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              La secessione passivadi Giuseppe De Tomaso
 
 Che il federalismo all’italiana non fosse partito con il piede 
              giusto, lo si era intuito sin dal battesimo. Era auspicabile che 
              l’intera materia fosse studiata di concerto con le modifiche 
              costituzionali all’interno di una vera e propria assemblea 
              costituente. Si è preferito, invece, cominciare subito – con il 
              cosiddetto federalismo amministrativo – a Costituzione invariata. 
              Le conseguenze di quel peccato originale sono ormai sotto gli 
              occhi di tutti: non vennero stabiliti tempi e percorsi 
              d’attuazione della riforma; non venne studiato alcun progetto che 
              fissasse un modello fiscale nel passaggio dallo Stato nazionale 
              allo Stato federale.
 
 Per Rocco Palese, assessore regionale pugliese al Bilancio, argine 
              vivente contro la spesa facile, non ci sono dubbi sul fallimento 
              del federalismo amministrativo e sui pericoli del federalismo 
              fiscale. Dipendesse da lui o bisognerebbe eliminare tutte le 
              riforme in senso federalistico introdotte finora o sarebbe 
              addirittura conveniente per il Sud promuovere un’azione parallela 
              a quella di Bossi, una sorta di “secessione passiva”, uno 
              “sciopero bianco dei consumi”, tesi a ricordare all’Italia ricca 
              che se il prelievo fiscale è maggiore al Nord, vanno calcolati i 
              miliardi di euro che dal Sud salgono al Nord, sottoforma di 
              risparmi bancari, di acquisti di prodotti; per non dire delle 
              aziende collocate nel Mezzogiorno, ma che pagano le tasse al Nord 
              solo perché colà è la sede legale. Il Mezzogiorno deve insorgere 
              contro questo status quo, tuona Palese, questa dev’essere la sua 
              “secessione”.
 
              Il federalismo amministrativo ideato dal ministro Franco Bassanini 
              (Ulivo) avrebbe dovuto comportare una maggiore efficienza e 
              responsabilizzazione da parte della pubblica amministrazione. 
              Avrebbe dovuto significare anche, grazie alla riduzione dei costi, 
              un deciso calo della pressione fiscale. Pia illusione. La 
              confusione e la sovrapposizione di ruoli, funzioni e competenze è 
              cresciuta a dismisura. Idem l’inefficienza e la tassazione locale. 
              Per non parlare dei conteziosi tra i cittadini e gli enti 
              pubblici, e tra lo Stato e gli enti locali. Gli aumenti del 
              prelievo fiscale comunale sono più puntuali delle passeggiate 
              giornaliere della buonanima del filosofo Kant, con profondo 
              rincrescimento dei cittadini, vittime del federalismo all’italiana 
              fondato sul rialzo piuttosto che sul ribasso della pressione 
              tributaria.
              Tra addizionali, Ici e balzelli vari, dal 1995 in poi la 
              tassazione locale è cresciuta addirittura del 270 per cento. Nel 
              giro di poco tempo tutti i Comuni hanno deciso di appplicare 
              l’aliquota massima dell’imposta comunale sugli immobili. La spesa, 
              anzi lo sperpero, aumentano a dismisura, spesso per sostenere 
              clientele, consulenze, staff, missioni, viaggi. 
 Insomma tra decentramento amministrativo e riforma del Titolo 
              quinto della Costituzione, si è registrato un aumento dei costi, 
              una maggiore imposizione fiscale e la creazione di inaccettabili 
              doppioni, nei settori (agricoltura e turismo ad esempio) la cui 
              competenza è stata trasferita alle Regioni. Si è dimenticato che 
              chi finanzia la cassa è sempre uno, il contribuente. A voler 
              essere obiettivi, l’unico trasferimento vero, realizzatosi tra 
              Stato e periferia, riguarda l’inefficienza che si è spalmata 
              sull’intero territorio burocratico nazionale. In alcuni casi lo 
              Stato ha trasferito alcune funzioni alle Regioni, ma non il 
              relativo personale (con le risorse). In altri casi è accaduto il 
              contrario.
 
 La cartina di tornasole della confusione originata dal federalismo 
              all’italiana riguarda la sanità, che è destinata a sfociare in 21 
              modelli diversi (la Regione Trentino-Alto Adige ha poteri 
              limitati: le due province di Trento e Bolzano sono dotate di 
              poteri che nel resto d’Italia appartengono alle Regioni). Anzi, la 
              regionalizzazione già esiste, e siccome il capitolo sanità incide 
              circa l’80 per cento sui bilanci delle Regioni, è come se le 21 
              Regioni siano sin da adesso 21 Stati quasi autonomi. Altro che 
              secessione. Qualora non dovesse affermarsi il federalismo fiscale 
              solidale, si rischierebbe di favorire la disintegrazione, la 
              dissoluzione dello Stato nazionale.
              Alla Regione Puglia va dato atto di aver posto con forza la 
              questione del federalismo solidale, a cominciare dalla revisione 
              del decreto legislativo 56 del 2000, che penalizza la Puglia e il 
              resto delle regioni meridionali. Una sorta di decreto Robin Hood 
              alla rovescia: toglie ai poveri per dare ai ricchi. A regime, nel 
              2013, il “56” significherebbe, per la Puglia, un salasso finale di 
              600 milioni di euro.
 
 Federalismo orizzontale e verticale
 
 Il decreto Visco fonda il federalismo fiscale su quattro pilastri: 
              la quota di compartecipazione all’Iva; la quota di concorso alla 
              solidarietà interregionale; la quota da assegnare a titolo di 
              fondo perequativo nazionale; le somme da erogare a ciascuna 
              regione da parte del Tesoro. I governatori del Sud, Fitto su 
              tutti, muovono un’obiezione di fondo: essenso le loro regioni più 
              deboli sul piano produttivo, versano meno Iva di quelle del Nord e 
              quindi il ritorno del gettito è di gran lunga inferiore rispetto a 
              quelle del Nord. Di qui la reazione di Fitto che ha denunciato il 
              decreto 56 chiedendo al governo di intervenire per cambiare i 
              parametri di distribuzione, che ora producono situazioni 
              paradossali e beffarde, come quella che vede l’Emilia Romagna 
              beneficiare, per la sanità, di mille miliardi l’anno in più di 
              vecchie lire pur avendo meno abitanti della Regione Puglia. Sarà 
              ora il governo a pronunciarsi sull’applicazione del decreto 56. 
              Allo stato attuale l’Italia delle Regioni è divisa in due: il Nord 
              capitanato da Formigoni, il Sud da Fitto.
 
 Fatta eccezione per il Belgio (il cui percorso fallimentare ha 
              anticipato quello scelto dall’Italia) negli altri Stati federali è 
              in atto un processo inverso. Intanto non ci sono vincoli assai 
              rigidi (in Svizzera i cantoni decidono annualmente la ripartizione 
              del 15 per cento da distribuire sul territorio). Secondo, i 
              dissesti finanziari di realtà come la California stanno inducendo 
              gli Stati Uniti a rafforzare le funzioni del governo di 
              Washington.
              Ma c’è un altro macigno, alto quanto una casa, che si oppone 
              all’introduzione del federalismo fiscale integrale: la 
              ripartizione del debito pubblico. Si chiede Rocco Palese: “Primo: 
              come faranno le Regioni a mettersi d’accordo sulla divisione del 
              debito pubblico? Secondo: parte del debito pubblico è stata 
              contratta dallo Stato con diversi investitori e istituzioni 
              internazionali. Saranno disposti, quest’ultimi, a rinegoziare il 
              debito con una ventina di governi locali? Ecco perché il modello 
              di federalismo non può essere orizzontale, ma solo verticale”. 
              Palese teme sul serio il rischio di disintegrazione del paese.
 
 Rotta l’unità legislativa e amministrativa, via tutti i controlli, 
              dice, non resta che il patto di stabilità quale argine alla 
              dissoluzione. L’autonomia rischia di sfociare in un’autentica e 
              pericolosa anarchia, con l’esaltazione di tutti gli aspetti 
              egoistici, favoriti anche dall’estrema varietà dei sistemi 
              elettorali e istituzionali, il cui effetto più singolare è che il 
              premier possiede minori poteri di governo rispetto ai presidenti 
              delle Regioni eletti direttamente dai cittadini e forniti di 
              incisivi poteri di deterrenza nei confronti sia dell’assemblea 
              consiliare sia degli alleati, sia degli stessi assessori. Lo 
              squilibrio è evidente. I governatori governano forti 
              dell’investitura popolare e di poteri incisivi, il presidente del 
              Consiglio, pur essendo “indicato” dagli elettori, è costretto 
              spesso a continue mediazioni con gli alleati, perché non possiede 
              alcuni poteri tipici di un primo ministro (revoca dei ministri, 
              scioglimento delle Camere).
 
 In sintesi. Gli aspetti penalizzanti per il Sud – secondo la 
              Regione Puglia - sono il federalismo fiscale e i criteri di 
              riparto della spesa sanitaria, che abbiamo visto, sottraggono alla 
              Puglia mille miliardi l’anno di vecchie lire. Quest’ultimo 
              problema ne genera un altro. Quale dovrebbe essere il criterio per 
              il Fondo di perequazione che dovrebbe mitigare i contraccolpi del 
              federalismo fiscale? Uno potrebbe essere la cosiddetta “spesa 
              storica”. Ma non sarebbe facile mettersi d’accordo. Il Nord 
              intende calcolare la spesa storica sulla base della legislazione 
              ordinaria del passato, la Regione Puglia ribatte che la spesa 
              storica va calcolata tenendo ben presente che nei decenni scorsi 
              molti interventi di carattere ordinario (persino la costruzione 
              dei cimiteri) sono stati realizzati con i fondi della legislazione 
              straordinaria. Insomma, il contenzioso è assicurato. Palese va giù 
              duro: “Sui criteri di determinazione della spesa storica siamo 
              intransigenti. Come sarebbe a dire che bisogna tenere conto della 
              spesa storica “tradizionale” per il federalismo fiscale, e non 
              tener conto di nulla per il riparto dei fondi della sanità? Perché 
              in questo caso non c’è spesa storica che tenga? Perché la Puglia 
              dovrebbe stare zitta di fronte al fatto che a parità di abitanti, 
              l’Emilia riceve ogni anno, per la sanità, mille miliardi in più di 
              vecchie lire rispetto ad un’analoga regione meridionale? Non è 
              possibile, faremo un’opposizione durissima. Mica possiamo andare 
              in Conferenza Stato-Regioni a prendere il caffè”.
 
 Conclusione. Per il Mezzogiorno il federalismo non è il diavolo, 
              ma a condizione che riduca i costi, snellisca le procedure, 
              aumenti l’efficienza, non gravi sulle tasche dei cittadini, e 
              soprattutto non pregiudichi l’unità nazionale. I risultati 
              ottenuti finora non autorizzano all’ottimismo. Anzi. “La modifica 
              dei criteri di riparto dei fondi per la sanità e il decreto 56 – 
              sostiene Palese – complessivamente significano in 12 anni 5 
              miliardi di euro in meno per il Sud. Neppure le due guerre 
              mondiali hanno procurato un danno simile al Mezzogiorno”.
 
 5 novembre 2003
 
 (da
              Ideazione 5-2003, settembre-ottobre)
 
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