“Finalmente risorse per le imprese”
intervista a Gianfranco Miccichè di Angela
Regina Punzi
A parlare è il viceministro dell’Economia, Gianfranco Miccichè. Lo
fa con soddisfazione per quanto è stato fatto, con trepida attesa
per il riscontro dei risultati ed impaziente impegno per quanto
c’è ancora da fare. Parla del meccanismo del nuovo Fondo unico per
il Mezzogiorno. Delle risorse finalmente liberate, prima
impantanate in leggi tortuose. Di come l’idea gli sia stata
all’inizio contrastata, e di come invece, grazie alla
realizzazione di quell’idea, sia stato possibile portare al 49 per
cento il tetto per l’utilizzazione dei crediti d’imposta sugli
investimenti per le imprese. Dei rapporti, collaborativi, col
ministro Marzano, delle richieste avanzate da Confindustria e che
si è riusciti, abbondantemente, a soddisfare. Insiste sulla
scommessa in infrastrutture; di come, poco per volta, si debbano
rosicchiare risorse agli aiuti di Stato fino a mettere le imprese
del Sud nelle condizioni di “poter far senza”. Della ricerca di
uno strumento che sia alternativo agli incentivi automatici, come
il credito d’imposta, e a quelli “a bando”, come la 488/92.
Dell’invito, e della provocazione, al sistema bancario meridionale
a rischiare di più, scommettendo sullo sviluppo del territorio:
non basta aver cambiato la proprietà, è necessario cambiare il
metodo di gestione. Si può e si deve puntare su una nuova Cassa
per il Mezzogiorno, che però preservi l’antica missione di
Beneduce e Menichella, quella ancora incontaminata. Il
preoccupante e persistente dualismo Nord-Sud non scoraggia ma è di
stimolo al recupero del gap infrastrutturale e produttivo.
Come è nata l’idea del nuovo Fondo per il
Mezzogiorno?
L’8 luglio dello scorso anno ci siamo trovati nel panico perché il
credito d’imposta in investimenti ed il bonus occupazione “stavano
tirando”, cioè stavano utilizzando risorse in quantità maggiori
rispetto a quanto era stato stanziato nelle precedenti
finanziarie. L’utilizzo di questo strumento, senza un adeguato
controllo, aveva portato ad un esubero, ad uno splafonamento del
tetto stabilito. Abbiamo quindi dovuto bloccare quella manovra,
con tutte le polemiche che ne sono conseguite pur sapendo che
esistevano tutta una serie di eccessi di risorse nella legge 488,
nei contratti di programma, nella vecchia legge 64, nella stessa
legge 288 per i fondi destinati alle regioni che non venivano
utilizzate. Siamo stati costretti a creare una situazione di
grande disagio e confusione pur sapendo di avere moltissime
risorse in un altro cassetto che però non potevamo prelevare.
Prima di allora avevo già discusso col ministro Tremonti la
possibilità di creare un Fondo unico per il Mezzogiorno ma non era
stata presa ancora nessuna decisione. In quella situazione di
disagio decidemmo di accelerare la creazione del Fondo unico.
Quali tipi di vantaggi ha creato il Fondo
unico?
Abbiamo creato la possibilità di destinare le risorse a
disposizione allo strumento che in un determinato momento sta
tirando di più. Abbiamo così costruito un unico “cassetto”, e non
più tanti cassetti in cui erano chiuse a chiave tutte le risorse
disponibili. Questo perché in passato gli stanziamenti venivamo
effettuati nella singola legislazione, ed erano quindi
stanziamenti per legge. Mettendo invece tutte le risorse in un
unico cassetto, quelle leggi sono diventate leggi normative e non
più finanziarie. Nell’ultima finanziaria abbiamo preso il totale
delle risorse a disposizione e le abbiamo assegnate al Fondo unico
per il Mezzogiorno indicando al Cipe una previsione di spesa di
quelle risorse nei vari fondi. Abbiamo quindi liberato tante
risorse che esistevano ma di cui nessuno poteva disporre perché
vincolate a leggi non ancora abrogate ma che, di fatto,
contenevano molte risorse.
Come funziona il meccanismo dei vasi
comunicanti tra i due ministeri?
Agli inizi questa legge mi fu molto contrastata, alla fine però si
è arrivati ad un compromesso che ha comportato la creazione di due
Fondi unici: uno per il ministero dell’Economia ed uno per il
ministero delle Attività produttive. Si disse che poiché sono
ministeri distinti, ci dovessero essere due tipi di fondo. Poiché
il ministro dell’Economia presiede il Cipe, si temeva che il
nostro ministero potesse prendere soldi in realtà destinati ad
altri. In più il Cipe è un comitato interministeriale al quale
partecipano tutti i ministeri, quindi pensare che qualcuno potesse
fare i suoi giochi davanti a tutti senza che nessuno se ne
accorgesse, è impossibile. Si decise comunque che nel momento in
cui fosse stato necessario trasferire risorse da un fondo
all’altro, dall’Economia alle Attività produttive o viceversa,
questa operazione dovesse avvenire in un Cipe presieduto dal
presidente del Consiglio.
Lei è stato però ugualmente accusato di aver
“scippato” soldi al ministro Marzano…
In realtà, non è stato scippato nulla, al di là di quello che
hanno lasciato intendere i giornali. Anzi: lo stesso Marzano è
stato il primo a favorire il funzionamento del Fondo unico. Così
il rimborso che quest’anno sarà destinato alle imprese per il
credito d’imposta nell’ambito della cosiddetta Visco Sud è passato
dal 10 per cento al 49 per cento e di conseguenza il debito che lo
Stato rimborserà alle imprese sarà di 1.198 milioni di euro contro
i 400 precedentemente previsti. La Visco Sud non prevedeva alcun
tipo di regole sull’utilizzo del credito d’imposta, ed infatti è
stata utilizzata in passato da banche, dentisti, avvocati… Era un
credito d’imposta “per tutti”. Noi invece abbiamo prettamente
finalizzato il credito d’imposta a quelle attività che riteniamo
utili per lo sviluppo del territorio. Inoltre la Visco Sud non
prevedeva alcuna temporaneizzazione, cioè non indicava quanto si
dovesse investire entro l’anno. Quando abbiamo chiesto a tutti
coloro che avevano fatto domanda di specificare quanto in effetti
era di pertinenza dell’anno 2002-2003, dopo 14 mila accertamenti è
risultato che per quest’anno i rimborsi effettivi ammontavano a
2445 milioni di euro. Le imprese del Sud che avevano fatto ricorso
al credito d’imposta prima dell’8 luglio potranno così scontare
già quest’anno il 49 per cento del bonus maturato. Questa cifra è
superiore sia a quella ipotizzata inizialmente dal governo, del 10
per cento, che a quella richiestaci da Confindustria, che aveva
fatto pressione perché si arrivasse almeno al 25 per cento.
Volendo accontentare Confindustria abbiamo così accelerato i tempi
di individuazione e di recupero delle risorse non spese nell’anno.
Questa accelerazione ci ha portato a scoprire una quantità di
risorse che, onestamente, non ci aspettavamo.
Come avete fatto a coprire l’incremento di
risorse necessario al credito d’imposta per gli investimenti?
A coprire questo incremento di risorse hanno contribuito 800
milioni di euro di vecchie disponibilità non spese negli anni
precedenti. Inoltre, il ministero delle Attività produttive, a
dimostrazione che non c’è stato alcuno scippo, ci ha comunicato
che dopo una rivisitazione delle loro previsioni, è emersa la
disponibilità di 310 milioni di euro provenienti dal bando
industria della 488. Da Sviluppo Italia abbiamo attinto altre
risorse che altrimenti non sarebbero sicuramente state spese
poiché il prestito d’onore è partito in ritardo. Abbiamo già
verificato che presto potrebbero liberarsi ulteriori risorse.
Questa è stata per me la massima soddisfazione: dimostrare in un
solo colpo tutti i guadagni del Fondo unico.
Quali sono gli altri vantaggi che avete
riscontrato?
Il Fondo unico ci consente di fare esperimenti. Ad esempio il
contratto di localizzazione ed il contratto di filiera sono due
nuove leggi, due esperimenti. In passato se si faceva una legge si
dovevano mettere a disposizione subito molte risorse. Oggi invece
sappiamo di avere a disposizione per ciascuno di questi due nuovi
strumenti cento milioni di euro. Queste risorse sono state messe
da parte nel Fondo unico in attesa che si parta: se i due
strumenti funzionano e tirano, usufruiranno di queste risorse,
altrimenti avremo liberi duecento milioni di euro da utilizzare
altrove. Questa è sinceramente una grande intuizione: finalmente
vengono spesi tutti i soldi stanziati per il Mezzogiorno. C’è
anche un altro risultato non immediatamente riscontrabile ma che
sono assolutamente certo si manifesterà nei prossimi mesi. Durante
le precedenti finanziarie si formavano inevitabilmente singoli
gruppi di “sponsor”, di supporto per uno strumento o per un altro,
gruppi di parlamentari che premevano perché si mettessero soldi
nella 488, piuttosto che nel prestito d’onore, o nel credito
d’imposta… Così facendo spesso si finiva col sottrarre risorse
potenzialmente destinate ad investimenti in infrastrutture. Quando
poi nel corso dell’anno risultava evidente che tutti gli
appostamenti nei vari strumenti agevolativi non venivano
utilizzati, erano due i danni: primo non si spendeva e secondo
erano state sottratte risorse agli investimenti in infrastrutture.
Quindi non solo non si utilizzavano i soldi stanziati ma si
rallentava la realizzazione di infrastrutture. In passato mai,
dico mai, prima di oggi gli investimenti in conto capitale nel Sud
hanno superato gli aiuti di Stato: nelle regioni del Mezzogiorno
gli aiuti di Stato sono sempre stati superiori agli investimenti
in infrastrutture. Noi invece abbiamo impostato una strategia
politica per il Mezzogiorno che si sviluppa esattamente in senso
opposto. È inutile continuare ad erogare aiuti di Stato perché il
territorio diventi competitivo: questi altro non sono che
compensazioni di carenze strutturali, ed anche se erogati a vita
saranno sempre compensazioni.
Lei pensa che tra infrastrutture ed
incentivi, siano le prime ad attivare più intensamente il processo
di crescita?
Senza dubbio. Se gli incentivi sono di compensazione non servono
alla competitività, servono solo alla sopravvivenza. Sono sì
assolutamente necessari per la sopravvivenza ma non si può
continuare ad erogarli all’infinito. L’Irlanda, ad esempio, al
contrario dell’Italia, è riuscita ad accelerare la sua crescita
perché nei primi cinque anni ha fatto solo investimenti in
infrastrutture, solo in seguito il governo irlandese è intervenuto
con aiuti di Stato. In Italia sappiamo di non poter abolire gli
incentivi perché così facendo il sistema crollerebbe, senza di
questi le imprese meridionali morirebbero. Abbiamo però deciso di
investire quanto più è possibile in infrastrutture così da far
diminuire il gap infrastrutturale che abbiamo col resto
dell’Italia e dell’Europa. Quando avremo un gap infrastrutturale
bassissimo o addirittura zero, si libereranno ulteriori risorse
che potranno diventare aiuti di competitività. Le aziende del
Mezzogiorno avranno così la possibilità di essere competitive
rispetto alle aziende dei paesi interessati nell’allargamento
dell’Unione europea. I paesi dell’Est hanno infatti oggi un enorme
vantaggio: avere un costo del lavoro cinque volte inferiore al
nostro. In un mercato comune le nostre aziende rischierebbero di
soccombere. Se però acceleriamo il processo di infrastrutturazione
del territorio, i nostri aiuti di Stato diventeranno aiuti utili a
farci competere con quelle nazioni che hanno un costo del lavoro
inferiore al nostro. Si dovrebbero abbassare i costi delle aziende
con un fisco differenziato nel Mezzogiorno, dando la possibilità
di creare un prodotto migliore, più competitivo e con
caratteristiche innovative, investendo in ricerca e sviluppo.
Questa è la strategia che stiamo portando avanti col Fondo unico.
Dunque non è più nemmeno un problema di
risorse?
Oggi non più. Oggi abbiamo un Fondo unico ricco che ci consente di
investire molto. Lo dimostra il fatto che nel primo anno di
nascita del Fondo unico abbiamo avuto un trasferimento per
investimenti alle regioni del 70 per cento in più rispetto
all’anno precedente. E questo è il risultato immediato che abbiamo
avuto, di cui però verificheremo il frutto maturo tra qualche anno
quando vedremo la Palermo-Messina finita, la Salerno-Reggio
Calabria completata... Abbiamo messo in piedi un meccanismo
virtuoso che possa sostenerci nell’appuntamento del 2004 con
l’ingresso dei nuovi paesi nell’Unione europea.
Gli incentivi automatici, come il credito d’imposta sono da
preferirsi agli incentivi “a bando”, come la 488/92, oppure no?
Gli imprenditori sembrano gradire soprattutto gli incentivi
automatici. Mi permetto di dire che secondo me sono sbagliati gli
uni e gli altri. Nel senso che il credito d’imposta potrebbe
essere positivo poiché è uno strumento che eroga più velocemente
gli aiuti, e di conseguenza sarebbe negativa la legge 488. È anche
vero, però, che è meglio sapere accuratamente ed in anticipo qual
è il progetto che si sta finanziando: in tal caso sarebbe negativo
il credito d’imposta e positiva la 488. In questo momento stiamo
studiando delle soluzioni alternative per individuare la
possibilità di compiere un’istruttoria più veloce e più garantita.
Se ad esempio le banche si impegnassero ad investire nel progetto
che istruiscono, sicuramente l’istruttoria sarebbe più accurata,
perché in tal modo le banche parteciperebbero al rischio
d’impresa. Le banche dovrebbero capire che investirebbero nella
crescita del Mezzogiorno anche per un loro stesso guadagno. Oggi
abbiamo un sistema non virtuoso, se vogliamo non sano, che va
sradicato. Sono d’accordo però con chi è contrario ad abolire in
un solo colpo la 488: il cambiamento deve essere graduale ed
accompagnato, ed ogni azienda deve poter decidere quando è il
momento giusto per sé di cambiare. Ha ragione D’Amato nel dire che
se da un giorno all’altro si cambia il sistema, crolla tutto. La
488 deve sì rimanere, ma ogni giorno deve essere utilizzata meno,
sostituendola man mano con strumenti che mettano le banche
nell’obbligo di fare istruttorie serie, che mettano le banche
nell’obbligo di finanziare la crescita e non le passività, che
creino cultura d’impresa, che creino quella virtuosità che oggi
non c’è. Stiamo dunque studiando un percorso “soft” di abbandono
graduale della 488 e di crescita graduale di un nuovo strumento
che crei uno sviluppo virtuoso delle regioni del Sud.
Gli ultimi anni sono stati caratterizzati
dalla scomparsa delle grandi banche meridionali ed oggi il Sud è
diventato territorio per la raccolta, ma non per gli impieghi,
delle banche del Nord.
L’attuale sistema del credito alle imprese che esiste oggi a
Napoli, a Bari, a Reggio Calabria, a Palermo… è il sistema creato
dal Banco di Napoli, dal Banco di Sicilia, dalla Cassa di
Risparmio della Puglia. Queste sono banche pubbliche che
obbligatoriamente subivano l’opinione pubblica ed erano
condizionate dalla politica. Spesso continuavano a finanziare
imprese che erano già fallite sol perché alle spalle c’era una
richiesta pubblica. Sono state quelle banche ad annientare la
cultura d’impresa al Sud, quindi non dobbiamo rimpiangere la
scomparsa di quei gruppi bancari meridionali. Oggi le nuove banche
che troviamo al Sud hanno sì una proprietà nuova, ma conservano lo
stesso management che c’era prima, con la stessa mentalità di
prima. La mia forte polemica con le banche nasce da questa
considerazione, e va oltre il costo del credito più elevato a Bari
rispetto a Milano. Quindi le banche oltre a cambiare la proprietà
dovrebbero cambiare anche metodo lasciando spazio a sportelli di
altre banche che invece abbiano già capito quanto sia importante
partecipare allo sviluppo del territorio. Perché altrimenti
rischiamo di avere banche che non solo non ci aiutano nella
crescita, ma non lasciano spazio a banche più moderne, più serie e
soprattutto più disponibili a rischiare. Si ha bisogno di rischio
e di scommessa. Così come lo Stato sta scommettendo e rischiando
sullo sviluppo del Mezzogiorno, perché non possono farlo anche le
banche? Avere un nuovo sistema creditizio nel Mezzogiorno
significa, quindi, o cambiamento nel metodo delle banche attuali,
o possibilità di insediamento di nuove banche, con metodi diversi
ed innovativi rispetto a quelli attuali. Oggi purtroppo non esiste
una struttura reale che sappia gestire intanto in maniera seria
gli incentivi.
I dati riportati dalla Svimez nel suo ultimo
rapporto sullo stato dell’economia nel 2002, mostrano un
Mezzogiorno d’Italia più arretrato della Germania Est e un Nord
d’Italia più ricco della Germania Ovest. Come verrà affrontata la
questione del neodualismo italiano?
La Germania dell’Ovest e la Germania dell’Est sono entrambe nel
cuore dell’Europa, al contrario del Sud d’Italia. Esiste quindi
innanzitutto un problema geografico che diventa handicap
geoeconomico. Chi produce a Palermo ha un aggravio di costi per
portare oltr’Alpe i propri prodotti mentre i tedeschi non accusano
questo incremento di costi per i trasporti. Inoltre Germania Est e
Germania Ovest sono stati due paesi autonomi fino al 1989, quindi
non c’era il rischio che nella Germania dell’Est venissero
prelevati fondi destinati poi alla Germania dell’Ovest. In Italia
non è stato così: mentre nel Mezzogiorno si erogavano incentivi di
sopravvivenza, le infrastrutture venivano costruite altrove.
Quindi le risorse al Sud non solo erano poche, ma venivano pure
tolte per le grandi opere da erigere al Nord. E le responsabilità
di questa situazione sono in parte geografiche ed in parte,
seriamente, politiche. Io credo che la ripresa del Sud sia in una
nuova Cassa del Mezzogiorno. Si deve recuperare la logica con cui
è nata la Cassa, prima che quella logica fosse abbandonata,
venisse cambiato il suo statuto e quindi la sua missione. La Cassa
per il Mezzogiorno che doveva essere la Cassa infrastrutturale per
il Mezzogiorno, nel giro di pochi anni diventò la Cassa che
erogava denaro nel Mezzogiorno.
Nell’Ue a 25 Stati non si corre forse il
rischio di aiutare i nuovi poveri, i paesi dell’Est aderenti,
trascurando i vecchi poveri, quelli delle regioni in ritardo di
sviluppo degli attuali paesi membri?
Tutti i 15 paesi dell’attuale Unione europea hanno voluto
l’allargamento, oggi quindi non si può non essere coerenti con
quella decisione. In Europa entreranno in una prima tornata altri
10 paesi complessivamente e decisamente più poveri dell’attuale
Unione europea, ma, attenzione, non sempre più poveri di singole
regioni dell’attuale Unione europea. Io chiedo di lavorare con
coerenza nell’interesse di tutta l’Europa perché si costruisca
un’Europa quanto più è possibile uniforme da un punto di vista
economico. Soltanto un’Europa uniformemente costituita può essere
un’Europa forte, politicamente credibile ed economicamente valida.
Inoltre solo in una situazione di complessiva uniformità si può
garantire la pace. La pace tra paesi con dislivelli economici
fortissimi è difficile da mantenere. Basta pensare ad un paese
come l’Italia, democratico per eccellenza, ma dove già il
dislivello Nord-Sud crea comunque tensioni, nonostante parliamo la
stessa lingua, abbiamo lo stesso governo, uno stesso presidente
della Repubblica. Insomma tutta una serie di condizioni per cui
oggettivamente, nonostante il dislivello economico che ancora
esiste tra Nord e Sud d’Italia, siamo nelle condizioni ideali
perché non succeda mai nulla. E nonostante questo ci sono sempre
forti tensioni. Immaginiamo cosa potrebbe succedere tra paesi così
diversi, con lingue molto diverse e con governi possibilmente
contrapposti politicamente. In una situazione del genere se ci
sono anche forti dislivelli economici, e ognuno teme che gli
vengano sottratte risorse, le tensioni sono amplificate.
L’allargamento dell’Unione europea è nato invece per garantire la
pace, l’uniformità, il sostegno alle aree più svantaggiate. È
dunque necessario garantire un flusso di risorse verso quei paesi
aderenti in modo tale da metterli nelle condizioni di uniformarsi
il più velocemente possibile alle realtà economiche dei 15 paesi
dell’Unione attuale. La creazione di questi nuovi aiuti non deve
però indebolire quelle che sono ora le parti più deboli
dell’Unione a 15.
In che cosa la proposta italiana di riforma
della politica regionale europea, presentata nel Secondo
Memorandum del 14 dicembre 2002, si differenzia rispetto alla
proposta del governo inglese?
La proposta inglese è di dare soldi a quelle nazioni che sono
complessivamente povere. La nuova Europa non può più continuare a
dare tanti soldi per un figlio handicappato a famiglie
miliardarie, si pensare alle famiglie complessivamente
svantaggiate. Secondo il governo inglese quindi non si possono più
dare risorse allo Stato italiano che ha complessivamente un Pil
pro capite superiore alla media europea solo perché ha delle aree
in ritardo di sviluppo. Questo problema dovrebbe essere risolto
all’interno dello Stato italiano. Questo se vogliamo è il lato
positivo della proposta inglese. In realtà questa posizione
nasconde un interesse personale, interno al governo britannico: la
Gran Bretagna è un paese che comunque perderebbe gli aiuti
europei. Non aiutando però neanche Germania ed Italia, suoi paesi
concorrenti, ci sarebbe perdita di competitività da parte delle
imprese italiane e tedesche, ed un rafforzamento della posizione
delle imprese inglesi sul mercato comune. La posizione italiana
invece parte dal presupposto che non si può pensare di aiutare i
nuovi Stati aderenti abbandonando le attuali aree svantaggiate.
Inoltre, se l’Europa riuscisse a garantire la crescita del
Mezzogiorno con i soldi italiani, e non europei, le regioni del
Sud potrebbero essere ugualmente soddisfatte, ma con conseguenze
negative: l’Europa obbligando la Lombardia a finanziare le regioni
del Sud metterebbe in conflitto regioni interne allo Stato
italiano perché limiterebbe la crescita della Lombardia e quindi
la sua competitività sul mercato europeo. Si costringerebbero le
regioni che creano ricchezza a privarsi di questa ricchezza per
darla alle regioni povere. L’Italia è pertanto contraria ad una
rinazionalizzazione dei fondi strutturali. L’Italia si presenta in
Europa con un documento fortissimo che espone la proposta del
nostro governo di riforma della politica regionale europea. Tutte
le parti politiche e sociali hanno votato all’unanimità questo
documento che ribadisce l’importanza delle politiche di coesione
regionale, ed in Europa è stato accolto con soddisfazione. Anche
di questo siamo orgogliosi.
5 novembre 2003
(da
Ideazione 5-2003, settembre-ottobre)
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