Agnelli,
il declino di una dinastia
di Giancarlo Galli
Appena un lustro fa, gli Agnelli celebravano il centenario della Fiat, cioè dell’impero industriale divenuto il simbolo dell’Italia moderna. E la figura di “Re Gianni”, continuatore dell’avventura iniziata dal nonno Giovanni, troneggiava nelle apologetiche ricostruzioni giornalistiche: un gigante che sulla soglia degli ottant’anni, scomparso all’improvviso l’erede designato (il nipote Giovanni Alberto), riassumeva in sé il comando. Supremo, assoluto. Nominando nel Consiglio d’amministrazione, quale delfino in pectore, il ventenne Jaky Elkann, figlio della primogenita Margherita; mettendo in condizione di “lasciare” Cesare Romiti, da un quarto di secolo suo valido primo ministro; chiamando alla Corte di Torino l’italo-americano Paolo Fresco. Duplice parola d’ordine: “La Dinastia continua, la Fiat è proiettata nel Terzo Millennio!” In verità, come sempre alla vigilia dei terremoti, i segni premonitori non mancavano. Anzi. Cedimenti sul fronte produttivo
(bassa qualità, perdita di quote di mercato); vertiginosa crescita dell’indebitamento; sconcerto fra i manager e nello stesso ambito dinastico, con Umberto Agnelli che in polemica col fratello egemone sostiene l’urgenza di separare proprietà e gestione. Infine, dopo avere rifiutato ogni sorta di matrimoni, divenuta un’anziana zitella, la Fiat si fidanza con la General Motors. Gli americani, incantati dal fascino di Re Gianni, sarebbero disponibili ad un matrimonio. I loro analisti hanno valutato a 42 euro le azioni Fiat che in borsa sono quotate 35. Ma proprio Re Gianni decide di prendere tempo: vedremo, se ne avremo voglia, a partire dal 2004, intanto, scambiandoci partecipazioni… (quelle che adesso a Detroit hanno svalutato del 91 per cento).
Qual era la strategia del monarca? Con buone probabilità di approssimazione: 1°) cedere la Fiat il più tardi possibile poiché lo spettacolo del più blasonato imprenditore nazionale, nonché senatore a vita, che passava la mano agli amerikani, beh… 2°) il convincimento che Fiat-auto si sarebbe ripresa mentre, nel contempo, l’Impero si sarebbe “diversificato” (come nella filosofia in auge) entrando nei business dell’energia, delle banche, delle assicurazioni, delle telecomunicazioni, del turismo, accelerando il processo iniziato da Umberto in Ifi-Ifil. 3°) Il “sogno” di una Fiat, a questo punto, partner a pieno titolo nella General Motors per l’auto, e contemporaneamente, magari impossessandosi di Mediobanca, più che mai padrona d’Italia.
Il marchio di famiglia sulla casa torinese
Al di là delle valutazioni sull’intero progetto (sostanzialmente fallito), una constatazione: Fiat=Agnelli. Nel senso profondo dell’equazione. A prescindere dalle quote azionarie direttamente possedute (attualmente, circa il 36 per cento), a comandare è sempre stata la Famiglia Agnelli, e da quasi quarant’anni, Gianni Agnelli. Loro e soprattutto suoi, dunque, i meriti ma, nella fattispecie, le responsabilità della crisi. Eppure, per un timore reverenziale, per un complesso di sudditanza, Gianni Agnelli nessuno lo tira in ballo. Non per le precarie condizioni di salute, ma perché troppi, politici, intellettuali, sindacalisti, economisti, preferiscono mantenersi prudenti: un po’ come nell’autunno del 1942, con Mussolini ed il fascismo. Dovesse farcela, disponesse di qualche arma segreta?... Infine, con quale coraggio cominciare a chiedersi se quest’uomo, sicuramente mondano e carismatico, è stato davvero un grande imprenditore, un lungimirante condottiero, o non piuttosto colui che, posseduto da smisurato orgoglio, ha finito col condurre l’impero ereditato sul viale del tramonto? Una Torino degli Agnelli come la Vienna degli ultimi Asburgo, insomma.
Proviamoci. Non per denigrare: semplicemente, per meglio capire. Poiché se è vero che gli Imperi marciano sulle gambe degli uomini, sono pure gli uomini a portarli allo Zenith o al declino. La grande avventura di Gianni Agnelli in Fiat ha avuto inizio alla vigilia del Natale 1945, durante il tradizionale incontro di famiglia nell’avita dimora di Villar Perosa. A capotavola, una sedia vuota: Giovanni, l’artefice dell’azienda e della dinastia, s’è spento una settimana prima, mentre ancora pesava sul suo operato l’accusa di collaborazionismo. A settembre, sul primo numero de Il Politecnico di Elio Vittorini, s’era scritto che Agnelli e Valletta avevano incarnato “la forza cieca del capitalismo", al servizio del fascismo. Senonché Vittorio Valletta è già stato riabilitato, per precisa volontà di Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia, che ha messo in riga i “compagni torinesi”, nel convincimento che per salvare la Fiat occorreva ridarle una testa. Vittorio Valletta non ha mai voluto azioni, ed il pacchetto di controllo, attraverso l’Ifi, è equanimamente suddiviso fra gli eredi, con una “quota doppia” per Gianni, il nipote prediletto. Dubitare della volontà del defunto, è impossibile. Le “sorelline”, e quasi coetanee, Clara, Susanna, Maria Sole, sospingono Gianni che è bello, aitante, ha combattuto valorosamente. Lui rifiuta, e la sedia del nonno resta vuota. Nel giardino, i “ragazzi” (Cristiana diciottenne, Giorgio malaticcio sedicenne, Umberto undicenne), giocano. Natale, Capodanno, Epifania. Si racconta (probabilmente è leggenda), che dopo aver fatto baldoria a Montecarlo, indossando la divisa di tenente della Divisione Legnano, Gianni si presenti a Vittorio Valletta, a Mirafiori, ponendosi sull’attenti. Dialogo senza preamboli:
"I casi sono due: o lo fa lei il presidente o lo faccio io".
"Professore, lo faccia lei", risponde il tenente Gianni battendo i tacchi. Confermerà successivamente:
"La scelta fu mia. Scelsi così perché era giusto; e Valletta fece molto bene. Avevo ventisei anni, mi pareva inopportuno andare a fare il presidente sotto una specie di reggenza. Forse non era nemmeno un’esperienza che avessi tanta voglia di fare subito”. Inizia l’Era Valletta, e per vent’anni il dottor Gianni (l’Avvocato, nel dire e nell’immaginifico comune, anche se sempre s’è rifiutato di sottostare agli esami di procuratore), resterà vicepresidente.
Le vicende dell’èra Valletta
Sostenere sia stato Vittorio Valletta a render ciclopica la Fiat, è un’ovvietà. Motorizzazione di massa, autostrade, internazionalizzazione: dalla Polonia alla Jugoslavia a Togliattigrad. Lo incontrai, al di fuori dell’ufficialità protocollare, in due occasioni. In piazza Scala a Milano, nell’ufficio di Raffaele Mattioli, presidente della Banca commerciale; a Metanopoli, nel bunker di Enrico Mattei. Gli chiesi se credeva nel miracolo economico. Rispose fissandomi dal basso all’alto: “A quelli del progresso, miracoli laici…”. Rideva Mattioli, ed osai: “Dovesse identificarsi in un personaggio storico…”. Rise pure lui, cosa strana. Pochi mesi dopo, in quell’inizio degli anni Sessanta, da Mattei, quando gl’italiani s’esaltavano per l’autostrada del Sole, ben si ricordò:
"Sa che ho ripensato? Bismarck, è il mio modello. L’impegno nel servire la Dinastia ed il Paese, la sensibilità sociale…”. M’impartì una lezione lungo l’equazione impresa=ordine=sviluppo=progresso. Di Bismarck qualcosa sapevo, e buttai lì: “Sa cosa gli accadde col nuovo Imperatore…”. Non gradì, ma Mattei mi strizzò l’occhio.
Tragicamente scomparso Enrico Mattei, siamo alla primavera del 1963, Raffaele Mattioli m’invita per un caffè. Messaggio:
"A Torino accadono cose strane, vogliono fottere (sic) Valletta. Diamogli una mano…". Italo Pietra, prudente direttore del Giorno, non sa come la pensi Eugenio Cefis, nuovo dominus dell’Eni.
"Fai un salto, non sbilanciarti…”. A Torino, incontro Carlo Donat-Cattin, democristiano, Sergio Garavini, comunista aristocratico e ortodosso. Li conosco dai tempi delle elezioni interne in Fiat, con la decimazione dei sindacalisti-militanti. Tutto sostanzialmente vero: Gianni Agnelli sta falciando l’erba sotto i piedi a Valletta, un po’ stanco, un po’ malato. Però la resa dei conti non è prossima. Alloggiavo in un alberghetto a Porta Nuova, “Genova e Stazione”. Mi raggiunse di buon mattino una telefonata dell’Ufficio stampa Fiat. Possiamo esserle utili, ha bisogno di una macchina? Risposi stoltamente spavaldo: “La mia Ford Taunus va benissimo, se potessi incontrare il professor Valletta… Credo mi conosca per via di Bismarck…”. Parrebbe sia stata quella Ford ad indignarli: colleghi torinesi, mi fecero sapere che, massima disgressione, era tollerato il possesso di una Lancia, l’azienda di Chivasso sulla quale gli Agnelli avevano già messo gli occhi. Comunque, che la stella di Vittorio Valletta stesse impallidendo, era evidente. Frantumandosi, in un Consiglio d’amministrazione, allorché udita la relazione del presidente, Gianni sentenzia: “Non sono d’accordo”.
Valletta non è uno da lasciarsi mettere i piedi in testa; nemmeno dal delfino che serve con devozione. E poi, esiste davvero un “delfino”?, ha da pensare. La Fiat non è più un principato, una monarchia… . Quale errore! Va a Roma dall’amico carissimo Giuseppe Saragat, presidente della Repubblica, che lo invita a riflettere: gli offriranno onori, uno scranno di senatore a vita, lasci perdere: nessuna “fratellanza” può impedire che i “padroni” impongano i loro voleri.
Nella primavera del 1966, Gianni Agnelli è proiettato al vertice di un impero in piena espansione. La produzione di auto ha raggiunto il livello record di un milione e 151 mila unità. La Fiat è la quinta industria automobilistica mondiale, preceduta dalle “Tre Big” Usa (General Motors, Ford, Chrysler) e, in Europa, dalla Volkswagen. In Italia, la quota di mercato sfiora l’80 per cento. Appena insediatosi, con la frase famosa: “Ciò che fa bene alla Fiat, fa bene all’Italia!”.
La Fiat come il nuovo Piave dell’Italia produttiva e industriale
Che sia vero, mai è stato dimostrato; ma un po’ tutti abbiamo finito col credervi. Il timore reverenziale, l’opportunismo ipocrita, avendoci offuscati i sensori. Peraltro, in una Torino che i disordinati flussi migratori dal Sud hanno ulteriormente ingrigito, il “cambio della guardia” a Corte è guardato in controluce, in un mix di scetticismo e realismo. Che Valletta dovesse venire giubilato a presidente onorario, era scontato, ma la possente macchina Fiat, ormai “Istituzione”, era perfettamente oliata, e di rara efficienza. Sotto la guida di quel rigido e tenace esecutore che era l’ingegner Gaudenzio Bono. E poi, che potrà mai fare di rivoluzionario quel quarantenne allevato in una culla dorata e nel cui curriculum vi sono amori, mondanità, battute del tipo
"Gli intellettuali mi annoiano, i calciatori mi divertono"? a spiegare la passione per la
Juventus.
Tutto sbagliato. Gianni-presidente non sarà uno svagato magnate o, come scrisse Eugenio Scalfari sull’Espresso l’
"Avvocato di panna montata". L’eccezionale metabolismo che ha cancellato i bisogni del sonno, gli consentono di essere sempre presente, attentissimo, a Torino e New York per gli affari, allo stadio, a St. Moritz e sulla Costa Azzurra per quel ruolo, apparentemente mondano, in realtà di alta diplomazia che lo pone a contatto con l’establishment planetario. Una Fiat che, sulle orme di Valletta, dopo aver dettato ai politici la “politica economica” ora, scomparso Mattei, (filo arabo e terzomondista), riavvicina l’Italia agli Usa. Una sorta di Genio multiforme che incanta e seduce persino “a sinistra”, dai sindacati al Pci, che continueranno a considerare (errore già commesso da Gramsci, non a caso torinese d’adozione), la Fiat quale “laboratorio politico”. In pochi rendendosi conto che Re Gianni fa i “suoi affari”, principalmente. Con una concezione del capitalismo non liberal-liberista, ma monopolista.
"Liberati della concorrenza", gli aveva insegnato il nonno. E lui riuscirà per la cedevolezza di tanti politici, ancora sino a poche stagioni fa usi recarsi a Torino per ricevere la benedizione!, a inglobare nell’Impero prima la Lancia e poi l’Alfa Romeo, Innocenti, Autobianchi, Maserati, Ferrari. Ad eliminare dal Piemonte la Gazzetta del Popolo, secolare concorrente de La Stampa, quotidiano di eccezionale, storica, apertura culturale, a patto non si parli di Fiat.
Monarca e regista con propensione all’onnipotenza, dominatore della Confindustria della quale sarà anche presidente firmando coi sindacati uno sciagurato patto sulla scala mobile, ha tuttavia un tallone d’Achille: i “numeri”. Una volta, Enrico Cuccia ebbe a dirmi:
"Di uomini come il signor Gianni Agnelli ve ne sono pochi. Conoscesse l’aritmetica, sarebbe perfetto". Si riferiva, il dominus di Mediobanca, a quegli anni Settanta, allorché la Fiat non aveva i soldi per pagare le tredicesime. E Cuccia spedì a Torino Cesare Romiti, dopo l’infelice esperienza di Carlo De Benedetti, i crescenti screzi fra Gianni ed Umberto, inascoltato “grillo parlante”. Ritenendosi Imperatore per volontà dinastica, innanzi ad ogni emergenza Gianni sbottava:
"Ne abbiamo passate tante, passerà anche questa!".
Tutto pareva dargli ragione. A sommo scorno di qualche raro, onesto profeta, la Fiat cadeva e risaliva, un po’ come accade ai pupazzi del Luna Park. Non solo: Cesare Romiti, con la marcia dei quarantamila, sgominò il sindacalismo ruggente, la contestazione ed il terrorismo. Manager quali Vittorio Ghidella e Giorgio Garuzzo, progettarono vetture di tutto rispetto. In verità, i bilanci di Fiat-auto sempre viaggiavano sul filo del rasoio, ma l’Impero assorbiva. Ed in Gianni-Imperatore, andava rafforzandosi un altro insegnamento del nonno: le nostre fortune nascono dall’intuizione fordiana dell’automobilismo di massa, le piccole cilindrate… Valletta aveva ben interpretato, con Balilla, Topolino, poi Cinquecento e Seicento. Il nipote dovette pensare: puntiamo su India, Asia, Sudamerica… Incredibile: Lui che, sovente con a fianco il carissimo ed amatissimo Luca di Montezemolo, non si perde (negli ultimi tempi in Tv), le entusiasmanti imprese della Ferrari, mai ha pensato di far concorrenza alla Bmw. E dire che quando si prese per un tozzo di pane l’Alfa Romeo sottraendola alla Ford, ad Arese, oggi in decomposizione, si producevano più auto che in Bmw, a Monaco di Baviera.
Nel Dna che unisce Giovanni a Gianni Agnelli, una molecola ha però fatto le bizze. Mentre il Fondatore riteneva che ogni monarchia si fonda sul binomio Re+Cancelliere, il successore è allergico alle ombre.
E' affezionato, ci mancherebbe, al “fratellino” Umberto, però… Romiti? Bravissimo, però… Ghidella, Garuzzo, Cantarella, Testore. Dov’è finita la “continuità”? Col trascorrere delle stagioni, le disgrazie familiari (la tragedia del figlio Edoardo lo porterà ad interrogarsi sul suo “ruolo paterno”), finisce col rinchiudersi in se stesso. Complice la malattia che avanza, ad irrigidirsi.
"Anch’io chiedo agli dèi di prorogarmi i termini, ma non bisogna esagerare", mi disse Cuccia poco avanti la morte.
"I numeri vanno rispettati…". Erano quelli dei debiti del Gruppo, di una Fiat in ritirata ovunque. Gianni, con stile napoleonico, ruppe con Mediobanca, sinceramente addolorando Cuccia. Diede il benservito a Romiti, chiamò a sé Paolo Fresco.
Nel lungo incontro a tu-per-tu, in un pomeriggio di fine luglio 1997, Gianni Agnelli mi diede una forte impressione di determinazione. Stavamo al settimo piano di corso Marconi, alla vigilia del trasferimento al Lingotto.
"Ce la faremo", disse e ridisse. "Molti generali dubitano, lo so, ma io ho in pugno la situazione…". Parlammo di reciproche ed assonanti malattie che ci affliggevano, della morte. Confidandomi:
"Ho un unico rimpianto: una carica del Savoia cavalleria, a spada sguainata!".
Quell’immagine quasi mi perseguita, poiché Chi la dipingeva ne pareva posseduto. L’ “Ultima carica”, i cavalli contro i panzer. Dissennato quanto nobile disegno, forse nella speranza che in soccorso giungano divisioni, armate. Può il governo italiano restare insensibile, possono i sindacati… A ben vedere lì Re Gianni s’è trincerato, riuscendo a far suonare i tamburi dell’italico orgoglio: la Fiat è il Piave dell’Italia industriale! Purtroppo, spiace dirlo, e sebbene l’appello (ovviamente trasmesso non dal sovrano bensì da trombettieri di ventura), qualche emozione abbia suscitato, è poco credibile. Per esserlo, la Famiglia Agnelli dovrebbe spedire in prima linea i figli migliori (cioè i miliardi di euro gelosamente custoditi nelle sue cassaforti), ricapitalizzando la Fiat ed assumendone, magari con un’Opa il totale controllo. Invece no: Re Gianni continua a sostenere, per bocca dei suoi ministri coi quali è in costante contatto nonostante la malattia, di credere nell’automobile, e nel rilancio dell’azienda. Verifichiamo però i comportamenti. In Banca d’Italia, è stato condotto un riservato studio dal quale risulta che negli ultimi anni gli investimenti in Fiat-auto sono stati un quarto ed un decimo di quelli dei concorrenti francesi, tedeschi, americani, giapponesi, coreani che infatti vanno molto meglio, cavalcando con dinamismo ed innovazione le difficoltà congiunturali.
Nessuno stupore, allora, per i deludenti risultati, con la disaffezione della clientela e l’appannarsi dell’immagine. Altra era la strategia: dar l’impressione di resistere ad oltranza sulla trincea del core business (l’auto fornisce circa il 40 per cento del fatturato del Gruppo), facendosi prestare miliardi di euro dalle banche, e nel frattempo dando carta bianca a Paolo Fresco per muoversi lungo altre direttrici. A parte il marchiano errore di una serie di acquisizioni estere (Case, Kobelco, Pico), delle Opa su aziende già sotto controllo e quotate in Borsa (Magneti Marelli, Toro assicurazioni, Comau), quando Piazza Affari era ai massimi livelli, è impossibile scordare il fracassante ingresso nel settore elettrico con la scalata del luglio 2001 alla Edison, in complicità coi francesi di Edf e dando scacco a Mediobanca.
L’Italia del terzo millennio può fare a meno della Fiat?
Verità è che Gianni Agnelli, il gran regista, coi mezzi a disposizione, non cospicui ma nemmeno irrilevanti grazie all’influenza che continua ad esercitare sul sistema bancario, pensa a garantire la continuità dell’impero in aree più sicure. Quanto all’auto, su un versante assicura ai politici, al governo, sia pure informalmente col prestigio di senatore a vita da quasi tutti, Ciampi e Berlusconi e Fassino e D’Alema, tenuto in massimo rispetto, che
"non verrà abbandonata, ma al contrario…"; sull’altra, almeno sino al fatidico 11 settembre, illudendosi (non è peraltro il solo), che la recessione stia per lasciar posto ad una nuova fase di crescita, tergiversa con la General
Motors. Sofisticata strategia che pur somigliando più a quella di un alchimista finanziario che ad un vero disegno imprenditoriale, non manca di punti di forza. Eccetto l’auto, la Fiat resta una solida entità: e se dall’India al Sudamerica i vecchi modelli trovassero sbocco? I trionfi della Ferrari dovrebbero far da traino… C’è di più. Anche se in Italia in pochissimi se ne rendono conto, sui media prendono a circolare interrogativi, del tipo: è bene vendere la Fiat alla General Motors? Che ne sarà di un simbolo, di un patrimonio nazionale?
E' il refrain d’interessato nazionalismo che negli anni Venti Giovanni Agnelli, adulando il Duce, impedì alla Ford di costruire uno stablimento in Italia; che negli anni Ottanta indusse Craxi e Prodi a quasi regalare l’Alfa Romeo a Torino anziché alla Ford, nonostante quelli di Detroit avessero messo sul piatto dollari sonanti.
Avevano previsto “quasi tutto”, Re Gianni ed i suoi strateghi.
"Bisogna avere un po’ di fortuna", m’aveva detto citando Machiavelli, col quale doveva avere dimestichezza, forse troppa. Scordando uno di quei princìpi che si studiano in ogni accademia militare: “La riserva di manovra”. Evidentemente, quel giorno, alla scuola di Pinerolo, il tenente Gianni era assente, o distratto. E nel dicembre 2001 il fronte-auto crollò. Dopo poche settimane, viene sacrificato il general Cadorna di turno: Paolo Cantarella. Venti milioni di liquidazione e via… Ma non c’è un Armando Diaz di ricambio, nonostante il generoso fratellino Umberto salga in prima linea, ponga a disposizione il bravissimo Gabriele Galateri di Genola (virtuoso finanziere ad Ifi-Ifil con un unico neo: aver sempre lavorato lontano dal rombo dei cannoni). Cadono invece bombe, su Torino: l’inquietudine delle banche che chiedono garanzie, smobilizzi per il rientro dai debiti. Nemmeno i banchieri resistono al fascino di Re Gianni: concedono tre miliardi di crediti in cambio di una conversione in azioni Fiat qualora i programmi di risanamento non vengano rispettati! Più pragmatico, in Mediobanca, Vincenzino Maranghi: compra il 36 per cento della Ferrari, stringendo la mano ad Umberto Agnelli dopo trent’anni di pubblica inimicizia. Intanto, Paolo Fresco, insondabile figura di presidente del quale s’ignorano le effettive deleghe nel Gran Consiglio della Famiglia Agnelli, va in pellegrinaggio in Usa, forte delle ascendenze italoamericane, del passato di vicepresident alla General
Electric: "Volete comprare subito?". Quelli della GM replicano, poco garbati, svalutando del 91 per cento la loro quota in Fiat-holding, scatola cinese collocata in quel di Amsterdam. Intanto, ma in troppi evitano di vedere: nella Juventus è entrata col 7 per cento la Libia di Gheddafi. Altro 2 per cento in Fiat-Fiat.
In quel di Zurigo, laddove gli gnomi non sono boccaloni, tant’è che è difficile trovare traccia di azioni Fiat/Ifi/Ifil in portafogli scudocrociati (che sono quelli dell’Alta Finanza mondiale), s’anticipa: gli Agnelli riusciranno a convincere gli italiani che bisogna salvare la Fiat, la Patria.
Esattamente quel che s’è tentato di fare. Da mesi, Re Gianni è sempre meno fra noi, impegnato nella lotta contro il cancro più a New York che qui, dove gli oncologi non fanno certo difetto, per arte e competenza. Il che, diciamolo con franchezza, non è piaciuto agli italiani. Forse, avesse abdicato… S’assiste invece ad una “Torino degli Agnelli” che fra i balbettamenti degli amministratori locali echeggianti lo sconcerto dei politici di Roma-capitale, butta là, con una determinazione sconfinante nella protervia la “ristrutturazione”. Ottomila dipendenti “fuori”. Qualcuno prova a far di conto: uno su cinque! Ma non erano trecentomila, nell’epoca di Valletta, dell’incoronazione di Re Gianni, i lavoratori Fiat? Così realizzando: quella degli Agnelli-Fiat non è più un’armata: logore divisioni che ripiegano da Termini Imerese ad Arese. Dramma sociale, certo; soprattutto tramonto di una Dinastia imprenditoriale. La quale Dinastia, sotto sotto, è impegnata a salvare il salvabile di un centinaio di ”famigli” che campano di cedole, consulenze, prebende varie.
Obbligano a riflettere un paio di punti del piano di ristrutturazione: chiusura di Termini Imerese (Sicilia) ed Arese (Lombardia). Casuale trattarsi delle Regioni dove il berlusconiano Polo delle Libertà ha le roccaforti elettorali? Infatti il premier s’impegna più di chiunque a ricercare una soluzione, dicendosi fra l’altro convinto che la Fiat tornerà a produrre
"auto bellissime". Se acuni alleati, An e Lega, non lo fermassero, non sarebbe alieno ad esaminare l’ipotesi di un “pubblico salvataggio”. Senonché da riservati sondaggi demoscopici, risulta che la stragrande maggioranza degli italiani ritiene di “aver già dato” alla Fiat. Finito il tempo di privatizzare gli utili e pubblicizzare le perdite!
La Fiat e la sua crisi nell’epoca post-assistenziale
E' un coro quasi generale: chi ha sbagliato paghi, gli Agnelli pongano mano al portafoglio. Lo si sente fra il “popolino”, indignato per gli atteggiamenti della Dinastia torinese, in Banca d’Italia, in Confindustria, negli ambienti manageriali e nelle più altre sfere ecclesiali. Il 24 novembre, Famiglia Cristiana, settimanale da un milione di copie, spesso interprete del pensiero delle Gerarchie cattoliche sui temi che scottano, sotto il titolo “Troppo in Famiglia”, intervista Gianfilippo Cuneo, fra i massimi esperti mondiali in problematiche aziendali.
"Fatte uguali a cento le cause di un declino come quello della Fiat, il vincolo di controllo della Famiglia è responsabile per il 50 per cento…". E l’altra metà? Al rifiuto di stringere alleanze internazionali, incalza Cuneo. Poiché sappiamo che fu Re Gianni a far sfumare ogni possibile matrimonio per non rinunciare al comando, la responsabilità appare totale.
Si eviti pertanto d’inseguire soluzioni pasticciate, fumose, ponendo gli Agnelli innanzi a scelte precise.
Se davvero “credono” nella loro creatura un tempo prediletta, ora ingombrante, si comportino da azionisti di riferimento ed egemoni, come hanno sempre preteso di essere. Altrimenti, dopo aver sanato i debiti, passino la mano e non cerchino di restare in sella con le chicane. L’Italia del Terzo Millennio può fare a meno della Fiat-auto. Il tanto retoricamente decantato “patrimonio tecnologico ed umano” è stato improvvidamente dissipato: esistesse, non saremmo a questo punto. C’era, questo patrimonio, ma decenni fa. Ora, siamo di fronte ad un nodo vieppiù aggrovigliato che, per doloroso che sia, bisogna avere il coraggio di tagliare alla maniera gordiana.
31 gennaio 2003
(da
Ideazione 1-2003, gennaio-febbraio)
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