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              La Fascia Adriatica e il futuro del Mediterraneodi Paolo Passaro
 
 Gli attuali processi di mondializzazione dell’economia evidenziano 
              una marcata specializzazione della distribuzione internazionale 
              del lavoro e della produzione. Uno dei risvolti di tale situazione 
              è il graduale spostamento verso nazioni a più basso costo del 
              lavoro delle produzioni ad alto tasso di utilizzo della mano 
              d’opera (“labour intensive”). Già dagli anni ’50 e ’60 del 
              Novecento Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda, Svezia hanno 
              decentrato le produzioni del tessile, abbigliamento e calzature. 
              Tali produzioni sono state installate nei paesi dell’America 
              Latina, Nord Africa, Estremo Oriente. L’Italia è rimasta 
              sostanzialmente estranea al fenomeno; anzi, nel corso degli anni 
              ’70 ed ’80 il nostro paese è divenuto il centro della produzione 
              di qualità del tessile abbigliamento e calzature. L’Italia si è 
              specializzata nella produzione di vestiario ed accessori di pregio 
              ed è nato il successo, globale, del “made in Italy”. Il successo 
              italiano è soprattutto dovuto alla rara combinazione di una serie 
              di elementi non riproducibili: gusto, tradizione, cura dei 
              particolari, mano d’opera specializzata di provenienza 
              artigianale, diffondersi dei distretti produttivi. Nel distretto 
              si replicano economie di scala, impensabili nelle piccole imprese, 
              coniugate ad una straordinaria flessibilità e capacità di 
              circolazione delle conoscenze, in grado di azzerare asimmetrie 
              informative di natura finanziaria e produttiva. Ci sono anche dei 
              lati negativi: la non facile replicabilità delle produzioni, che 
              sono quasi sempre originali, ha determinato una diffusa resistenza 
              delle piccole imprese verso gli IDE (Investimenti diretti 
              all’estero). Nel 2000 (anno di cui sono disponibili i dati) 
              l’Italia investiva all’estero l’1,1% del totale export mondiale 
              piazzandosi al 14° posto. La Spagna, il cui potenziale produttivo 
              è la metà di quello italiano, si piazzava al 7° posto con 4,7% del 
              totale mondiale. Dal 2001, a seguito dell’attacco terroristico 
              negli Stati Uniti, il commercio mondiale è declinato, dando 
              origine ad una crisi degli apparati produttivi nei paesi 
              Occidentali. Le aziende dei distretti italiani hanno reagito 
              velocemente, aumentando gli investimenti per il decentramento 
              delle produzioni a più alto tasso di mano d’opera.
 
 L’apertura verso l’esterno di Romania e Bulgaria, Albania, 
              Croazia, ecc, ha determinato la convenienza comparata dello 
              spostamento delle produzioni, esternalizzate nei distretti. Il 
              costo della mano d’opera in quei paesi, infatti, è tra un decimo 
              ed un quindicesimo di quella italiana. Inoltre si tratta di 
              maestranze scolarizzate e facilmente addestrabili. Ma questo 
              fenomeno se da una parte rende maggiormente competitive le nostre 
              aziende nel breve periodo, le espone ancor di più alla concorrenza 
              nel medio lungo termine. Agire solo sul fattore prezzo (riducendo 
              i costi di produzione senza aumentare l’efficienza ed abbassare la 
              curva dei costi fissi) espone l’azienda al suo inarrestabile 
              declino. Bisogna agire sui fattori non di prezzo; ovvero: ricerca 
              applicata e di base; l’innovazione tecnologica di prodotto (non 
              solo di processo); la formazione; le tecnologie informatiche; 
              l’infrastrutturazione; i trasporti; sistemi integrati di offerta; 
              i rapporti tra imprese, banche, università, istituzioni. Quello 
              che in sintesi si dice competitività del “Sistema paese”. Da 
              questo punto di vista la situazione è drammatica. L’Italia perde 
              costantemente competitività. Ciò si desume dalla quota delle 
              esportazioni italiane sul totale mondiale. Siamo passati dal 4,9% 
              del 1991 al 3,7% del 2000. Senza ricerca ed innovazione i nostri 
              distretti sono destinati a perdere la partita con la concorrenza 
              internazionale che sarà sempre più accurata qualitativamente e 
              meno costosa, tenendo conto del differenziale di salario. Non 
              resta che differenziare il prodotto verso l’alto incorporando, nei 
              prodotti stessi, una maggiore quantità di tecnologia. Vale per i 
              vestiti, per le scarpe (le cui suole “respirano”), o altro.
 
 Il design, il marketing, la finanza, i centri di ricerca sono le 
              parti di aziende che rimarranno in Italia. La produzione 
              manifatturiera vera e propria sarà gradualmente spostata al di là 
              dell’Adriatico. La sfida non è la “delocalizzazione” delle aziende 
              italiane (chiudere in Italia per aprire in Romania, ad esempio) ma 
              internazionalizzare le aziende mediante una pluralità di sedi e di 
              partner stranieri. Siamo pronti a tale sfida? Sono stati versati 
              fiumi di inchiostro su oceani di carta, circa la ridotta 
              competitività dell’Italia; ma sui modi per arginare il fenomeno e 
              determinare un’inversione di tendenza non vi sono risultati 
              tangibili. E’ sicuramente molto complesso ipotizzare una riforma 
              globale e definitiva del problema; ma un ipotesi di lavoro può 
              essere quella di ragionare per progetti.
 
 Il “progetto tipo”, relativo ad un’area geografica circostanziata 
              e scelta per alcune sue peculiarità, dovrebbe vedere il 
              coinvolgimento dal basso (bottom-up) delle forze economiche, 
              sociali degli enti locali. A differenza di quanto tentato nei 
              Contratti di Programma bisognerebbe ridurre al minimo il tasso di 
              burocrazia. Nel Sud d’Italia, in particolar modo sulla “Fascia 
              Adriatica”, esistono molte aree che potrebbero essere oggetto di 
              progetti. Il progetto dovrebbe in sintesi prevedere, mediante 
              un’analisi molto dettagliata delle caratteristiche geografiche, 
              sociali, demografiche, economiche, di marketing territoriale, le 
              soluzioni per incentivare la realizzazione di una vera “rete 
              sistemica” tra società, aziende, politica, enti, banche, 
              università. Partendo dalla formazione scolastica bisognerebbe 
              prevedere dei percorsi (non modificabili) per creare un 
              collegamento tra scuola, università ed imprese. Il risultato 
              dovrebbe essere un aumento del tasso di innovazione e di scolarità 
              che favorisca l’insediarsi di centri di ricerca. Dai centri di 
              ricerca i risultati dovrebbero riverberarsi sul territorio. 
              Mettendo in “rete” anche le Istituzioni si farebbe in modo che dal 
              momento in cui l’imprenditore abbia i mezzi monetari e la volontà 
              di effettuare un investimento, e l’avvio della produzione, possano 
              passare poche settimane. Ci vuole uno “sportello unico” che 
              funzioni.
 
 In Francia, nei territori confinanti con il Piemonte, agenzie 
              governative specializzate permettono di aprire un’azienda in pochi 
              giorni (non settimane). Anche noi ci possiamo riuscire. Il Sud 
              d’Italia si presta ad una sperimentazione di buone prassi, da 
              utilizzare successivamente per tutto il paese. Ci sono spazi 
              fisici, ottime condizioni geo-morfologiche, alta disoccupazione 
              giovanile scolarizzata. Inoltre, poiché nel Mezzogiorno la 
              raccolta, da parte delle Banche, è sempre molto superiore agli 
              impieghi bisognerebbe creare degli strumenti finanziari che 
              incentivino l’afflusso del risparmio verso le imprese, magari 
              attraverso fondi chiusi e garantiti (in ultima istanza) da 
              Istituzioni statali e regionali. Ricerca, innovazione, finanza di 
              progetto, strutture sul territorio snelle e poco burocratizzate, 
              imprenditorialità e prossimità geografica straordinariamente 
              favorevole dopo tre secoli, grazie alle potenzialità dei Balcani. 
              La “Fascia Adriatica” si candida a divenire la Tigre del 
              Mediterraneo. Ci crediamo?
 
 20 giugno 2003
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