Ma Fiat-auto potrebbe ancora essere rilanciata
di Francesco Forte
Mentre la famiglia degli ex reali di Casa Savoia rientra in Italia e, presumibilmente, tornerà a soggiornare nell’amata Torino, tramonta il regno sabaudo della famiglia Agnelli, che, iniziato negli anni Sessanta, era stato preparato anche esso, da un “grand commis”: non il Conte Camillo Benso di Cavour, con l’aiuto di Garibaldi, ma il professor Vittorio Valletta, con l’aiuto dei governi repubblicani di centro e centro-sinistra, fautori del nascente neo-capitalismo, di cui l’utilitaria Fiat era, anche in senso figurato, il veicolo di massa. Anche nel caso del tramonto della monarchia sabauda degli Agnelli, l’origine sta, come presto vedremo, in un’abdicazione. Però con uno scenario un po’ diverso. Anziché la fuga da Brindisi di re Vittorio e la sua successiva rinuncia al trono, a favore del figlio, nel caso della seconda monarchia sabauda vi è la rinuncia a investire nell’auto e, successivamente, la possibile rinuncia alla proprietà di Fiat-auto, mediante un’opzione a favore dell’americana General Motors (nella famiglia Agnelli vi è, a ben guardare, una cospicua quota di sangue americano). Anche nel caso degli Agnelli l’esaurimento della grande missione avviene alla terza generazione, con l’erede oramai molto anziano che reca anche il nome del fondatore della storica casa: e che non sarebbe disposto alla rinuncia, perché l’auto era il cuore del suo regno, ma è forzato a farla. Qui finisce l’analogia. Ma resta il fatto che ciò che sta accadendo, nel caso della Fiat, non è puramente il tramonto di una proprietà familiare di una grande impresa automobilistica (una parte solo dei possessi della famiglia), è il tramonto – probabile – di un potere politico: ed è sotto questo profilo che si spiega la rabbia incredula, l’ira, l’angoscia, con cui la sinistra italiana di ascendenza comunista-azionista e catto-comunista che con questa famiglia, aveva intrecciato il suo ammodernamento e il suo potere, politico, culturale, finanziario e industriale, si oppone alla fine del regno e al subentro degli americani.
Il disimpegno progressivo della Fiat nel settore dell’auto ha origini negli anni Ottanta, quando l’amministratore delegato Vittorio Ghidella, creatore della Panda con cui la Fiat aveva iniziato la sua riscossa degli anni Ottanta, venne sconfitto e dimissionato precisamente sulla grande scelta strategica se concentrare le risorse in questo settore o diversificarle. Il 48enne Vittorio Ghidella aveva prima occupato un posto di grande responsabilità alla Riv-Skf e all’inizio del 1979 era stato nominato amministratore delegato della Fiat-auto. A Ghidella viene riconosciuto il merito per il risanamento della divisione auto negli anni Ottanta. Ma nello scontro fra la sua strategia basata sull’auto e quella di Romiti in cui l’auto era solo una componente del disegno complessivo, prevalse Romiti. Ghidella, dimissionato, sparì dalla scena industriale italiana e cominciò la nuova politica di contenimento dell’investimento nell’auto. Questo non avveniva nell’ambito delle produzioni motoristiche o meccaniche o elettromeccaniche, come nel disegno storico della Fiat degli anni Trenta, non era guidato con una logica tecnologica o di marketing, ma da una logica di convenienza finanziaria di conglomerato. La linea “non solo auto”, allora impersonata da Cesare Romiti, per altro non comportava un disimpegno dall’auto, ma una strategia di bilanciamento. Negli anni Novanta la competizione nell’industria dell’auto sui mercati occidentali si è fatta più serrata. L’invasione in Europa dei prodotti del Sud-Est asiatico è stata bilanciata da Fiat con un ritorno alla strategia originaria di attenzione ai mercati emergenti. Gli stabilimenti in Brasile e Argentina sono stati ampliati, è stata lanciata la Palio, una world car studiata per adattarsi a usi diversi e da introdurre in diversi mercati. In poco tempo la Fiat è diventata il maggior produttore in Brasile, Argentina, Polonia e Turchia. Tuttavia, la Fiat non reagiva sul mercato europeo, non impostava nulla su quello degli Usa ove pure Alfa Romeo e Lancia, avrebbero potuto avere un buon successo. La Fiat non aveva e non ha la cultura del made in Italy, non riusciva e non riesce a cogliere le profonde modificazioni che erano in atto nel neo-capitalismo. I suoi stessi giornali le appannavano la visuale criticando la “Milano da bere craxiana”, l’economia del lusso, il berlusconismo televisivo con l’acidità di suocere moraliste del partito d’azione e con echi dell’anti-consumismo di Berlinguer. Nella cultura della Fiat vi era, e persiste, una concezione ingegneristica che punta sull’automatizzazione del processo produttivo di un prodotto studiato a priori, senza considerare come determinante il punto di vista del pubblico, con lo styling, il marketing e la pubblicità come aggiunte posticce.
Il processo di riduzione del ruolo dell’auto nella strategia del gruppo si accentuava dal febbraio 1996 quando Gianni Agnelli, che ancora considerava l’auto come il cuore dell’impero industriale Fiat, lasciava la presidenza di Fiat-holding, assunta dallo stesso Romiti, rimanendone presidente onorario. Prevalevano gli altri membri della famiglia, che non avevano la medesima cultura industriale o la stessa identificazione di Gianni con l’auto. Va ricordato che Edoardo Agnelli, figlio di Giovanni e padre di Gianni, ebbe sette figli che sono Clara (1920), Gianni (1921), Susanna o Suni (1922), Maria Sole (1925), Cristiana (1927), Giorgio (1929-1965), e Umberto (1934). Inoltre, Gianni Agnelli ha una figlia, Margherita, con otto figli. Accanto alla famiglia Agnelli nella proprietà di Fiat vi sono anche i Nasi e i Camerana, dunque il gruppo di controllo, alla terza e quarta generazione è oramai composto da un numero elevato di azionisti, interessati al dividendo. Le società che componevano il Gruppo venivano organizzate in dieci Settori di attività: Automobili, Macchine per l’agricoltura e le costruzioni, Veicoli industriali, Prodotti metallurgici, Componenti, Mezzi e Sistemi di produzione, Aviazione, Editoria e Comunicazione, Assicurazioni e Servizi. Con un fatturato di oltre 57 miliardi di euro, alla soglie del 2000, Fiat, pur con la sua cultura industriale invecchiata e sdegnosa di apporti esterni, era uno dei principali Gruppi industriali multinazionali sui mercati globali: operava in 61 Paesi attraverso 1.063 società che impiegano oltre 223.000 persone, di cui oltre 111.000 all’estero. Gli stabilimenti di produzione sono 242 (di cui 167 all’estero) e 131 i centri di ricerca e sviluppo (di cui 61 all’estero). Al di fuori dell’Italia veniva realizzato il 46 per cento del valore della produzione ed era realizzato oltre il 67 per cento del fatturato.
Negli ultimi anni, il Gruppo Fiat ha perseguito la crescita nei servizi di pubblica utilità e nel settore dei servizi finanziari di banca e assicurazioni come parte preponderante del proprio interesse, riducendo sempre più il suo impegno nel settore dell’auto. Oramai non si trattava di “non solo auto” ma di “non più auto”. Nel 2000 essa firmava un accordo con General Motors, in cui questa, in cambio del 20 per cento del pacchetto azionario di Fiat-auto si impegnava a rilevarne nel 2004 l’intero pacchetto azionario, ai prezzi di mercato, allora vigenti, qualora Fiat-holding avesse deciso di esercitare un’opzione in questo senso. Intanto aveva acquisito una quota importante di San Paolo Imi e ingaggiava una lotta, poi non coronata da successo, per l’acquisizione, mediante la consociata assicurativa Toro, della società di Assicurazioni Fondiaria, già appartenente al gruppo Ferruzzi Montedison e finita poi sotto l’ala di Mediobanca. Fallito, nel 1999, il tentativo di controllo di Telecom Italia, mediante l’acquisto di un pacchetto di minoranza, che essa sperava di poter gestire in accordo con la quota residua dello Stato nell’impresa, nel luglio 2001 la Fiat è entrata come uno dei principali partner – con Electricité de France, Carlo Tassara Spa, Banca di Roma, Banca Intesa-Bci e Nhs (San Paolo Imi) – in Italenergia Spa, acquistando il 46 per cento del capitale ordinario. La società, a seguito della conclusione di due Offerte pubbliche di Acquisto, ha raggiunto il controllo esclusivo di Montedison Spa, società controllante di Edison Spa, il più importante operatore privato nel settore dell’energia elettrica in Italia.
Per comprendere l’entità del disimpegno progressivo di Fiat-holding dal settore auto è sufficiente considerare il piano industriale di Fiat-auto 1993-1997 in confronto a quello 1998-2002. In Piemonte l’investimento passa da 22.385 miliardi di lire nel quadriennio 1993-1997 a appena 9.500 miliardi nel quadriennio 1998-2002. Nel Mezzogiorno + Arese l’investimento subisce solo una lieve flessione, ma poiché la spesa per la progettazione concentrata in Piemonte è passata da oltre 10 mila miliardi a solo la metà, è chiaro che anche questi altri stabilimenti subiscono un impatto negativo. Assurdo è poi il piano per l’estero ove la Fiat, posizionata con fabbriche in Brasile, Argentina, Venezuela, Polonia, Turchia, Russia, India e Sud’Africa dimezza i propri investimenti, da 12.500 a 6.000 miliardi. E si noti che l’apertura di fabbriche Fiat in Russia è del 1998 e in India e Sud’Africa è del 1999. Dunque, mentre si ampliava l’attenzione a nuovi mercati ricchi di avvenire, si riduceva l’investimento globale internazionale oltreché quello domestico nella progettazione di nuovi modelli, che servono per presentare una gamma di prodotti aggiornata. Va anche notato che gli ordini di grandezza dell’investimento di case rivali come Volkswagen e Renault sono di un ordine di grandezza doppio di quelli di Fiat nel piano quinquennale 1998-2002. (vedere la tabella nella pagina accanto)
Si tratta di dati che erano noti agli organismi sindacali e alla classe politica al potere in Italia dall’epoca della vittoria dell’Ulivo, a cui la Fiat, con i suoi organi di stampa e con la Confindustria di cui aveva il controllo, aveva dato una mano non indifferente. Ma i governi da Prodi in poi, occupati a “entrare in Europa”, non videro l’enorme divario che questo determinava fra la Fiat e le case sue concorrenti, in un periodo in cui essa avrebbe dovuto accrescere la presenza sui mercati esteri per compensare l’erosione della quota in Italia conseguente alla progressiva liberalizzazione del mercato. Ed avrebbe dovuto rispondere con una agguerrita occupazione di nuovi segmenti di mercato, come quello delle 4 ruote motrici e delle multi utility, alla concorrenza nell’area domestica. I governi dell’Ulivo invece compensarono il disimpegno della Fiat dall’auto con il lenitivo della rottamazione.
La crisi finanziaria e industriale di Fiat-auto nel 2002
Prima della crisi del 2002, il gruppo Fiat aveva già grossi problemi finanziari, a causa del livello eccessivo dei suoi debiti lordi, che si riduceva, considerando l’attivo, che per altro era in gran parte costituito da crediti a breve termine di Fidis, la finanziaria delle vendite di auto a rate. Vi era, già nella primavera del 2002, il rischio di un degrado del debito di Fiat-holding, da parte degli istituti di valutazione (rating) se essa non avesse provveduto a diminuire il suo onere debitorio. Su questa situazione finanziaria estremamente delicata, che gli organismi sindacali con straordinaria baldanza sembrano voler ignorare, con il loro comportamento barricadiero che ricorda quello della seconda metà degli anni Settanta, cui pose fine la marcia dei 30 mila, si è innestata la crisi in cui il gruppo automobilistico torinese è piombato, in modo quasi inatteso, nel 2002. La gravità di tale crisi risulta dal fatto che Fiat-auto ha perso, nel conto economico, 1,163 miliardi di euro nei primi nove mesi dell’anno. A settembre essa aveva registrato una perdita netta trimestrale di 413 milioni di euro mentre, nello stesso periodo dello scorso anno, registrava un utile di 160 milioni di euro. Il fatturato consolidato di gruppo subiva nel settembre una flessione del 4,4 per cento a 11,987 miliardi di euro, contro il -5,4 per cento dall’inizio dell’anno a 40,742 miliardi di euro, flessione in gran parte dovuta alla riduzione di volumi di vendita di Fiat-auto (-10 per cento), mentre l’indebitamento netto ammonta a 5,84 miliardi di euro. Va anche aggiunto che Fiat-holding non può contare su un andamento molto buono dei settori diversi dall’auto per assorbire le perdite di questo comparto. Infatti, i settori diversi da Fiat-auto – Cnh (macchine agricole e per il movimento di terra), Iveco, Magneti Marelli, Teksid, Comau, Fiat avio, Toro Assicurazioni, Business Solution e Ferrari – hanno registrato nel terzo trimestre 2002 un andamento “in linea con le previste difficili condizioni del mercato”. Il fatturato complessivo di questi settori è stato di oltre 7,3 miliardi euro, con un risultato operativo “in sostanziale pareggio” contro i 155 milioni di un anno prima. Per il quarto trimestre è attesa una riduzione delle perdite che a livello operativo dovrebbero attestarsi a 500-600 milioni di euro su tutto il 2002 per l’intero Gruppo. Il “miglioramento” dovrebbe dipendere dal miglioramento del bilancio nei settori extra-auto, dalle azioni di contenimento dei costi e di rilancio nel settore auto perché il mercato mondiale dell’auto nell’immediato non è destinato a migliorare e quello italiano ha già beneficiato di incentivi temporanei i cui effetti di stimolo sono destinati a terminare.
Nei primi nove mesi dell’anno le perdite a bilancio hanno sfiorato il miliardo di euro (976 milioni di euro per l’esattezza) e hanno intaccato per oltre un terzo il capitale sociale. La Fiat, in conseguenza di questo disastroso andamento, è stata costretta a ricapitalizzare per 2,5 miliardi la società Fiat-auto, in cui Gm ha il 20 per cento del capitale. L’ aumento di capitale che è stato effettuato per Fiat-auto, per rispondere all’obbligo di legge, per cui quando una società perde oltre un terzo del suo capitale, occorre ricostituirlo, almeno sino al precedente valore, è consistito nello spostamento di quote di capitale di altre società del gruppo, che, a loro volta, non richiedevano modifiche legali nel loro capitale sociale. Con queste modalità, a Fiat-auto non sono giunte risorse fresche, ma si è tappato un buco, diminuendo la forza finanziaria complessiva del gruppo. General Motors con una mezza sorpresa ha annunciato che non parteciperà all’aumento di capitale di Fiat-auto. “Come si vede dalle comunicazioni della Fiat – ha detto il portavoce della casa di Detroit – l’aumento di capitale è all’interno del Gruppo, e non ha niente a che vedere con General Motors. Gm non partecipa a quest’aumento’”. General Motors si è esclusa dall’aumento di capitale di Fiat-auto con un debole argomento pseudo tecnico: non era il caso di partecipare a un’operazione effettuata dal capo gruppo Fiat per vie interne. In questo modo la quota di General Motors in Fiat risulta diminuita dal 20 per cento a un importo non molto superiore al 12 per cento. Perché questa decisione? Probabilmente Gm pensa che se la Fiat eserciterà la sua opzione di vendita a Gm della società auto, il prezzo unitario che pagherà, per ogni azione, in base al valore di mercato di allora, sarà inferiore a quello che avrebbe dovuto sostenere ora, per mantenere la propria quota. E nel caso che Fiat non esercitasse la sua opzione Gm rimarrebbe con una quota minore del 20 per cento, senza che questo sia per essa un problema. Insomma, il futuro eventuale acquirente non sembra entusiasta di questa evenienza. O, forse, per ragioni tattiche, vuol apparire poco interessato, appunto per tirare sul prezzo.
Fiat aveva annunciato che la ricapitalizzazione “non avrà alcun impatto sulla posizione finanziaria complessiva a livello consolidato”. Una nota del Lingotto aveva precisato che la decisione di ricapitalizzare Fiat-auto è stata presa per poter garantire il necessario sostegno finanziario al piano di rilancio e di ristrutturazione del settore auto. Ma dal silenzio del Lingotto su eventuali apporti di capitale esterni a Fiat-holding si desume, con assoluta chiarezza, che nel settore auto non verrà iniettata nuova liquidità da parte dell’azionista di maggioranza, la famiglia Agnelli. Va anche notato che, data la pessima situazione delle quotazioni Fiat sul mercato azionario, l’eventuale aumento di capitale di Fiat-holding per migliorare la situazione finanziaria del Gruppo non potrebbe essere sostenuta dal mercato. Dunque, alla famiglia Agnelli e dintorni (le solite banche amiche?) si dovrebbe chiedere la sottoscrizione dell’intero eventuale aumento di capitale. Sembra chiaro che chi ha chiesto alla famiglia uno “sforzo aggiuntivo” non sa di cosa stia parlando. Posto che due terzi del capitale Fiat non è della famiglia, lo sforzo aggiuntivo dovrebbe essere del pubblico degli azionisti, fra i quali vi sono molti addetti della Fiat medesima e degli aderenti al sindacato e ai partiti della sinistra, in particolare di quella torinese che chiedono quello sforzo aggiuntivo, in nome dell’interesse generale. Certo, alcuni di loro rischiano il posto, a causa della crisi della Fiat, ma altri non hanno questo problema: e comunque la nobile gara consiste nel chiedere agli altri lo sforzo, l’impegno, non a sé stessi secondo il famoso appello di J.F. Kennedy. Ma in questo caso, il singolo azionista ragiona con la logica del mercato. Salvo mettersi il cappello (o meglio la coccarda) di contestatore del piano di riduzione dei costi della Fiat, che comporta tagli al personale, ma solo mediante cassa integrazione, pensionamenti, prepensionamenti, corsi di formazione mirati.
Fallita la richiesta (ipocrita) di sforzi alla famiglia e al mercato, si chiede che intervenga nel capitale lo Stato, con le sue imprese pubbliche. Ma questo non può farlo, per varie ragioni, compreso il fatto che l’unica importante casa di auto della Finmeccanica del gruppo Iri, cioè l’Alfa Romeo, che poteva offrire la necessaria capacità imprenditoriale è stata ceduta dall’allora presidente dell’Iri Romano Prodi al gruppo Fiat per pochi soldi, ricavandone un proficuo frutto e legame come consulente finanziario e come leader politico. Rimangono, nel vago, gli apporti delle finanziarie regionali, che sarebbero puramente di finanziamento, ma non si capisce come. Mentre di ciò si favoleggiava, Fiat-holding ha dovuto fare ricorso al credito verso le banche per raccogliere le risorse che non vengono dall’autofinanziamento e dagli aumenti di capitale sul mercato. E un pool di banche, formato da San Paolo Imi, Intesa Bci e Banco di Roma e Credito italiano le ha concesso un maxi prestito di 3 miliardi di euro convertibile in azioni. Le banche aiutano la Fiat, ma ne divengono potenziali azioniste ed esigono il risanamento del settore auto e la cessione di “pezzi di argenteria” come Toro assicurazioni e Fiat avio allo scopo di ridurre il livello di indebitamento de Gruppo. È di fronte a questa situazione che Fiat-auto e le altre società del Gruppo coinvolte hanno avviato l’apertura formale della procedura per la cassa integrazione straordinaria a zero ore, che dovrebbe partire dal 2 dicembre 2002. La reazione della Cgil è stata insolitamente dura, con toni surreali, considerando la situazione oggettiva delle vendite in regresso e delle gravi perdite finanziarie di Fiat-auto, in un Gruppo, che per il resto è solo in “sostanziale pareggio” e considerando il livello di indebitamento, che preoccupa le banche, che si sono ingolfate nel maxi prestito convertibile in azioni.
Il segretario nazionale della Fiom, Giorgio Cremaschi, sulla richiesta di cassa integrazione a zero ha affermato che “La decisione della Fiat di dare il via ai licenziamenti, perché di questo si tratta, è una mossa allo stesso tempo disperata e provocatoria. Risponderemo con il massimo della lotta proponendo ai lavoratori il blocco di tutti gli stabilimenti del Gruppo”. Dal canto suo Antonio Sansone, responsabile Fiat per la Fim di Torino ha detto che “La Fim si aspetta invece l’apertura di un’altra cassa nel Consiglio di amministrazione della Fiat, dalla quale escano le risorse finanziarie utili per il rilancio di Fiat-auto e per il mantenimento dell’attuale occupazione a Mirafiori e in Italia”. Ma questa richiesta non tiene conto del fatto che erogando risorse a Fiat-auto mediante alienazione di partecipazioni non strategiche, si indebolisce l’attuale struttura finanziaria di Fiat-holding. E le banche chiedono che la cessione di “pezzi di argenteria”, cui Fiat-holding recalcitra, per evitare il persistere di una situazione finanziaria molto delicata che rischia il degrado da parte delle istituzioni di valutazione. L’unico modo per fare affluire risorse fresche a Fiat-auto è quello di farle pervenire dall’esterno del Gruppo, mediante apporti degli azionisti di controllo con risorse proprie o mediante apporti di altri azionisti. Ma in entrambi i casi, la riduzione dei costi per il ritorno all’economicità di gestione, con previsioni di mercato realistiche sono essenziali. E quindi non si può fare a meno di un piano di ristrutturazione che muova dalla situazione attuale e progetti un’offerta in linea con la domanda, senza fantasticare su incrementi di mercato, dovuti a nuovi modelli, per i quali i tempi di attuazione e i conseguenti effetti sulle vendite riguardano i tempi lunghi e non già i prossimi due o tre anni.
Il piano di ristrutturazione dell’occupazione che la Fiat ha presentato per il suo settore auto in concomitanza con la richiesta al ministero del Lavoro dello stato di crisi è indubbiamente drastico: 26 per cento di operai in meno pari a 8.100 esuberi, 21 per cento di impiegati in meno pari a 2.060 esuberi, da qui al 30 giugno 2003, negli stabilimenti europei del Gruppo. Una metà del numero di quelli che andranno in cassa integrazione dovrebbe tornare al lavoro, l’altra metà dovrebbe invece essere dismessa presumibilmente tramite pensionamenti e corsi di riqualificazione, per trovare una nuova occupazione. Il risparmio di costi previsto dovrebbe essere di un miliardo annuo di euro, un po’ meno della perdita registrata durante i primi nove mesi del 2002, forse quanto basta per riportare Fiat-auto al pareggio nel 2003. L’investimento nell’auto che Fiat annuncia per il periodo fra il 2003 e il 2005 è di 2,5/2,6 miliardi di euro all’anno, una cifra del 25 per cento superiore a quella dell’investimento medio annuo nel quinquennio 1998-2002 che fu di 4 mila miliardi di lire (un po’ più di 2 miliardi di euro annui). Esso, ovviamente, è commisurato al mercato. Ed è costruito di intesa con le banche creditrici, future azioniste, che lo difendono. L’amministratore delegato della General Motors lo giudica positivamente. L’obbiettivo del piano, contrariamente a quello che è stato detto, date le circostanze e il tipo di management attuale del gruppo Fiat , non è privo di ambizione. Il traguardo che viene posto per il prossimo anno è , per il mercato italiano, di una produzione di 1.150.000 unità, che considerato l’invenduto del 2002 (sino a ottobre di circa 100 mila unità) comporta una media fra le auto vendute nel 2001 e quante si prevedeva di venderne nel 2002, sulla base dei traguardi fissati nel 2001: che non si sono realizzati. Alla richiesta del sindacato di non chiudere la produzione di Termini Imerese la Fiat ha risposto con una soluzione che manterrebbe in vita tale fabbrica, ma comporterebbe una riduzione ulteriore della produzione a Mirafiori e forse anche un ridimensionamento occupazionale a Termini.
Le soluzioni possibili
La rottura delle trattative da parte del sindacato perché la Fiat non assicura che saranno mantenuti i livelli occupazionali attuali non mi pare sia la linea d’azione giusta, per chi è interessato salvare l’industria dell’auto e a difendere la sopravvivenza dei due poli produttivi di Mirafiori e di Termini Imerese. Quando una grande impresa ha una crisi di mercato e perdite di bilancio pesanti, che ne rendono delicata la situazione finanziaria, la sola condizione tramite cui può sopravvivere è quella di ridurre i costi, ridimensionando la sua capacità produttiva alla domanda E ciò, purtroppo, comporta anche riduzioni di personale nel breve e medio termine. Bisognerebbe mettere in chiaro se questa riduzione di personale consente di realizzare, tramite una maggior efficienza, i due obbiettivi, purtroppo non facilmente conciliabili, di mantenere in vita sia la produzione di auto Termini Imerese che quella di Mirafiori, di stabilire se queste riduzioni di personale distribuite su i due impianti bastino all’efficienza competitiva necessaria per il rilancio. E di capire se servano a uno scopo positivo o solo a guadagnar tempo, per ottenere la cassa integrazione e tappare buchi finanziari in attesa della General Motors. D’altra parte bisogna anche capire se la riduzione di occupazione possa essere attuata in modo soffice, mediante il mancato rimpiazzo dei lavoratori che vanno in pensione.
La Fiat con il suo piano di riduzione di manodopera, che comportava inizialmente addirittura la chiusura dello stabilimento siciliano di Termini Imerese, probabilmente sperava in un corposo aiuto pubblico, mediante acquisto di quote di capitale sociale, tramite le regioni e una società a maggioranza statale analoga alla vecchia Gepi, sul modello tedesco della Sassonia che partecipa con una grossa quota alla Volkswagen, lasciando al suo vertice industriale e bancario piena autonomia decsionale. Però con dosi di assistenzialismo che non si presentano affatto nel caso tedesco: in modo da scaricare le perdite passate, presenti e future sull’economia pubblica, tramite le regioni e un’impresa statale misericordiosa come la vecchia Gepi. Tutto questo non è accaduto. E non poteva accadere nel 2002, essendo vietate le sovvenzioni pubbliche all’industria, cosa diversa dalle partecipazioni industriali pubbliche. Né potrebbe funzionare dal punto di vista industriale e manageriale. E le banche premono per una soluzione di risanamento, che consenta alla casa torinese di stare sul mercato con le proprie gambe, anche perché vedono che l’Opel che dovrebbe integrarsi con la Fiat ha il bilancio in rosso, sta riducendo la sua forza lavoro, vi riesce con fatica, ed è impegnata in un difficile piano di rilancio. E la General Motors ha sempre le sue grandi strategie mondiali, ma, come si vede dal suo diniego di sottoscrivere all’attuale ricapitalizzazione capitale della Fiat-auto, non è disposta a “fare sconti”, rispetto all’impegno di acquisto del residuo, presumibilmente a un prezzo molto basso. Essa del resto ha difficoltà sul mercato Usa, data la dura concorrenza della Toyota.
Una parte maggioritaria del sindacato ha cercato di dare la colpa di ciò che accade al governo Berlusconi e ai ministri economici di Forza Italia e all’odiata lega di Bossi, che tramite il ministro Maroni ha la responsabilità del ministero del Lavoro. Un’altra parte del sindacato, la Cisl, si adatta a questo gioco unitario per forzare il governo a fare lui quel che la Fiat non vorrebbe fare. Anche questa è una linea sbagliata. Infatti, il governo sta dimostrando in tutti i modi di avere a cuore la soluzione del problema. Esso non ha bisogno di ricatti, per intervenire. La rottura fra sindacati e Fiat sul suo piano segna comunque una grossa sconfitta per la strategia politica che la Fiat ha perseguito in tutti questi anni, cercando il consenso sociale e la simpatia della sinistra. Per ottenerlo ha fatto di tutto, comprese le lotte al governo Berlusconi con i giornali, in seno alla Confindustria e in varie altre sedi, per essere gradita. Ha svolto il ruolo di grande protettore della la sinistra a Torino, nel comune e nella provincia E, in effetti, il sindacato e i Ds si sono mossi molto tardi, avevano molta simpatia verso la Fiat che per l’articolo 18 si era schierata dalla parte di Cofferati.
L’acquisizione di Fiat-auto da parte della General Motors nel 2004 è una soluzione, non esaltante, ma – fra quelle possibili al momento – la più seria e realistica. Salva dalla dissoluzione la Fiat-auto, che è un patrimonio economico e tecnologico di prima qualità, al di là della crisi attuale di mercato e finanziaria e delle scelte di disinteresse per l’auto e degli errori manageriali del gruppo di comando. Qualora la General Motors subentrasse a Fiat-holding in Fiat-auto, non si realizzerà comunque la ventilata integrazione con Opel, che potrebbe implicare nuove ristrutturazioni, di personale e chiusura di fabbriche. L’ammininistratore delegato di questa, Carl Peter Forster, si è pronunciato contro questa integrazione ed analogamente il presidente del consiglio di fabbrica Klaus Franz. Essi sostengono la politica di Gm è di operare con case fra loro autonome, il che è vero. Dunque non si realizzeranno integrazioni produttive, con conseguente riduzione di personale. Ma Gm non potrà con considerare che essa in Europa avrà due case europee, che possono avere fasce di sovrapposizione di mercato.
Le riduzioni di personale in Italia potrebbero aversi anche in relazione al fatto che la Fiat produce anche in Polonia, ove essa ha un rilevante successo di vendite, ma incontra anche la concorrenza di Daewo della Gm nel campo delle piccole cilindrate. Ma la Fiat-auto avrà, nel quadro di Gm, una prospettiva valida, se sarà efficiente, perché, in tal caso, potrà validamente contare su un patrimonio tecnologico e di mercato molto diversificato che è attualmente il suo fattore di debolezza, ma può diventare punto di forza. Come si vede dalla tavola sulla dislocazione degli impianti e delle vendite Fiat essa ha una distribuzione geografica che, con le sinergie di un grande gruppo come Gm, può diventare un fattore positivo. Occorre però che il passaggio a Gm avvenga in modo da salvaguardare l’autonomia industriale e di marketing di Fiat-auto. E che vi sia, in Italia, un robusto indotto sia nel settore tecnologico che in quello del design, tale da dare a Fiat e all’Italia dei punti di forza nelle strategie di integrazione nella Gm.
Ma questa dovrebbe essere la scelta da attuare in mancanza di una soluzione nazionale. Ci si è domandati, molto superficialmente, perché mai il governo italiano dovrebbe occuparsi, nel caso di Fiat-auto, di politica industriale, oltreché di salvaguardia dell’occupazione, lasciando a Fiat-holding ogni responsabilità nelle scelte di impresa. La risposta sta nella tavola relativa all’importanza del settore dell’auto nella nostra economia. Un settore, lo si noti, in fase di progresso tecnologico, in relazione alle nuove esigenze in fatto di sicurezza (materiali, pilota intelligente di supporto, ecc.), di ecologia del traffico urbano (auto con motore elettrico e relativi impianti di servizio), di ecologia ambientale (auto con motore ad idrogeno per contrastare l’effetto serra). Un settore che, a livello mondiale, a parte la momentanea capacità produttiva in eccesso, ha di fronte a sé un immenso mercato globale in espansione, come mostra la tavola compilata dagli uffici Fiat, nel piano, antecedente all’attuale temporanea fase di rallentamento congiunturale. Inoltre, come si vede dalle tavole sugli stabilimenti Fiat, molti sono nel mezzogiorno d’Italia, alcuni in punti sensibili della nostra politica estera (Turchia, Argentina, per esempio). Se queste non fossero valide ragioni per un intervento di politica industriale dello Stato, perché esso ha nel passato tante volte aiutato la Fiat? Solo ora si invoca il “vade retro”? Per distruggere un’altra realtà italiana, dopo che agli inizi degli anni Novanta si sono distrutti il gruppo chimico e quello agro-alimentare Montedispon e Ferruzzi e dopo che si è distrutto (con il tranquillo consenso dei sindacati) il gruppo elettronico Olivetti, trasformando gli stabilimenti e gli uffici di Ivrea in un vuoto allucinante e chiudendo la fabbrica Everest di Crema, senza pensare ad altre possibilità?
Esclusa un’impresa di auto a maggioranza statale o a maggioranza pubblica con il complemento delle regioni, appare come soluzione ottimale un’impresa che rilevi Fiat-auto, con capitale italiano in maggioranza privato, in parte rilevante industriale, ma anche bancario (sino a quando l’impresa non potrà andare in borsa) e minoranza pubblica, tramite Finmeccanica, che qualche sinergia la ha e sta dimostrando un’aggiornata cultura industriale. Questa impresa italiana dell’auto a maggioranza privata, che potrebbe chiamarsi Alfa-Ferrari potrebbe comperare Fiat-auto a prezzi migliori di quelli che Gm è disposta a fare, perché più interessata alle opportunità del Gruppo, non avendo sui mercati: europeo, asiatico, americano la necessità di tenere conto degli interessi di Gm (che in Germania ha il peso della Opel, in Polonia opera con Daewoo, in India è presente direttamente, ecc.). Essa dovrebbe puntare molto di più sui segmenti lusso, sport, fuori strada, monovolume, che come si vede dalle tavole del piano Fiat, occupano storicamente nella gamma di Fiat un ruolo secondario. Alfa-Ferrari dovrebbe valorizzare il design italiano, la capacità tecnologica italiana: abbiamo in questo campo punti di forza imbattibili a livello mondiale, nella tecnologia dell’auto con Ferrari e Alfa Romeo, nel design con i nomi dei grandi del made in Italy dell’auto – Giugiario e Pininfarina- e nel fashion, per la carrozzeria e i suoi interni.
Nella combinazione tecnologia-fashion abbiamo nomi come Luxottica. Occorre, naturalmente, un grosso manager che si combini con il vertice manageriale attuale di Fiat-auto. C’è bisogna della squadra attuale, di manager come Boschetti, ma anche di aria nuova. Tutt’ora non viene in mente al gruppo di comando della Fiat che le auto , come ogni prodotto di consumo dell’epoca post moderna, mediatica, si progettano partendo dal marketing e dalla pubblicità. E immaginare quindi il messaggio persuasivo che attirerà il consenso del cliente, spostandolo da altre marche e prodotti. Non viene in mente a questo gruppo autorefernziale, che la varietà dei prodotti è importante, nelle società mature, in relazione ai nuovi acquirenti, che sono le donne, i giovani, le classi emergenti, i pensionati, per i quali vanno studiate nuove opportunità. E non viene loro in mente che nei mercati globali le “nicchie” comportano grossi volumi, a differenza che un tempo e tendono ad accrescersi con il modificarsi dei modi di vita: e quindi ad esempio prodotti ibridi fra l’auto e l’autocarro e fra la moto e l’auto hanno ampie e crescenti prospettive di mercato, i primi in relazione all’aumento del tempo libero, i secondi in relazione alla congestione del traffico e al problema dei parcheggi.
Il paradosso è che a Torino, ove è insediato con complesso di superiorità questo Gruppo orgoglioso, si è oramai formato un indotto del made in Italy con industrial design e stilismo avanzati, con firme come Giugiaro e Pinin Farina e operano brillanti studi di pubblicità, come lo studio Testa. E l’Alfa Romeo e la Ferrari, hanno la possibilità di trainare il Gruppo nell’era post moderna del lusso, dello sport, dei giovani, assieme alla Lancia ringiovanita un tempo vincitrice di rally. L’ibridazione con gli autocarri potrebbe essere attuata con il marchio Fiat avvalendosi delle sinergie del Gruppo attuale. E quella con le moto, mediante il collegamento con industriali italiani di motoveicoli, ottimi candidati a entrare nel business delle quattro ruote. Alle finanziarie regionali dovrebbe competere un rafforzamento e uno sviluppo degli indotti, che creano economicità per gli stabilimenti del luogo e sviluppo. Va notato che l’attuale indotto italiano è oramai, nel sistema Italia, per il settore dell’automobile, più importante della Fiat: fattura circa 24 miliardi di euro, di più di Fiat-auto. E di questo indotto il 45 per cento è devoluto all’esportazione: un 23 per cento per la fornitura di case automobilistiche operanti all’estero e il 22 per cento per ricambi.
Per quel che riguarda la produzione destinata al mercato interno, il 45 per cento è indirizzato alle produzioni di auto Fiat e un altro 10 per cento a ricambi, presumibilmente in gran parte Fiat. Questo indotto, non necessariamente collegato al gruppo Fiat, perché per metà già vende sui mercati internazionali, si è sviluppato senza gli aiuti generosi che lo Stato ha dato al gruppo Fiat in vari modi. E meriterebbe molta più attenzione, per consolidarne le capacità di crescita, per svilupparne le strutture societarie, per sorreggerne la penetrazione sui mercati mondiali del made in Italy (vedere le tabelle).
Certo, il nostro settore automobilistico, pur importante, negli anni Novanta è rimasto indietro, rispetto a quello degli altri Paesi europei e in generale nel quadro dell’economia dei Paesi avanzati. Infatti, sui 40 milioni di autovetture che sono state prodotto nel mondo nel 2001, l’Italia figura solo con 1,3 milioni di autovetture, molto indietro rispetto al principale Paese produttore, che è il Giappone con 8 milioni di unità, seguito dalla Germania, che oramai occupa il secondo posto mondiale con 5,3 milioni di unità e tramite la Daimler Chrisler proietta la sua presenza negli Usa e a livello mondiale, tramite una multinazionale tedesco-americana. Ci supera di parecchio anche la Francia con 3,2 milioni di unità. Tuttavia in questo settore, come sistema Italia, non ci troviamo in una situazione di sotto dimensionamento strutturale, in quanto bisogna tenere conto del fatto che esiste, e non è affatto in crisi nel nostro Paese, nell’ambito del gruppo automobilistico Fiat, anche un settore di produzione di autoveicoli industriali di varie dimensioni e un settore di produzione di macchine agricole e di macchine per il movimento di terra, che hanno rilevanti sinergie con il settore delle autovetture. A ciò si aggiunge l’imponente sviluppo dell’industria motoristica a due ruote, che fa parte dell’industria dei veicoli a motore su strada. La scommessa di una compagnia di auto a maggioranza privata italiana, un’Alfa Ferrari che acquisti l’attuale Fiat-auto, la ringiovanisca e la rilanci, come impresa del made in Italy tecnologico e di design, un made in Italy che tutto il mondo conosce e che il grande pubblico degli spettacoli sportivi apprezza nella moto e nell’auto da corsa è difficile, ma non impossibile .
14 febbraio 2003
(da Ideazione 1-2003, gennaio-febbraio)
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