Una
storia lunga ottant'anni
Gli ubriachi li adoperano per appoggiarvisi nel loro incerto procedere; ma la funzione dei lampioni è quella di illuminare le strade di notte. Così, capita che taluni istituti previdenziali siano usati (ed abusati) per finalità improprie. E’ successo, da noi, negli anni sessanta e settanta con le pensioni d’invalidità, quando esse servirono, soprattutto nelle regioni meridionali, ad assicurare un reddito a coloro che non avevano avuto la forza e il coraggio di emigrare al Nord, laddove si espandeva l’industrializzazione. A metà degli anni settanta – a guardare i dati – l’Italia sembrava un Paese di invalidi, nel senso che i trattamenti di questa tipologia superavano di gran lunga quelli di vecchiaia. E non si trattava neppure di erogazioni conferite in violazione della legge, poiché le norme stabilivano che, nel valutare l’impossibilità di svolgere un’attività lavorativa, si dovesse tener conto anche delle condizioni socio-economiche del territorio. Non è stato solo il Belpaese a risolvere qualche problema sociale grazie alla manica larga sull’invalidità. L’Olanda felix, ad esempio, è ricorsa abbondantemente a questa pratica nella seconda metà degli anni ottanta per risolvere qualche situazione di esuberi (magari mentre da noi si strumentalizzavano i prepensionamenti). Nel 1982, un Governo della prima Repubblica (oh! Gran bontà dei cavalieri antichi!) decise che quello sconcio (ancorché a fin di bene) dovesse terminare. Con la riforma dell’invalidità pensionabile il fenomeno è stato portato sotto controllo, ancorché si paghino tuttora i costi della disinvoltura d’altri tempi.
Oggi le nuove pensioni di invalidità e di inabilità erogate dall’Inps sono annualmente 40-45 mila l’anno e il numero dello stock decresce di circa 100mila ogni anno. Purtroppo la memoria della previdenza è più lunga di quella degli elefanti: la parte prevalente della spesa attuale è tuttora riferita a vecchi trattamenti di invalidità, riconosciuti ai “tempi degli Unni”. Per fortuna, allora, nessun sottosegretario si mise di traverso invocando – avrebbe potuto benissimo farlo – la funzione sociale delle pensioni di invalidità, allo scopo di non cambiare nulla. La riforma si fece e l’istituto venne portato alla sua corretta funzione: deve essere considerato invalido chi, per sopraggiunte cause psicofisiche, non è in grado di procurarsi in tutto o in parte un reddito attraverso il lavoro. Certo, la società assistita si vendicò e scoprì il settore dell’invalidità civile (da 400 mila pensioni di venti anni or sono siamo ad 1,7 milioni di adesso: il numero più consistente è in Lombardia). Fu giusto e corretto, però, riordinare la materia secondo criteri di trasparenza e correttezza. È toccato alle pensioni d’anzianità svolgere, nell’Italia post-industriale, quel compito di protezione sociale, indiscriminata e impropria, che l’invalidità assolse nell’Italia post-agricola. I grandi processi di ristrutturazione produttiva dei decenni ottanta e novanta furono possibili grazie a massicci ricorsi ai prepensionamenti, mediante i quali lo Stato dava copertura per gli anni mancanti al raggiungimenti dei requisiti previsti per l’anzianità. I dati stanno a dimostrare quanto rilevante sia stato il fenomeno (400mila casi) e quanto consistente l’onere per la collettività.
Le pensioni di anzianità non furono pensate, però, come un ammortizzatore sociale. Nella scheda ci siamo permessi di rifare la storia dell’età pensionabile in Italia, che è ancora oggetto di tante radicali polemiche.
L’età di pensionamento nella storia previdenziale italiana:
1919 - Viene istituita l’Assicurazione generale obbligatoria (Ago). L’età legale per la pensione di vecchiaia viene fissata a 65 anni per uomini e donne.
1935 - Nel rdl n. 1827 l’età legale resta confermata a 65 anni, con possibilità di anticipo a 60, ma con penalizzazioni economiche variabili, in funzione dell’ampiezza dell’anticipazione, dal 37 al 10% dell’importo della pensione.
1939 - Nel rdl n. 636 l’età pensionabile è ridotta a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne.
1952 - Nella legge n. 218, che riordina l’intero sistema dopo gli sconvolgimenti del conflitto mondiale, rimangono confermati i previgenti limiti d’età.
1962 - Incaricato di svolgere un’indagine sui problemi della previdenza, il Cnel si esprime a favore di un innalzamento dell’età pensionabile in quanto “l’elevamento dell’età minima rappresenta – afferma la relazione conclusiva – senza dubbio una delle condizioni fondamentali per rendere possibile il maggior sforzo finanziario derivante dalla estensione della pensione a tutti i cittadini”.
1965 - Con legge n. 903 è introdotto nell’ordinamento dell’Ago il pensionamento anticipato di anzianità con 35 anni di anzianità contributiva. È abolito anche ogni divieto di cumulo, tanto che i pensionati di anzianità avrebbero potuto accedere alla prestazione senza neppure interrompere il rapporto di lavoro.
1968 - Si comprende subito che l’introduzione della pensione di anzianità è stato un errore (in meno di un triennio si sono spesi 170 miliardi, l’equivalente di 1500 miliardi attuali). Il Governo prova di scambiare l’abolizione del pensionamento anticipato con la concessione dell’aggancio della pensione alla retribuzione, fortemente richiesta dai sindacati. In un primo momento le confederazioni accettano, poi la Cgil ritira l’adesione e proclama lo sciopero. Nel dlgs n. 488 (in attuazione della legge delega n. 238) viene disposta la formula retributiva (65% della retribuzione dell’ultimo triennio, è abolita la pensione di anzianità (salvo un trattamento transitorio fino al 1970 nel caso di disoccupazione involontaria, con liquidazione secondo la precedente formula contributiva), è fissato un rigoroso divieto di cumulo.
1969 - Nella legge n. 153 si rafforza il calcolo retributivo (il 74% dei migliori tre anni negli ultimi cinque, poi dal 1976 l’80%), effettività del sistema di perequazione automatica, attenuazione del divieto di cumulo, introduzione della pensione sociale, ripristino della pensione di anzianità dopo 35 anni di versamenti, inclusa la contribuzione figurativa.
1973 - Con il Dpr n. 1092 vengono consentite le baby pensioni nel pubblico impiego (le donne coniugate con prole potevano ottenere il trattamento dopo 14 anni, sei mesi e un giorno), dove già esistevano prestazioni più vantaggiose (pensionamento anticipato dopo 20 anni per gli statali, dopo 25 anni per i dipendenti degli enti locali).
1990 - La legge n. 233 riordina i trattamenti dei lavoratori autonomi, le cui gestioni erano sorte in tempi diversi. L’età di vecchiaia è a 65 anni per gli uomini e a 60 per le donne; per l’anzianità valgono le medesime regole del lavoro dipendente.
1991 - La Corte Costituzionale (sentenza n. 194) riconosce la legittimità della pensione di anzianità.
1992- 1994 - Il Governo Amato eleva, a regime, a 65 anni per gli uomini e a 60 anni per le donne la pensione di vecchiaia; per quella di anzianità istituisce un blocco a tutto il 1993. Il Governo Ciampi introduce una penalizzazione economica nel pubblico impiego. Il Governo Berlusconi accelera il meccanismo di andata a regime del pensionamento di vecchiaia (che termina nel 2000) e stabilisce un altro blocco per quello di anzianità.
1995 - Nella legge n. 335 (riforma Dini) viene rivista la disciplina del pensionamento di anzianità. A regime (nel 2008) si andrà in pensione a 57 anni di età con 35 anni di contributi o a qualunque età con 40 anni di versamenti. Nel pubblico impiego resta un meccanismo di penalizzazione economica con qualche correttivo per i requisiti.
1997 - La legge n. 449 (riforma Prodi) rende un po’ più veloce la transizione del pensionamento di anzianità, salvo le deroghe per operai, equivalenti e precoci. Il pubblico impiego viene sostanzialmente parificato al lavoro privato. Per i lavoratori autonomi il diritto si consegue con requisiti più severi.
Si è sempre trattato di una pensione legata alla contribuzione. Solo recentemente sono stati introdotti requisiti anagrafici in una logica di parificazione tra privato e pubblico, secondo un percorso che si concluderà definitivamente nel 2008. Per coloro che ne hanno maturato i requisiti, queste prestazioni sono certamente un diritto, ma rimangono un privilegio, perché sono il coronamento di una vita lavorativa che, per ragioni connesse all’andamento – irripetibile – dell’economia e del mercato del lavoro, consentono a milioni di lavoratori che hanno cominciato a lavorare in giovane età e che hanno goduto di una relativa stabilità di impiego (circostanze anch’esse irripetibili) di raggiungere l’agognata soglia poco più che cinquantenni e di percepire un trattamento (intorno ai 18,6mila euro l’anno: alla faccia dell’ammortizzatore sociale!) per un quarto di secolo, con reversibilità alla vedova appresso. Può anche essere – non lo mettiamo in dubbio – che i datori di lavoro siano portati, al di là di quanto reclama la Confindustria, a spingere i propri dipendenti anziani fuori dai posti di lavoro. Ma questa strada non porta da nessuna parte: l’Italia (sul versante del mercato del lavoro innanzi tutto) non potrà reggere una situazione, tra qualche decennio, nella quale il 40% della popolazione – in concorrenza degli altri requisiti – avrà l’età per andare in pensione. L’altra metà, in attività, non potrà mai finanziare un sistema siffatto. In tutta Europa si studia il modo di prolungare la vita attiva degli anziani anche mediante il posticipo del pensionamento effettivo che ora risulta più basso di quello degli anni sessanta, a fronte di una più lunga attesa di vita e di migliori condizioni di salute. Il Governo lo vuole fare anche in Italia come si vede dai target del Nap occupazione.
La riforma Dini ha risolto il problema in un modo a nostro avviso iniquo e socialmente pericoloso: costruendo un sistema che garantisce prestazioni miserabili a pensionati in giovane età. Costoro, però, arriveranno all’appuntamento con una grama condizione di quiescenza, dopo aver garantito, per decenni, trattamenti record alle generazioni precedenti. Noi stiamo dalla parte dei giovani. Sono loro il futuro di questo Paese. Così – si tratti di pensioni o di ammortizzatori sociali – l’Italia muore.
10 ottobre 2003
(tratto
da "Riformare il welfare è possibile", di Renato
Brunetta e Giuliano Cazzola, Ricerche della Fondazione Ideazione,
Roma, 2003)
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