E’ l’euro la causa dell’impazzimento
globale
di Angela Regina Punzi
“Sarebbe davvero un peccato se l’Europa fosse condannata ad
oltranza alla tirannia dello status quo”. Dalle colonne de Il
sole 24 ore Milton Friedman, premio nobel per l’economia, spiega
che il vero male dell'Europa è nella sua storica, eccessiva,
rigidità che ha portato alla creazione di modelli istituzionali
altrettanto rigidi, con "troppe autorità centrali più
burocratiche che democratiche". Esce dal coro Friedman,
sostenendo che più che il Patto di Stabilità è la moneta unica
che mina le economie europee. L'euro si trova in una situazione
di sopravvalutazione, ed economie come quella tedesca ed
italiana che poggiano molto sulle esportazioni ne soffrono. Ai
livelli attuali “l'euro scardina le economie invece di
aiutarle": Friedman avanza così l'ipotesi di un futuro collasso
per la nostra moneta unica o - scenario meno apocalittico - per
lo meno di una sua consistente svalutazione. Occorre allora
migliorare le politiche interne, ridurre le tasse, introdurre
flessibilità sui salari e sulla mobilità del lavoro, maggiore
concorrenza tra le aziende. "Occorre insomma trasferire al
mercato il traino portante per la crescita".
Nel suo puntuale Economic Outlook n.74, l’Ocse, l’Organizzazione
per la cooperazione e lo sviluppo industriale, sostiene che la
ripresa è già iniziata in Asia, Nord America, Gran Bretagna e
“malgrado la perdurante debolezza interna” anche in Europa. Nel
2004 il tasso di crescita dei paesi industrializzati sarà del 3%
ma l’economia statunitense segnerà una ripresa più decisa:
+4,2%. Al contrario la crescita in Europa procede ancora a
piccoli passi: nel 2003 il Pil salirà dello 0,5% mentre l’anno
prossimo e nel 2005 rosicchierà qualcosa in più, rispettivamente
dell'1,8% e del 2,5%. Se infatti la ripresa in Eurolandia è oggi
frenata dal super-euro e dalla scarsa fiducia dei consumatori,
si prevede nei prossimi due anni un miglioramento della
situazione attuale legato al buon andamento del mercato
azionario, al rafforzamento dei bilanci della grandi società,
all’aumento degli investimenti e del commercio mondiale e ai
tassi d’interesse.
In Italia, Germania e Olanda la fiducia delle famiglie e delle
imprese resta per il momento su livelli bassi, la disoccupazione
continua a salire (nel 2004 dovrebbe raggiungere un picco del
9%) e la produzione industriale deve ancora mostrare un
sostenuto trend rialzista. Il Pil italiano dovrebbe registrare
quest’anno un tasso di crescita pari a mezzo punto percentuale,
mentre per il 2004 la crescita dovrebbe essere dell’1,6%. Eppure
queste sono stime certamente migliori rispetto a quelle indicate
per l’economia francese e tedesca: in Francia la crescita nel
2003 sarà dello 0,1% per poi recuperare nel 2004 all’1,7%; in
Germania l’Ocse stima un Pil immutato nel 2003 e nel 2004 un
+1,4%. Continua ad essere positiva invece l’economia spagnola.
Nel terzo trimestre dell’anno il Pil del paese iberico è
cresciuto del 2,4% rispetto allo stesso periodo del 2002 e anche
l’occupazione ha fatto registrare un aumento consistente: tra
luglio e settembre ha creato ben 293.000 posti di lavoro netti.
Il periodo non è casuale perché coincide con l’alta stagione del
turismo, uno dei settori più importanti dell’economia spagnola.
Resta la pessima situazione dei conti pubblici europei. Tra il
1997 e il 2000-2001 c’era stato un miglioramento: il debito
pubblico si era ridotto dal 75% a circa il 70%, con una
riduzione anche degli indebitamenti netti. Ma dopo il 2001 il
rallentamento nelle economie dei paesi europei si è accompagnato
talvolta ad un forte peggioramento dei conti pubblici. In
Francia e Germania l’indebitamento netto ha superato nel 2002, e
nel 2003 supererà di parecchio, il limite del 3% imposto dal
Patto. Non si dimentichi inoltre che anche i dieci nuovi paesi
dell’Europa centro-orientale che stanno per entrare nell’Unione
Europea hanno conti pubblici molto fragili. Per molti di essi
rispettare il vincolo del 3% è praticamente impossibile. Il
livello degli investimenti pubblici è in molti casi triplo di
quello dei paesi della Ue: ciò si giustifica con le esigenze di
ammodernamento delle infrastrutture, che però ha fatto
registrare deficit pubblici dell’ordine del 4-5% del Pil in un
periodo di crescita. E’ dunque molto probabile che i nuovi
aderenti alla Ue avranno anche al momento del loro ingresso
deficit strutturali nettamente superiori al 3%. E dalla
violazione degli accordi di Francia e Germania rischiano di
imparare proprio la lezione sbagliata.
5 dicembre 2003
a.punzi@libero.it
|