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              Incentivi finanziari e imprese, uscire dal 
              tunneldi Massimo Lo Cicero
 
 Politica industriale è una parola dal significato ambiguo in 
              Italia. Per molti anni è stata un cavallo di Troia nel rapporto 
              tra impresa privata e poteri pubblici. La politica industriale 
              nascondeva le pretese dei governi di capire, meglio delle imprese, 
              quali fossero gli investimenti necessari per fronteggiare il 
              futuro. Nascono così le politiche di settore, che si traducevano 
              in scelte industriali con i fondi di dotazione assegnati alle 
              imprese pubbliche o con incentivi finanziari. Esse hanno generato 
              le catastrofi industriali della siderurgia o della chimica. In 
              entrambi i casi è stata distrutta inutilmente una significativa 
              quota del risparmio nazionale senza alcun risultato. Purtroppo, 
              nonostante i pianificatori lo dimentichino regolarmente, ogni 
              investimento è sempre un costo certo mentre i ricavi che esso 
              dovrebbe generare sono, per definizione, incerti. Investire è 
              sfidare le forze oscure del tempo e dell’ignoranza: infatti 
              investire è un’attività che genera rischi. Solo il trascorrere del 
              tempo rivela se quei costi hanno generato ricavi e si devono 
              considerare un investimento o non sono stati capaci di tanto. E 
              sono una perdita secca. Ma questo risultato finale, che svela 
              l’arcano, è anche irreversibile: le risorse sono state consumate 
              ottenendo nuove risorse oppure si sono semplicemente esaurite.
 
 Il ricorso agli incentivi finanziari è stato utilizzato in 
              alternativa agli incentivi fiscali per giustificare politiche 
              industriali orientate verso le piccole e medie imprese private. 
              Sostenendo che supportare le decisioni di investimento di imprese 
              dalla gracile base patrimoniale è necessario perché, altrimenti, 
              gli sgravi fiscali finirebbero col premiare solo chi è in grado di 
              anticipare i costi sottraendosi, successivamente, all’imposizione 
              fiscale dopo avere generato i profitti. Chi non ha finanza per 
              anticipare i costi verrebbe, al contrario, supportato dagli 
              incentivi.
 
 Questa ambigua commistione benevola tra incentivi finanziari e 
              politica industriale dovrebbe essere spazzata via e le imprese 
              italiane dovrebbero invece chiedere una drastica riduzione del 
              ricorso agli incentivi finanziari. Per almeno tre buoni motivi. In 
              primo luogo perché gli incentivi, come diceva il “grande vecchio” 
              della politica industriale, Pasquale Saraceno, sono l’equivalente 
              logico di un dazio. Il dazio protegge le imprese perché sostiene 
              artificiosamente il prezzo dei prodotti e l’incentivo la sostiene 
              perché riduce artificiosamente il costo dei capitali finanziari 
              necessari. Ma questo effetto, prolungato nel tempo, distorce la 
              stessa ragion d’essere dell’impresa: cioè la capacità di scegliere 
              gli investimenti necessari per proseguire l’accumulazione e 
              garantire un’espansione della ricchezza futura.
 
 L’impresa dovrebbe saper scegliere quei progetti per i quali la 
              speranza di rendimento sia almeno superiore al costo dei capitali 
              impegnati nel progetto. E quella speranza è la media ponderata dei 
              rendimenti attesi, pesati per la relativa probabilità di essere 
              realizzati. Ridurre artificiosamente il costo dei capitali 
              finanziari apre la porta a progetti che non soddisfano il 
              requisito minimo di ripagare i capitali assorbiti. Si apre un 
              varco pericoloso a scelte inefficienti e si tengono in vita 
              progetti ed imprese che non sono in grado di sostenere se stessi 
              nel tempo stabilmente.
 
 C’è una seconda ragione per rifiutare gli incentivi. Il mercato 
              degli incentivi si svolge tra soggetti intermediari che vendono 
              benefici ed imprese che li ottengono a fronte delle loro promesse 
              di fare. Il mercato del credito si svolge tra intermediari che 
              comprano il rischio, un rischio che nasce dalle promesse di fare 
              rilasciate dalle imprese. Stiglitz dice che, contro quelle 
              promesse cedute dalle imprese, si trovano le scommesse delle 
              banche che hanno accettato di comprare il rischio degli 
              investimenti. Un rischio che esse condividono con gli azionisti, 
              evidentemente. Questo è il motivo per cui una banca diligente 
              chiede sempre e comunque al proponente di un progetto di 
              aggiungere capitale proprio al credito ricevuto.
 
 Risulta chiaro che, come accade nei mercati della droga, il 
              mediatore che vende un benessere effimero viene corteggiato dal 
              suo cliente ma lavora per perdere il suo cliente, che verrà 
              sostituito da un altro e successivo cliente attirato dal miraggio 
              del paradiso artificiale. Chi compra rischio, al contrario, 
              cercherà di capire se il venditore del rischio è in grado di 
              fronteggiare adeguatamente la sfida con il futuro: perché la sua 
              scommessa si chiude positivamente solo se la promessa del debitore 
              viene mantenuta. E cercherà di ricordare il nome di chi ha tenuto 
              fede alle promesse, considerando quel nome una garanzia per le 
              proprie future scommesse. La Comit, fondata da banchieri vicini 
              alla cultura ed ai capitali delle banche tedesche, rappresentò nel 
              secolo scorso una formidabile leva finanziaria per i progetti 
              delle medie imprese della pianura padana. Essa alimentò un robusto 
              processo di accumulazione, proprio selezionando le promesse su cui 
              puntare le proprie scommesse: cioè i progetti e le imprese in cui 
              impiegare i propri crediti.
 
 C’è poi una terza ragione per abbandonare gli incentivi finanziari 
              in favore di quelli fiscali. Perché gli incentivi fiscali premiano 
              chi ha realizzato progetti che gli consentono di onorare la 
              promessa rilasciata ai creditori. Dunque, un regime chiaro di 
              incentivi fiscali rafforza la posizione delle banche che abbiano 
              scelto le giuste promesse verso cui canalizzare le proprie 
              scommesse. Insomma, se abbandoniamo gli incentivi finanziari 
              miglioriamo lo stato delle cose in favore delle imprese migliori: 
              quelle che sanno come si combatte la battaglia contro un futuro 
              incerto. Contemporaneamente questo abbandono seleziona anche le 
              banche migliori e spinge tutte le banche a fare davvero il loro 
              mestiere: scegliere rischi accettabili e monitorare le imprese che 
              devono realizzare i progetti che hanno generato quei rischi, 
              perché tengano fede alle proprie promesse.
 
 L’eccesso di incentivi finanziari, al contrario, trasforma le 
              banche in valutatori distratti, perché esse non subiscono le 
              conseguenze della propria scelta. Esse si riducono ad essere 
              fornitori di servizi in nome e per conto dei mediatori che vendono 
              benessere invece di comprare rischio: cioè della pubblica 
              amministrazione incaricata di distribuire incentivi finanziari. Se 
              le imprese italiane vogliono che sia la competizione a guidare la 
              crescita del livello di efficienza nel nostro paese non dovrebbero 
              avere alcun dubbio: dovrebbero rifiutare gli incentivi finanziari 
              e chiedere una vera politica industriale. Chiedere, cioè, che lo 
              Stato realizzi infrastrutture; alimenti la ricerca scientifica; 
              migliori il mercato dell’educazione superiore grazie alla 
              competizione anche su quel terreno; riordini i sistemi 
              previdenziali e la produzione di beni pubblici. Vivere di 
              incentivi finanziari, al contrario, è una buona soluzione per 
              morire lentamente e senza sentire troppo dolore: proprio come 
              capita con qualunque tipo di droga.
 
 6 giugno 2003
 
 maloci@tin.it
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