L’Italia e le pensioni degli europei
di Giuseppe Pennisi
L’Europa, ed in particolare i 15 paesi che formano l’Unione europea (Ue), appaiono, nel contesto mondiale, come un continente di piccole dimensioni e densamente popolato da una popolazione in contrazione ed anziana, nonché attorniato da continenti vasti e con popolazioni in espansione e giovani. Secondo le proiezioni demografiche di William Frey della Brookings Institution, se non ci sarà un drastico cambiamento di tendenza, nel 2050 l’età mediana della popolazione dell’Ue (cioè quella della fascia più numerosa) sfiorerà i 52 anni, mentre l’età mediana della popolazione degli Stati Uniti sarà sui 34 anni; da oggi ad allora, l’Europa (ampliata ai 10 paesi che entreranno nell’Ue l’anno prossimo) avrà perso circa 20 milioni di persone, a ragione principalmente del declino del tasso di fertilità, mentre agli Usa se ne saranno aggiunte 30 milioni, grazie sia all’alta fertilità sia all’immigrazione (in gran misura di giovani). Ancora più bassa l’età mediana del Medio Oriente, dell’Asia e dell’Africa: l’isola vecchia e ad alto reddito è accerchiata sia da un continente giovane, nonché da alto reddito ed alta produttività (gli Usa), sia da vaste regioni giovani e a basso reddito ma con produttività in rapido aumento. L’invecchiamento del continente ha molteplici conseguenze economiche: una maggiore avversione al rischio (e, quindi, la tendenza ad investire in attività meno innovative); un aumento del tasso di consumi: sia individuali sia collettivi, e una riduzione di quello di risparmio e di investimento; una più rapida obsolescenza dell’apparato produttivo; il declino dell’incremento della produttività; il peggioramento della competitività. Questa nota riguarda una sola delle tante ramificazioni del problema: le implicazioni sui sistemi previdenziali e le correzioni di rotta possibili nel breve e medio periodo, in particolare quelle da impostare in questo semestre in cui l’Italia è alla guida degli organi di governo dell’Ue.
Un dato statistico a contenuto politologico spicca su tutti gli altri: l’età mediana degli europei è ancora più elevata (rispetto a quelle del resto del mondo) se si considera solo la popolazione degli aventi diritto a voto (escludendo, quindi, le fasce più giovani): già adesso si avvicina ai 45 anni con la conseguenza che l’elettore mediano (quindi il più numeroso) ritiene di avere accumulato una consistente ricchezza pensionistica (da incassare al momento di andare a riposo) e di avere un forte interesse legittimo in sistemi previdenziali tali da assicurargli il mantenimento del proprio tenore di vita al termine dell’attività lavorativa. Dunque, ritardare riforme in materia previdenziale vuole dire rendere più arduo farle approvare domani da un elettorato più vicino a toccare con mano i benefìci di sistemi che attuano trasferimenti di risorse dai giovani agli anziani.
Alcune cifre sono eloquenti. L’effetto combinato di fasce di età che raggiungono l’età della pensione e dell’aumento dell’aspettativa di vita sta provocando il raddoppio del “tasso di dipendenza” (cioè, il rapporto tra coloro che hanno più di 65 anni e chi è in età lavorativa, quindi tra i 15 e i 64 anni): mentre nel 2000, gli ultra-sessantacinquenni erano pari ad un quarto della popolazione dell’Ue in età attiva, nel 2050 ne saranno pari alla metà. Anche ove il tasso di fertilità nell’Ue cominciasse ad aumentare (ed a crescere rapidamente), gli effetti di tale, peraltro improbabile, scenario sulla dinamica demografica non si sentiranno prima nel 2025-2030. Da ora ad allora, pure nelle ipotesi più ottimiste, i sistemi previdenziali dell’Ue dovranno fare fronte alle tensioni innescate da “gobbe”, più o meno severe, e tali comunque da mettere a dura prova la loro sostenibilità economica e finanziaria.
Le politiche pubbliche
Sino ad alcuni anni orsono, unicamente i demografi, gli economisti e l’alta dirigenza dei dicasteri economici e finanziari pareva avere contezza degli effetti dell’invecchiamento sui meccanismi previdenziali dei paesi dell’Ue – quasi esclusivamente “a ripartizione”, basati, quindi, sul principio secondo il quale sono i lavoratori attivi a pagare, tramite la fiscalità generale o contributi specifici (quasi sempre sulle retribuzioni), le prestazioni previdenziali per chi è a riposo. Ora la consapevolezza si è estesa ed approfondita: indagini demoscopiche provano che una vasta maggioranza degli europei vedono con pessimismo il futuro dei sistemi previdenziali (specialmente di quelli pubblici) e temono di avere, un domani, redditi da pensione molto bassi, se non si interverrà subito con i correttivi e con le riforme necessarie. Gli shock finanziari di dieci anni fa, e la crisi degli accordi di cambio europeo con la svalutazione di alcune monete (tra cui specialmente pesante quella della lira), hanno contribuito a fare aprire gli occhi e ad innescare il processo di riforma.
Una risposta fin troppo ovvia da parte delle politiche pubbliche potrebbe consistere nell’alzare l’età legale dei limiti di età per andare in pensione (tipicamente 65 anni in gran parte dei paesi dell’Ue), tanto più che l’età effettiva della pensione si pone tra i 56 ed i 60 anni (a seconda delle caratteristiche specifiche di ciascun paese dell’Ue) e che mediamente gli europei passano 20 anni in pensione (rispetto ai 13 riscontrati negli anni Sessanta). Calcoli effettuati nel 1984 nei Paesi Bassi (nell’ambito del “patto sociale” allora in allestimento in Olanda) concludevano che una correzione di rotta basata esclusivamente sull’età legale della pensione (senza toccare parametri quali i livelli dei contributi e delle prestazioni) avrebbe suggerito di portarla a 81 anni; elaborazioni econometriche effettuate nel giugno 2003 nel quadro del dibattito sulla riforma della previdenza in Austria pongono a 80 l’età della pensione a cui si dovrebbe puntare senza cambiare gli altri aspetti del sistema.
Un’altra risposta sin troppo ovvia sarebbe quella di facilitare lo sviluppo di previdenze complementari o integrative “a capitalizzazione” sia private sia pubbliche (in base alle quali le pensioni vengono finanziate con i rendimenti degli accantonamenti effettuati durante la vita attiva). L’alto onere contributivo ora vigente lascia poco spazio per i risparmi necessari a questo scopo (specialmente durante la transizione da sistema “a ripartizione” a sistema “a capitalizzazione”). Inoltre, il crollo delle valorizzazioni sui mercati finanziari dal marzo 2000 ed i loro effetti sui fondi pensione nei paesi (Olanda, Irlanda, Regno Unito) che più li avevano sviluppati non incoraggia i futuri pensionati (specialmente se prossimi all’età di quiescenza) ad andare verso questa strada. In alcuni paesi (ad esempio in Italia), ulteriore ostacolo è una normativa che promuove la frammentazione tra tanti piccoli e fragili fondi, tali da essere spazzati via alle prime intemperie sui mercati finanziari.
Nonostante questi vincoli, gli anni Novanta sono stati una fase di frequenti e, in certi casi, importanti riforme previdenziali in quasi tutti i paesi dell’Ue. Alla base delle riforme non c’è solamente la crescente consapevolezza dell’insostenibilità economica e finanziaria dei sistemi in vigore, ma anche e soprattutto un cambiamento concettuale, in effetti filosofico, poco studiato nella letteratura previdenziale in generale ed in quella italiana in particolare. Nell’esperienza dell’Europa occidentale, lo “Stato sociale” e specialmente la previdenza sono stati per decenni fondati su assunti filosofici “conseguenzialisti” che hanno plasmato “la teoria del benessere sociale”. L’accento è posto sulle “conseguenze” (ad esempio, delle imperfezioni del mercato e delle asimmetrie informative) e sui risultati da auspicarsi grazie alla mano visibile dell’intervento pubblico; gradualmente, da circa due decenni, a ragione in gran misura alla diffusione di lavori teorici come quelli di John Rawls, pure in Europa il “conseguenzialismo welfarista” sta perdendo terreno a favore del “contrattualismo” e “neo-contrattualismo”: dati vincoli etici, la protezione dei diritti (e dei “titoli”) ed eque regole del gioco, gli individui sono liberi di perseguire i loro obiettivi tramite “contratti sociali” con gli altri, ossia con il resto della società. In materia di politica sociale e previdenziale, ciò implica maggiore libertà di scelta in termini di contributi in vita attiva e di future prestazioni, di età della pensione, diversificazione del rischio tra due o più pilastri, e via discorrendo. Questo cambiamento filosofico (molto profondo soprattutto presso le giovani generazioni europee) è alla radice delle riforme degli anni Novanta.
Le correzioni apportate in Europa ai sistemi vigenti alla fine degli anni Ottanta sono di due categorie: a) “parametriche”; e b) “strutturali” o “sistemiche”. Le prime mettono l’accento su alcuni parametri (tipicamente: età legale per la pensione, livello dei contributi e delle prestazioni). Le seconde cambiano la struttura o il sistema della previdenza. Negli anni Novanta, riforme “parametriche” sono state adottate in Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Portogallo e Spagna. Una nuova tornata di riforme “parametriche” è in vario stadio di attuazione in Austria, Francia e Germania. Le riforme “parametriche” arrivano presto al capolinea, come si è visto in precedenza a proposito di correzioni basate unicamente sul parametro “età della pensione”.
Il Regno Unito e l’Irlanda (che comunque avevano meccanismi previdenziali molto differenti da quelli del resto dell’Ue) hanno introdotto riaggiustamenti significativi. Nel contesto europeo, l’Italia e la Svezia sono i soli paesi che hanno ideato ed attuato riforme “strutturali” o “sistemiche”. In Italia la riforma “sistemica” del 1995-97, da affinarsi con i decreti delegati risultanti dal disegno di legge delega presentato nel 2001, è stata messa in cantiere dopo una riforma “parametrica” (quella del 1992-93) che aveva suscitato grandi aspettative ma rivelatasi di respiro molto corto. La caratteristica comune delle riforme “sistemiche” attuate in Italia ed in Svezia è di mantenere meccanismi a “ripartizione” ma di basare le prestazioni sui “contributi” effettivamente versati (e su una serie di coefficienti per i loro rendimenti e la loro trasformazione in rendite). Il Notional defined contribution (Ndc) – è questo il termine con cui il “contributivo” viene indicato nel lessico internazionale – viene considerato come la maggiore innovazione, a livello mondiale, degli ultimi anni in materia di risposta delle politiche pubbliche ai nodi della previdenza. È stato adottato dalla Polonia e da alcuni Paesi Baltici; è in fase di avanzata considerazione nella Federazione Russa ed in molti Paesi dei Caraibi, nonché per una seconda tornata di riforme in America Latina (in seguito agli effetti sui fondi privatizzati della crisi delle borse in atto dal marzo 2000); è tra le misure proposte dalla Commissione presidenziale per la riforma delle pensioni Usa. E’ stato oggetto di un importante simposio internazionale il 2-4 giugno a Barbados, di convegni in programma a Stoccolma dal 28 al 30 settembre ed a Washington il 13-14 novembre.
È utile partire dal Ndc nell’esperienza di Svezia ed Italia (quella della Polonia è ancora agli inizi) per delineare una possibile strategia. Le caratteristiche del “contributivo all’italiana” sono molto note. Meno conosciute quelle dell’esperienza svedese, nonostante un recente seminario del Cnel che ha comunque ricevuto pochissima attenzione. In Svezia, la riforma “sistemica” della previdenza ha origini lontane, anche se la normativa quadro è stata varata solo nel 1994 e le leggi applicative nel 1998. Non ha origine dal peso delle pensioni sulla finanza pubblica (il 9 per cento del Pil all’ultima conta, rispetto al 15 per cento del Pil in Italia) e non è stata innescata da una crisi valutaria quale quella che ha travolto la lira nel 1992. Il sistema svedese, in vigore dal 1960 circa, era articolato in una pensione di vecchiaia eguale per tutti e da una pensione retributiva supplementare su base occupazionale le cui caratteristiche variavano, entro certi limiti (e nell’ambito di “tetti” complessivi non molto elevati), da categoria a categoria. Il sistema era rigorosamente “a ripartizione”. Le determinanti che hanno portato, nel 1991, all’insediamento di una commissione per la riforma della previdenza sono tre: a) la preoccupazione che il sistema comportava severe rigidità nel mercato del lavoro e avrebbe frenato la competitività proprio in una fase in cui l’adesione dalla Svezia all’Ue ne imponeva un potenziamento; b) il continuo aumento dell’aspettativa di vita alla nascita; c) dimostrazioni econometriche che l’elevato livello di copertura tra pensione di base e supplementare comportavano una riduzione del tasso di risparmio privato. Al fine di contrastare parte di questi effetti, nella seconda metà degli anni Ottanta era stato creato un “fondo di riserva” (la cui consistenza è adesso pari ad un quarto del Pil) la cui gestione è stata affidata a quattro operatori privati in seguito ad una procedura concorsuale competitiva.
La riforma del 1994, frutto di un compromesso tra posizioni inizialmente molto differenti, è stata approvata dall’80 per cento del Parlamento, in modo, quindi, molto consensuale (mentre quelle adottate in Italia sono state sempre caratterizzate da aspre fasi conflittuali). Anche le normative specifiche del 1998 hanno avuto una solida base consensuale; tramite queste normative si è definito un periodo transitorio che terminerà nel 2004 quando il nuovo sistema sarà interamente in vigore. In Italia, invece, il periodo transitorio è di 18 anni ma, secondo alcune stime, le ultime pensioni di reversibilità computate, almeno in parte, secondo il regime contributivo verranno erogate sino al 2060-2070. Il “contributivo svedese” è a più pilastri. Il pilastro pubblico è finanziato tramite un prelievo del 18,5 per cento su salari e stipendi (invece del 36 per cento circa in vigore in Italia). Questa aliquota complessiva è, a sua volta, in due parti: il 16,5 per cento serve a finanziare una pensione “contributiva” le cui prestazioni sono funzione, principalmente, dei versamenti e dell’età in cui si decide di andare a riposo; il 2 per cento alimenta una “pensione premio” ed è investito in un fondo pensione “a capitalizzazione” a scelta del lavoratore. Un secondo pilastro è rappresentato da fondi integrativi aziendali o categoriali (di norma finanziati tramite prelievi aggiuntivi del 2,5-3 per cento di salari e stipendi): rappresentano il 15 per cento delle erogazioni previdenziali complessive. Un terzo pilastro sono conti previdenziali individuali agevolati fiscalmente: il 5 per cento delle erogazioni previdenziali totali. Ogni anno, l’equivalente svedese del nostro Inps invia a ciascun iscritto una busta colore arancione che contiene una lettera con informazioni dettagliate sulla posizione previdenziale in base al pilastro pubblico; informative analoghe vengono mandate dai fondi pensione e da banche e finanziarie per quanto attiene “i conti previdenziali individuali”.
Unitamente a riforme per rendere più flessibile il mercato del lavoro ed incoraggiare il lavoro degli anziani (eliminando, in pratica, i limiti di età), il “contributivo alla svedese” sta avendo effetti positivi sotto il profilo sia economico sia finanziario. Proiezioni al 2050 suggeriscono che, nonostante l’invecchiamento della popolazione, la spesa pubblica per la previdenza aumenterà gradualmente dal 9 per cento al 10,7 per cento del Pil (e non ci saranno “gobbe” tali da portarla, come in Italia, al 17/19 per cento del Pil); il tasso di risparmio delle famiglie sul reddito disponibile ha raggiunto il 5,2 per cento nel 2001 (e stime preliminari per il 2003 lo pongono all’8,2 per cento) rispetto al 2,5 per cento del periodo a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Il tasso di occupazione degli anziani è elevato (il 66,5 per cento in media e il 69 per cento per gli uomini) sia rispetto alle medie europee, sia soprattutto riguardo alla situazione italiana (28 per cento in media e 40 per cento per gli uomini). Le differenze principali tra il “contributivo all’italiana” e quello “alla svedese” risalgono alla storia dei due sistemi previdenziali e non possono essere appianate in un lasso di tempo relativamente breve.
Un problema all’orizzonte in Svezia (come peraltro in Italia) è il meccanismo di indicizzazione delle pensioni pubbliche: agganciato solo all’indice dei prezzi al consumo non incorpora gli aumenti di produttività e, se tali aumenti sono sostenuti (pure grazie alla rivoluzione tecnologica in atto), comporta un impoverimento relativo dei pensionati, specialmente di quelli che hanno una lunga vita in quiescenza. Le riforme “sistemiche” adottate in Italia ed in Svezia possono rappresentare una soluzione ai problemi previdenziali dell’Ue? Naufragata l’idea di una “Maastricht previdenziale” (ossia di un accordo europeo sulle linea-guida ed i parametri da adottare), si profila una lenta e graduale “Lisbona previdenziale”, un confronto progressivo sulle prassi migliori da incorporare dei sistemi pensionistici dei singoli paesi dell’Ue analogo, sotto il profilo metodologico, a quello adottato dal Consiglio europeo del marzo 2000 per rilanciare la competitività e l’innovazione tecnologica in Europa. Ci sono lezioni che si possono già trarre dalle analisi comparate effettuate e dai dibattiti nei simposi internazionali a cui si è fatto cenno? Quali sono pertinenti sia alle discussioni in corso in Italia sia della posizione che ha l’Italia alla guida degli organi di governo dell’Ue? Delle tante, tre sono le più pertinenti ed urgenti.
In primo luogo, il passaggio a sistemi “contributivi” comporta tensioni tra due obiettivi contrastanti, ed impliciti in tutti i meccanismi previdenziali: il mantenimento dei livelli di reddito (per le fasce medie e medio-alte) e la ridistribuzione a favore di quegli anziani che in vita attiva hanno avuto bassi salari e frequenti periodi di disoccupazione od inoccupazione. Se non temperato, il “contributivo” pone a rischio soprattutto le donne (una volta raggiunta la terza età). Ciò implica tetti alle prestazioni meno elevati di quelli in atto in Italia (al fine di disporre delle risorse necessarie per ridistribuire a favore dei meno fortunati). Ciò vuole anche dire limiti al cumulo dei redditi da lavoro – quanto meno prima che siano stati raggiunti i 65 anni (età che in molti paesi del club del “contributivo” sta viaggiando verso i 67 anni). Ciò comporta anche “contributi di solidarietà” in capo ai beneficiari di pensioni più consistenti. Secondo Banca mondiale e Ocse, il tetto dovrebbe essere pari a quattro volte il salario medio (quindi, circa 2,500 euro al mese al lordo delle imposte). In secondo luogo, transizioni troppo lunghe da varie guise di “retributivo” a varie fogge di “contributivo” aggravano i problemi, prima di risolverli. La “gobba” previdenziale italiana viene spesso indicata come un esempio di questo fenomeno. Un’accelerazione delle fasi di transizione è auspicabile e deve essere studiata con cura. In terzo luogo, la gestione di “conti previdenziali individuali” alla base del “contributivo”, anche del pilastro pubblico, significa profonde modifiche nel funzionamento degli enti ed istituti di previdenza in Italia ed in gran parte degli altri paesi dell’Ue. Questo cambiamento è reso fattibile dalla net economy – come sviscera Robert Shiller nel suo ultimo libro – ma non si realizzerà senza un management all’altezza (aperto al resto del mondo ed accettato, dunque, nel club del “contributivo”) e senza vasti e profondi programmi di formazione del personale.
10 ottobre 2003
(da Ideazione 5-2003, settembre-ottobre)
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