Le riforme degli altri
di Angela Regina Punzi
Il governo di centrodestra ce l’ha fatta. Per la prima volta è
riuscito a far approvare un’importante riforma sociale scavalcando
l’opposizione sindacale, scioperi paralizzanti e gli slogan dei
manifestanti. No, nessuna azzardata anticipazione di ciò che
potrebbe avvenire in Italia, ma cronaca estratta dal passato della
Francia di qualche mese fa. Sì perché a Parigi, dalla presa della
Bastiglia nel 1789 in poi, le grandi scelte della politica sono
sempre state condizionate dalla “piazza”. Stavolta no. La
mobilitazione contro la riforma delle pensioni aveva risvegliato a
maggio circa un milione e mezzo di persone. Le solite divergenze
di numeri tra polizia e organizzatori non avevano potuto
nascondere la realtà della mobilitazione. E poi? L’adesione dei
settori nevralgici è andata via via scemando e la mobilitazione è
stata deludente tanto che nessuno ha più parlato di agitazioni.
Così, dopo mesi di furibonda battaglia politica, la riforma delle
pensioni in Francia voluta dal governo Raffarin è stata approvata,
vincendo l’opposizione, i sindacati più forti (Cgt e Fo) e la
minaccia di una dichiarazione di incostituzionalità per un
provvedimento che equipara i lavoratori del “service publique” a
quelli privati. Le nuove regole per le pensioni violano un tabù
francese: il privilegio del settore pubblico rispetto al privato
(che ha tassi di sindacalizzazione molto bassi e quindi non
sciopera quasi mai). Non ci sarà più differenza tra dipendenti
pubblici, che finora potevano ottenere il massimo dopo 37,5 anni
di contributi, e i privati. Per tutti i lavoratori saranno
necessari 40 anni di versamenti alle spalle a partire dal 2008.
L’età legale per andare in pensione è di 60 anni, ma il limite è
destinato a scivolare progressivamente verso i 65. La riforma
prevede infatti delle tappe: gli anni di contributi saliranno a 41
nel 2012 e a 42 nel 2020. Il regolamento prevede inoltre il
divieto per i datori di lavoro di mandare in pensione d’ufficio i
lavoratori prima dei 65. Incentivi e disincentivi sono previsti
invece se è il lavoratore a volersene andare prima del previsto.
Unico caso in cui si può lasciare il lavoro prima dei 60 anni è
per chi ha cominciato a lavorare all’età di 14-16 anni, ma solo se
ha versato contributi per 42 anni. Ed una novità: la pensione più
bassa non potrà essere inferiore all’85% del salario minimo
garantito, che Oltralpe è fissato ogni anno dal Governo. La
riforma è costruita su un’ipotesi ottimistica: una buona crescita
economica nei prossimi 17 anni ed una riduzione della
disoccupazione. Si prevede infatti di recuperare risorse dal fondo
per la disoccupazione riducendo quest’ultima in cinque anni dal
9,6% al 5%. E’ chiaro che sono da prevedere aumenti dei
contributi. La riforma salva dunque il “principio della
ripartizione”: i lavoratori in attività finanziano quelli in
pensione. Ma sul quanto e sul come è ancora tutto da decidere.
Anche Berlino si prepara alla svolta. Il progetto di riforma del
sistema pensionistico tedesco è stato recentemente presentato al
governo Schröeder dall’economista Bert Ruerup, che è alla guida di
una commissione di esperti che ha lavorato per nove mesi alla
stesura delle proposte. Il punto più controverso di un rapporto di
380 pagine è il suggerimento di aumentare da 65 a 67 anni l’età
della pensione a partire dal 2011. In realtà il problema non è
aumentare l’età pensionabile, ma evitare che la maggior parte dei
lavoratori vada in prepensionamento a 60 anni anziché raggiungere
il tetto dei 65. Tra le altre proposte della Commissione Ruerup,
quella di diminuire il livello di retribuzione dal 48 al 41,6 per
cento da qui al 2030 e di arrivare nel lungo periodo a una
proporzione tra pensione statale e pensione privata di 70 a 30 (in
America è di 50 a 50). Compito del governo è a questo punto
analizzare bene le proposte elaborate dagli esperti della
Commissione e farne la bozza preparatoria per un disegno di legge.
In una situazione di equilibrio precario per Gerhard Schröder che
deve far attenzione a non scontare ancora una volta l’elettorato
che dopo la batosta nelle ultime elezioni per il rinnovo del
Landtag di Monaco, ha chiesto al leader di concretizzare le
riforme promesse in campagna elettorale. Il governo ha assicurato
che terrà fede all’impegno di mantenere stabile al 19,5% nel 2004
i contributi pensione. Ma alla luce del calo delle entrate per la
cattiva congiuntura, già gli enti assicurativi hanno annunciato
che i contributi dovranno essere aumentati l’anno prossimo ad
almeno il 19,9%.
Anche in Austria le riforme del governo liberal-conservatore
guidato dal cancelliere Schüessel hanno segnato l’incrinarsi del
principio della collaborazione sociale. Il Sozialpartnerschaft era
stato il pilastro essenziale della politica austriaca che fino a
ieri aveva concesso alle parti sociali una vasta autonomia nelle
diverse fasi della concertazione. Anche qui però le pesanti
minacce da parte dei sindacati e dell’opposizione non hanno
fermato l’approvazione di una riforma delle pensioni che non
conosce uguali nella storia del sistema sociale austriaco.
Schüessel si è mosso sin dall’inizio nella direzione di un
contenimento della spesa pensionistica. La riforma approvata nel
giugno scorso stabilisce un progressivo aumento dell’età
pensionabile da 60 a 65 anni, e prevede sanzioni sui
prepensionamenti. Dal 2004 in poi chi sceglie di andare in
pensione anticipata subirà un taglio della pensione del 13,5%,
quota che fino al 2007 potrà arrivare fino al 16,5%. E’ stata
decisa inoltre una modifica sostanziale delle pensioni di
anzianità: non si potrà più accedere alla pensione completa dopo
40 anni di contributi, bensì solamente dopo 45. In Austria
attualmente la pensione corrisponde a circa l’80% della media del
proprio stipendio: ma il governo prevede in futuro di diminuire la
percentuale, calcolata oggi tenendo conto dei quindici anni in cui
l stipendio è stato più elevato. Cronache (estere) in Italia per
il momento solo annunciate.
10 ottobre 2003
a.punzi@libero.it
|