| 
              Meridionalista, un mestiere difficiledi Angela Regina Punzi
 
 “A parlare di Mezzogiorno si scopre che c’è sempre un passato che 
              si rispecchia immediatamente nel presente; e c’è un presente che 
              ci cambia fra le mani per ragioni endogene; e c’è un fluire del 
              tempo che è allo stesso modo continuità e rottura; e c’è sempre 
              del nuovo apparente sopra una tendenza che ha i tempi del 
              mutamento di lunga durata” La sempiterna questione meridionale il 
              professor Barucci la descrive così, con un misto di animosità, 
              tristezza ed oggettività, mai con rassegnazione. Uno sguardo al 
              passato che non è solo sterile ricostruzione storica, ma “un atto 
              di passione e di impegno civile: un atto di umiltà perché la lunga 
              scala dello sviluppo possa essere scalata senza emozioni e con 
              pazienza”. Barucci scinde il “meridionalismo classico” dal “nuovo 
              meridionalismo”. Il primo arriva fino al secondo dopoguerra, tenta 
              di dimostrare che il Nord non può svilupparsi senza favorire anche 
              la crescita del Sud, presenta una letteratura più spesso di 
              denuncia e di rivendicazione, scopre la forza della documentazione 
              statistica. Con il “nuovo meridionalismo”, invece, il luogo di 
              riferimento diviene il Parlamento repubblicano che vara un disegno 
              di tipo generale e teoricamente fondato, in cui s’individua 
              l’essenza di una ben delineata politica economica e crea uno 
              strumento di intervento.
 
 Oggi la questione meridionale si presenta in termini ancora 
              diversi che in passato: come misure d’intervento, scenario di 
              riferimento e tasso di drammaticità. Il divario tra Nord e Sud, 
              che pur sopravvive, non contrappone più un Nord alla rincorsa 
              delle aree europee più sviluppate ed un Sud schiacciato nel 
              triangolo epidemie-carestie-miserie. Alcune aree delle regioni 
              settentrionali sono tra le più industrializzate d’Europa, e il Sud 
              ha mediamente un reddito pro-capite che si colloca nel 15% più 
              ricco del mondo. Il problema del Mezzogiorno d’Italia ha cambiato 
              forma e s’accompagna in Europa ai problemi delle altre aree in via 
              di sviluppo che utilizzano i fondi strutturali secondo le regole 
              comunitarie. E cambierà ancora. Da terra di emigranti, si è 
              trasformato già oggi in porto che accoglie la speranza di molti 
              immigrati.
 
 Ormai non si tratta più di confrontare il Sud con il Nord 
              dell’Italia, ma di comparare il Sud dell’Italia con i molti Sud 
              del mondo intero. Così come si deve raffrontare il Nord italiano 
              con le aree più sviluppate dell’economia mondiale. Altrimenti, 
              ammonisce Barucci, si corre il rischio di manifestare con 
              soddisfazione il recupero del divario del Sud rispetto ad un Nord 
              Italia che perde il passo con i suoi competitori mondiali. La 
              questione meridionale è “sempiterna”, dunque, solo nelle apparenze 
              perché comunque la si chiami, “ci è cambiata tra le mani, e 
              continuerà a farlo”. Eppure, pur se ridimensionata e 
              riqualificata, di questa questione conviene ancora parlare. Poiché 
              in quest’area gran parte del gioco economico si svolge tra 
              soggetti diversi da quelli del Nord e secondo regole, tempi, forme 
              di garanzia diversi, determinando costi più elevati 
              nell’intraprendere e qualità e ritmi della vita pubblica diversi.
 
 Il Mezzogiorno è stato spesso considerato altro da sé per gran 
              parte degli italiani e qualcuno ha anche proposto di considerare 
              chiuso questo problema non tanto, e non solo, “dalle colonne di 
              una prestigiosa Enciclopedia, ma per decreto legge”. Invece, dice 
              Barucci, di Mezzogiorno sarà opportuno parlare finché “non saranno 
              erose tutte le cause che producono così tante intermediazioni 
              improprie, finché il tasso di concorrenzialità non sarà aumentato, 
              i privilegi ridotti ed ognuno ricondotto al proprio ruolo 
              ufficiale. Chi si adopera per rendere impersonali ed automatiche 
              le prestazioni della Pubblica Amministrazione, chi introduce 
              tecniche di conduzione di imprese e di produzioni di servizi di 
              tipo capitalisticamente evoluto, chi sostituisce ragioni oggettive 
              di scelta a metodi familistici e di amicizia, costui contribuisce 
              a far fare un piccolo passo al Mezzogiorno nella direzione 
              giusta”.
 
 Tracciando un disegno di ripresa adatto ai tempi, il professor 
              Barucci, afferma che c’è innanzitutto da potenziare l’opzione 
              voce: bisogna convincere i residenti a non abbandonare la società 
              locale, rendendo queste persone inclini al rischio ed alieni alla 
              fuga. Denuncia un’intelaiatura delle misure a favore del 
              Mezzogiorno ormai simile ad “una selva di arbusti o di alberi tra 
              i quali neppure il guardacaccia riesce a muoversi”. Ecco perché è 
              necessaria una robusta opera di delegificazione nella normativa 
              del Sud.
 
 Pasquale Saraceno, anni fa, aveva suggerito una politica della 
              domanda per le industrie del Nord e dell’offerta per quelle del 
              Sud. Barucci riprende questa idea di politica di sviluppo per il 
              Mezzogiorno rivolta prima di tutto agli imprenditori: è loro il 
              compito di definire condizioni stabili di convivenza, investire 
              capitali e mobilizzare la mano d’opera, iniziando così una 
              sequenza che avvii lo sviluppo. E’ necessario, inoltre, un mercato 
              del lavoro ragionevolmente flessibile e l’accesso di capitali e di 
              attitudini professionali provenienti dall’esterno. Ancora: si deve 
              puntare a valorizzare il campo dei distretti industriali, del 
              turismo, dell’agricoltura di qualità; si deve accelerare una 
              politica delle infrastrutture; sostituire l’operare di mercati con 
              “intermediazione impropria” con mercati “normali”; si devono 
              creare flussi di credito rispondenti alle esigenze delle piccole 
              imprese emergenti.
 
 Barucci confessa “la voglia ricorrente di scorgere nella propria 
              proposta il segno vincente di un’idea che accelera il progresso e 
              che ha scoperto la scorciatoia per farci più appagati dei nostri 
              predecessori”. Ma (e qui trapela un pizzico di rassegnazione) 
              capita poi di scoprire che… “non si sono fatti i conti fino i 
              fondo con la realtà meridionale, che bisogna prendere atto che 
              siamo dentro delle contraddizioni che non si sciolgono col colpo 
              di teatro di una invenzione semantica”. In fondo, “essere 
              meridionalisti è ancora, come sempre, un mestiere difficile”.
 
 4
              luglio 2003
 
 a.punzi@libero.it
 
 |