| Zelig 8. Paolo Magone, il cabaret si fa 
              sperimentale di Myriam D’Ambrosio
 
 Ha un volto antico, incorniciato da una selva di capelli che hanno 
              il colore della cenere. La figura è snella, nervosa come i suoi 
              gesti e gli occhi regalano inquietudine. In una vita precedente 
              era con certezza un nobile signore che, a causa di un insano amore 
              verso le tavole di palchi improvvisati nelle piazze, rinunciò alle 
              sue comodità per recitare con il costume di Capitan Spaventa e 
              comporre scenari per la sua compagnia. Paolo Migone, attore, 
              autore e regista, è facile immaginarselo così: immerso nelle 
              nebbie padane che gesticola facendo cerchi nell’aria con la sua 
              penna di piuma d’oca mentre prova una nuova scena. Studiava 
              agraria a Pisa (ma lui è livornese) ma un corso di mimo 
              frequentato un po’ per noia e un po’ per curiosità, lo mandò in 
              crisi sulle scelte da fare per il futuro e lo avvicinò al teatro. 
              “Da allora mi è entrato dentro il virus - ammette Paolo - quando 
              facevo la “maschera neutra” i miei compagni ridevano. Decisi di 
              trasferirmi a Roma e mi esibii in uno spettacolo di mimica con la 
              regia di Giancarlo Cobelli (debuttammo a Verona). Per otto mesi, 
              poi, ho lavorato con Gustavo Frigerio per il suo Teatro Danza, 
              puro teatro di ricerca. A Roma vivevo con un amico, eravamo ospiti 
              di un napoletano. Per mantenermi vendevo anche disegni, ma la 
              provincia mi mancava, la capitale era troppo caotica, e sono 
              tornato. Era la metà degli anni Ottanta. In Toscana ho fatto 
              teatro per ragazzi, il “Sipario stregato”. Tutti i registi 
              frustrati si buttano sul teatro per i bambini”.
 
 Lo sguardo si perde per un attimo, spazia, poi torna presente e il 
              racconto continua: “In quegli anni ho incontrato Anna Meacci e 
              insieme abbiamo partecipato a diversi concorsi, ma la grande 
              occasione è arrivata con lo spettacolo “Riso in Italy” al Sistina. 
              Nei primi anni Novanta ho vissuto anche una bella esperienza 
              cinematografica (ma fare cinema non è divertente). Per due mesi 
              sono stato in Svezia a girare un film in veste di protagonista. La 
              regia era di Carlo Barsotti. Barsotti ha fatto i soldi traducendo 
              i testi di Dario Fo per gli svedesi”. Sorride e la malinconia 
              diventa invasione. A Milano arrivò ai tempi di “Ragoo” il piccolo 
              locale accanto all’attuale Zelig e gli applausi li divideva con la 
              Meacci. Si chiamavano “I soliti ignoti”. “Dormivamo in un albergo 
              a una stella qua di fronte. Fu la mia prima esperienza nel 
              cabaret. Spesso i cabarettisti fanno tristezza, propongono gli 
              stessi pezzi per anni perché hanno funzionato, se li portano 
              dietro come scheletri. Io vorrei inventare uno spettacolo teatrale 
              completamente nuovo, magari a tema, tipo quello di Antonio 
              Albanese. Ma dovrei trovare un “regolatore”, qualcuno capace di 
              mettere ordine alla mia sregolatezza. Tornare al teatro, questo 
              vorrei. Invece, sbattuti da un’autostrada all’altra, tra uno 
              spettacolo e l’altro, passiamo dalle birrerie ai teatri. Finché i 
              nostri pantaloni sapranno di birra accumuleremo solo i difetti di 
              quest’arte. Siamo costretti a esagerare battute per tenere 
              l’attenzione del pubblico e se non ride...ah se non ride è un 
              dramma!”.
 
 Ancora sorridente, beffarda amarezza. Pausa. La mente si 
              allontana. Pochi secondi di assenza. “Ci affidiamo troppo alla 
              capacità di improvvisazione ma ripetiamo gli stessi personaggi. Il 
              nostro fine non è guadagnare sempre e comunque ma è tirare fuori 
              l'idea comica e il tormento che abbiamo dentro. C’è una 
              concorrenza spietata, si uccide per rubare una battuta a un altro. 
              E’ molto triste, ma esistono i cosiddetti “impiegati della 
              comicità”. Io non lo sono. Se ripeto mi annoio. Il comico si 
              mangia da solo ripetendosi, perde in qualità. Quando entri in 
              automatico esageri. Va bene per la televisione dove è soprattutto 
              la faccia quella che conta, ma le armi vere si vedono in teatro”. 
              Paolo parla del suo metodo di scrittura, del surrealismo che anima 
              la sua opera che è quella di un visionario in preda a un delirio. 
              “Ho un vecchio sistema, lavoro su canovaccio. La battuta “più 
              forte” non è scritta in grassetto. Invento verbi, nomi, aggettivi. 
              E’ come pasticciare nei colori con le mani: non sai quel che verrà 
              fuori, ma è sperimentazione. Mi guardo attorno e provo a 
              descrivere oggetti o una stanza e vedo le cose deformate, 
              ridicole, come sotto effetto di un acido. E’ il momento migliore. 
              Si, perché quando devi fare uno spettacolo c’è anche un sottobosco 
              burocratico da affrontare. Io faccio semplicemente ridere la 
              gente, non voglio riempire moduli!”. Distrattamente conclude: “Non 
              si può piacere a tutti. Io sono amato dai giovani, studenti e 
              universitari, ma non sono un intellettuale o un comico impegnato. 
              Avrò letto tre libri in vita mia!”. Sorride e scappa via.
 
 14 dicembre 2001
 
 
 
 
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