Quello spirito laico che manca al giorno
d’oggi
intervista a Piero Ostellino di Paolo Mossetti
Piero Ostellino, di famiglia torinese, è nato a Venezia nel 1935.
Laureato in Scienze politiche, si è specializzato in sistemi
politici dei paesi comunisti. Dal 1970 è al Corriere della Sera,
giornale del quale è stato anche direttore. Dal 1973 al 1978 è
stato corrispondente da Mosca, e ha raccolto i risultati di questo
lavoro nel volume “Vivere in Russia” (Premio Campione d’Italia
1978). E’ stato quindi fino al 1980 corrispondente da Pechino ed è
attualmente editorialista e inviato speciale. Nel 1980 ha vinto un
Premio Saint-Vincent per i suoi servizi dalla Cina. Quella che
pubblichiamo è una parte di una intervista più ampia che l’autore
ha condotto con Piero Ostellino. Abbiamo cercato di fornire ai
lettori di Ideazione.com le opinioni dell’autorevole giornalista
sui temi di maggiore attualità.
Direttore, alla luce delle evoluzioni della
transizione politica italiana ritiene che oggi un partito
“lib-lab” sia un sogno svanito nel nulla?
Con la nascita del bipolarismo tutto è cambiato in Italia, anche
questa prospettiva. Mi piacerebbe che sia il centrodestra, sia il
centrosinistra fossero capaci di interpretarne quanto meno lo
spirito laico e riformista pur con differenti intonazioni.
Durante le contestazioni per il vertice di
Nizza, l'anno scorso, lei ha difeso le ragioni del popolo di
Seattle, maggioritarie rispetto ai piccoli focolai di violenza.
Oggi, dopo i fatti di Genova e le dichiarazioni, non proprio
ortodosse, di Casarini, Agnoletto, Bertinotti e compagni, crede
davvero che in Italia il movimento antiglobal possa intraprendere
la strada del riformismo “critico”, e non del vetero-ribellismo,
verso il quale sembra (ciecamente) avviato?
Continuo a pensare che “gestire” la globalizzazione sia
necessario. E che perciò si debbano distinguere le ragioni del
popolo di Seattle dalle sue frange violente. Che poi gli
antiglobal pacifici siano in grado di diventare un vero movimento
di riformismo critico non saprei dire. Ho l’impressione che la
violenza prevarrà sempre, perché le minoranze violente - che del
resto sono tutt'altro che esigue - continueranno a prendere a
pretesto l’antiglobalizzazione della maggioranza pacifica per
manifestare il proprio nichilismo, il proprio pregiudiziale
rifiuto della società liberaldemocratica e capitalistica. Poiché
non si tratta, come in passato, di una cultura della violenza
rivoluzionaria di tipo marxista o, se si preferisce, leninista. Il
pericolo è che, in assenza di un progetto come era quello,
appunto, comunista, l'odierna violenza sia un semplice “fine”, non
un “mezzo”, e che quindi non sia razionalmente, cioè
politicamente, assorbibile, neppure con la migliore buona volontà
e disponibilità al dialogo, né con politiche analoghe al welfare
del passato. Il ribellismo è in tale prospettiva una regressione
culturale che non porta a nulla. Gli antiglobal pacifici, se
vogliono evitare il pericolo, dovrebbero scegliere la
disubbidienza civile, la non violenza come propria bandiera. Per
isolare i violenti c'è un solo modo: impedire che essi si
mescolino con i nonviolenti. Come? Gandhi ha fatto cadere un
impero, restandosene seduto a terra di fronte alla polizia
coloniale inglese. Perché non impostare le manifestazioni allo
stesso modo?
Lei è stato per tre anni corrispondente
dalla Cina. Il mito socialista del grande paese asiatico in quel
periodo già suscitava meno entusiasmi rispetto, per esempio, agli
anni del famoso viaggio di Dario Fo. Oggi la Cina si sta aprendo
sempre di più al mercato liberista. Ma rimane, come sappiamo, il
problema dei diritti umani. L’Occidente deve far finta di non
vedere, oppure servirebbe più durezza, come per Cuba o l’Irak?
Pare che Jang Zemin, il segretario del Partito comunista cinese,
abbia proposto l’ingresso nel Partito comunista anche di
imprenditori e manager privati. Il Pc cinese diventerebbe cosi, a
suo modo, un partito interclassista. O se si preferisce, la Cina
porta avanti un progetto solo apparentemente surreale: quello di
aver messo un sistema politico ancora comunista al servizio dello
sviluppo economico capitalistico. Personalmente, sono convinto che
i dirigenti cinesi, da Deng Xiaoping in poi, abbiano adattato al
loro paese le condizioni che alla fine del Settecento e per oltre
meta dell'Ottocento consentirono all'Occidente di realizzare la
propria rivoluzione industriale: assenza di democrazia, scarsa
liberta politica, mancanza di garanzie sindacali, accumulazione
accelerata. Poiché nel mondo in cui viviamo quelle condizioni non
esistono più “in natura”, dato lo sviluppo delle comunicazioni e
quindi di una maggiore consapevolezza da parte degli uomini dei
propri diritti, i dirigenti cinesi le hanno ricreate
“artificialmente”. Premere sulla Cina affinché faccia seguire alla
maggiore libertà economica anche una maggiore libertà politica
avrebbe, dunque, poco senso. E’ giusto che l’Occidente denunci le
violazioni dei diritti civili in Cina, ma sarebbe sbagliato se
condizionasse i suoi rapporti con quel paese al loro rispetto. Gli
affari sono affari, dicono gli americani (e con loro i cinesi), il
resto verrà e dipende solo dalla Cina.
La “retroguardia morale d’Europa”, che si
ostina ad ostacolare il cammino del Progresso, è uno dei suoi
bersagli preferiti. Per questo “Avvenire” la considera un
avversario intrattabile? Eppure il quotidiano della Cei ospita
spesso le firme di laici illustri...
La mia opinione continua a essere quella di Cavour: libera Chiesa
in libero Stato. La confusione fra morale religiosa e etica
politica produce illibertà. L'idea di liberta kantiana rimane
quella giusta: ciascuno ha diritto di perseguire il proprio ideale
di felicità a condizione di non impedire agli altri di fare
altrettanto. Il progresso non c’entra. Qui è in gioco la libertà
individuale, che è l'essenza del liberalismo.
19 ottobre 2001
g.mosse@tin.it
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