. La prima di esse, è che a 
              parità di risorse impegnate, rispetto agli altri paesi, da noi si 
              spende molto di più in stipendi che in strutture: per di più, 
              questa sperequazione non è legata a emolumenti particolarmente 
              elevati per chi si distingue, quanto al soddisfacimento delle 
              necessità di un personale in soprannumero, spesso non 
              particolarmente qualificato, decisamente poco aggiornato. Il 
              secondo punto, è che il nostro sistema dell’istruzione risulta 
              particolarmente restio ad aprirsi alle esigenze e alle risorse 
              delle imprese, con evidenti ripercussioni sui livelli di 
              partecipazione al mercato del lavoro dei diplomati e dei laureati 
              e, non ultimo, sulle opportunità di finanziamento complessive.
 
 Il combinato disposto di questi elementi, rende già oggi 
              ingestibile il pianeta educazione, minando per di più il 
              mantenimento, nei prossimi anni, di un adeguato livello di 
              competitività del nostro sistema Paese. Tuttavia, anche davanti 
              all’evidenza, le battaglie che gran parte del mondo universitario 
              e della scuola sta facendo non sembrano indirizzate nella giusta 
              direzione. Non è utile, ad esempio, che il pubblico debba 
              sobbarcarsi l’onere di finanziare praticamente in toto l’intero 
              settore dell’istruzione: questo contraddice ogni logica di 
              sussidiarietà orizzontale, e, per di più, pregiudica seriamente 
              l’efficienza nella ricerca e nella formazione. Certo, è 
              altrettanto negativo il fatto che il governo non abbia ancora 
              prodotto lo studio di un sistema per importare il modello di fund 
              raising “anglosassone” in Italia (creando cioè significativi 
              vantaggi fiscali per chi finanzia la ricerca e l’educazione).
 
 Se il sistema dell’istruzione vuole affrancarsi dai suoi mali – 
              almeno da quelli finanziari – è il caso ripensi seriamente le sue 
              strategie interne: e si interroghi sul perché di un personale 
              eccessivo rispetto alle reali esigenze, spesso con una scarsa 
              specializzazione, sottopagato e alla prese con strutture 
              fatiscenti; sul perché sia ancora un tabù ipotizzare una 
              concorrenza tra tutte le istituzioni, pubbliche e private, 
              deputate alla formazione; sul perché sia “disdicevole” parlare di 
              criteri aziendali nella conduzione delle strutture di studio e di 
              ricerca; sul perché non si possa parlare di “numero chiuso” nelle 
              univerisità; sul perché il sistema imprenditoriale sia spesso 
              visto solo come un nemico da combattere. La soluzione più 
              razionale, invece, sarebbe quella di orientarsi verso un sistema 
              di finanziamento misto pubblico-privato, di vera concorrenza tra 
              scuole e tra Università, di miglioramento dei rapporti con il 
              mercato del lavoro e di riconoscimento di pari dignità tra gli 
              studi professionalizzanti e quelli più “umanistici”. Se la scuola 
              e l’università sapranno aprirsi al privato, facendosi interpreti 
              delle sue esigenze e sapendo sfruttare le opportunità che ne 
              derivano, e se l’esecutivo garantirà un pieno e libero accesso del 
              settore a forme di finanziamento non pubblico, enormi saranno i 
              vantaggi per i cittadini. Ci saranno finalmente più poli 
              d’eccellenza, la comunità (cioè tutti noi) spenderà meno in 
              stipendi e investirà di più sulla competitività del paese nel 
              lungo periodo, il lavoro dei tanti docenti e ricercatori “in 
              gamba” verrà premiato anche economicamente, gli sbocchi sul 
              mercato del lavoro saranno più diretti ed immediati.
 
 E lo stato? Lo stato dovrà definire una cornice che dia veramente 
              a tutti pari opportunità, e garantire alle imprese e agli enti 
              grant-maker (come le Fondazioni) piena libertà di erogazione e 
              corposi vantaggi fiscali, provvedendo direttamente solo al 
              sostentamento degli istituti o dei progetti di ricerca che per 
              motivi logistici o di particolare rilievo per la comunità, 
              necessitino di un ulteriore impegno finanziario pubblico. In 
              questo modo, le risorse statali verrebbero davvero allocate dove 
              c’è maggiore necessità – e non sparse a pioggia – utilizzando un 
              criterio meritocratico (dove nel “merito”, ovviamente, c’è anche 
              la rilevanza sociale dell’opera portata innanzi). Se questo paese 
              vorrà costruire opportunità per i suoi talenti più meritevoli, 
              sarà il caso che rifletta sulle contraddizioni interne del suo 
              sistema formativo e di ricerca: prima che possa davvero produrre 
              innovazioni, dovrà anzitutto innovare se stesso.
 
 17 gennaio 2003
 
 a.gumina@libero.it
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