Fine della filosofia
di Lucio Colletti
In ricordo di Lucio Colletti riproponiamo
l’introduzione al libro “Fine della filosofia e altri saggi”,
l’ultimo scritto dall’intellettuale, pubblicato con Ideazione
editrice nel dicembre del 1996.
Conoscenza e salvezza sono cose diversissime tra loro. C’è da
dubitare che esista la salvezza. Ma, ove vi fosse, si sa già
quale visione della realtà potrebbe garantircela. Rousseau
distingueva tra “amour propre” e “amour de soi”. La salvezza,
qualora si desse, verrebbe da quest’ultimo: cioè dal ritrovarsi
ciascuno iscritto in un ordine, in un Cosmo, che, pur includendo
l’intero universo, faccia dell’individuo un elemento
indispensabile e necessario del Tutto che ci ingloba. La salvezza
sarebbe appunto ciò: aver garantito il senso della propria vita,
il significato dell’esistenza; sopravvivere in qualcosa che ci
trascenda. Nell’Ottocento, il secolo della storia per eccellenza,
uno dei modi in cui quel senso della vita si è incarnato fu il
patriottismo, la coscienza profonda di appartenere alla Nazione,
intesa come un’entità perenne, con un proprio “genio” e un suo
“destino” peculiare. Assai prima, tuttavia - e in modo ben più
radicale - la soluzione era stata la fede religiosa, la credenza
(per noi occidentali) nel Dio cristiano: il Cristo, il Dio che si
è fatto uomo. Ed è ovvio come il nazionalismo, la sopravvivenza
nell’opera collettiva della storia, fosse già allora, rispetto
alla religione, una soluzione di ripiego, un espediente “faute de
mieux”.
La salvezza, insomma, è l’antropocentrismo: una rappresentazione
della realtà finalizzata alla nostra esistenza, cioè modellata in
modo da poter corrispondere alle nostre esigenze di rassicurazione
e di conferma. Altra cosa è, ovviamente, la conoscenza: non
potendosi escludere affatto che il vero e il reale siano proprio
ciò che meno ci aggrada. Da ricordare, a questo proposito, alcune
pagine assai efficaci di Nietzsche, intonate al motivo che il
primo contrassegno della verità sia proprio quello di deludere le
nostre attese e di andar contro i nostri desideri. Insomma, una
cosa è il “principio di realtà”, altra il “principio del piacere”.
Originariamente la filosofia fu, per lo più, entrambe queste cose.
Fu conoscenza e descrizione della realtà e, insieme, assicurazione
di salvezza. Non a caso, fu metafisica, onto-teologia, cioè
filosofia e religione al tempo stesso. I guai cominciarono con la
nascita della scienza moderna, in quell’autentica selva di
giganti, scienziati-filosofi, che fu il Seicento.
Poiché ho impugnato il teleobiettivo, che com’è noto comprime le
distanze, i colleghi professori vorranno perdonare la libertà di
semplificazione che sto per prendermi. Il fatto è che, al
prorompere delle scienze, la filosofia o metafisica si vide
strappare una dopo l’altra tutte le sue regioni: prima la fisica e
l’astronomia, poi la chimica e la biologia, infine la psicologia e
ora, con le scienze cognitive, buona parte di tutto il resto. Il
tema della fine della Filosofia si colloca su questo sfondo. “La
filosofia nell’epoca presente è giunta alla fine”, rivela
Heidegger nel 1964. E prima di lui, seppure in tutt’altri modi,
analoga conclusione aveva tratto Wittgenstein, sia nel “Tractatus”
sia nelle “Ricerche”. Quanto a me (che mi son formato su Marx),
l’impossibilità della filosofia come un sapere autonomo mi era
nota fin da giovane. Nelle prime pagine dell’Ideologia tedesca,
Marx contesta ad Hegel che dell’Idea, cioè della Mente o dello
Spirito, possa farsi un soggetto a sé stante. Dopodiché, aggiunge
che, in tal modo, “la filosofia come sapere indipendente perde il
suo medium di esistenza”.
Almeno a partire dall’Ottocento, la non ingerenza della metafisica
nelle scienze naturali e la sua influenza su di loro solo come
conoscenza di sfondo furono un punto relativamente fermo, con
l’eccezione della Germania dove fiorirono ancora le “filosofie
della natura” di Schelling, di Hegel e di Franz von Baader. Un
punto fermo però - insisto - solo relativamente, giacché il
“vitalismo” trovò seguaci in biologia ancora fino a ieri. E basta
leggere la monumentale Storia del pensiero biologico di Ernst Mayr
per farsi un’idea delle insormontabili resistenze cui andò
incontro il darwinismo. Tuttavia, diverso fu il caso quanto al
resto. Sfrattata dalla natura e in piena decomposizione fin dal
tempo di Kant per quel che concerne i suoi domini tradizionali
(l’Anima, il Mondo, Dio), la metafisica reagì con quel che, nel
primo saggio, ho chiamato una “sostituzione nel concetto di
realtà”. Si tratta di un fenomeno singolare che segnalo
all’attenzione degli studiosi nella speranza che qualcuno voglia
rifletterci sopra. Il fenomeno si delineò subito dopo Kant,
l’ultimo filosofo classico in sintonia con la rivoluzione
scientifica. Ed ebbe il suo culmine in Hegel, Marx, Heidegger (per
non parlare dell’Husserl della “Krisis”), vale a dire nei sistemi
di pensiero che hanno dominato gran parte dell’Europa continentale
dal secolo scorso fino a noi.
Ciò che si verificò con queste filosofie (pur diverse, com’è
ovvio, tra loro) è qualcosa che lascia tuttora strabiliati: e fu
un’adulterazione profonda del concetto di realtà, a partire
dall’identificazione di Realtà e Storia (umana), ovverosia di
Essere e Tempo. Il risultato fu che non si trovò più ad esistere,
prima, il mondo fisico-naturale, l’universo astronomico e in esso
il sistema solare, con il pianeta Terra su cui, più tardi, dopo
miliardi di anni, si sviluppa la vita biologica fino alla
comparsa, attraverso una lunga evoluzione, dell’uomo e, con esso,
anche della storia umana. Bensì si capovolgono i termini: la
Realtà è solo la storia umano-divina, il corso nel tempo delle
nostre vicende, che nel loro svolgersi si trovano orientate, a
poco a poco, ad opera della Provvidenza divina o del cosiddetto
“Senso della storia”, verso un Fine ultimo o un traguardo
definitivo che rappresenta la salvezza. All’opposto, l’universo
fisico, tutto ciò che costituisce il mondo pre-umano e di cui si
occupano le scienze della natura, o viene risolutamente escluso,
oppure viene, sì, tirato dentro ma solo come un “momento” irreale
o apparente (la Natura, ad esempio, come alienazione dell’Idea in
Hegel).
Condensando al massimo, si può dir questo. La vecchia metafisica
univa le due funzioni, di essere “conoscenza” oltre che “dottrina
di salvezza”, all’interno di una visione del mondo teo- e
antropo-centrica (si pensi, per esempio, al cosmo
aristotelico-cristiano nel Medioevo). Ora, l’Irruzione della
scienza moderna sovverte questo quadro in modo radicale. Prima, la
rivoluzione astronomica dilata il vecchio cosmo in un universo
infinito, dove non ha più senso la centralità della Terra e, a
maggior ragione, quella dell’uomo. Poi, l’eliminazione della
“condizione speciale” dell’uomo si radicalizza con la rivoluzione
darwiniana. E’ palesemente, la disgregazione di tutti i vecchi
valori. Il Cielo si vuota. E, per riprendere la celebre
espressione di Glbert Ryle, sparisce anche lo “spettro nella
macchina”, cioè l’anima. Dinanzi a ciò, la metafisica tenta di far
argine alle scienze e di recuperare la vecchia centralità del
Dio-uomo, operando sul concetto di “realtà”. Reale è la Storia
umana, la quale non solo si trova a rimuovere e sospingere da
parte, nella considerazione filosofica, l’universo
fisico-naturale, ma lo soppianta e gli si sostituisce, avocando
esclusivamente a sé il ruolo e il significato di ciò che è Reale.
La metafisica, insomma, riprende nuova vita facendosi filosofia
della storia, cioè trasferendo l’assoluto nel tempo, ovvero
mutandolo nel traguardo e nel Fine ultimo verso cui tende il corso
storico, in quanto corso “concepito a disegno”. Poiché è la
scienza che ha tagliato l’erba sotto i piedi dei “vecchi valori”,
è ad essa (e alla tecnologia) che viene imputato il nichilismo, la
desertificazione del “senso della vita” , così efficacemente
descritta da Arthur Koestler nelle pagine conclusive dei
“Sonnambuli”, il suo grande libro dedicato alla “storia delle
concezioni dell’universo” (e non sarò, certo, io a negare che la
collocazione moderna dell’uomo nel mondo risulti non solo
radicalmente scossa, ma assai difficile da gestire anche sul piano
personale). E tuttavia - sebbene qui si colga la necessità di un
ripensamento della nuova situazione ab imis - si deve riluttare
all’idea di far responsabile del nichilismo la scienza, la quale
non solo è la più grande avventura del pensiero ma è il solo modo
di prendere - tentativamente - atto della realtà.
Sull’altro versante, invece, quello della “filosofia della
storia”, il XX secolo ci ha ammaestrato a sufficienza su cosa si
debba pensare delle metafisiche della temporalità, cioè delle
filosofie che trasferiscono l’assoluto (o la salvezza) in
politica. Quanto al marxismo, è già stato detto tutto ed è inutile
ripetersi. Il “comunismo dell’avvenire”, la società tutta armonica
e senza più contrasti (infelicità, eccetera), abitata dall’“uomo
nuovo”, in cui doveva sboccare, secondo Marx, il lungo travaglio
della storia, è palesemente una replica della Gerusalemme celeste,
portata in terra. E sappiamo bene quanto questa speranza
visionaria sia costata. Quanto ad Heidegger, invece, è da ribadire
(e lo si può fare coi testi alla mano) che la sua denuncia della
“rivoluzione scientifica” come nichilismo ha dato forma (negli
anni Trenta) a una vera e propria “filosofia della rivoluzione”,
che si è proposta come la coscienza più radicale e profonda del
nazionalsocialismo. Un altro esperimento, il cui prezzo di sangue
è ben noto.
Questo libro è una raccolta di saggi e articoli, concepiti e
scritti in occasioni diverse. Inutile, quindi, cercarvi un’unità
“in re”. Ciò non vuol dire, tuttavia, che esso non rechi i segni
di un’unità “in mente”. Dalla filosofia alla politica, il discorso
vi si snoda con una linearità che, se non mi inganno, il lettore
non farà fatica a percepire. E si tratta di un modo di vedere le
cose che dà palese espressione al punto di vista di uno
scetticismo moderato, cioè di un uso fallibilistico della ragione,
come, grasso modo, penso che accada nelle scienze, dove la
“ricerca non ha fine” proprio perché, in un certo senso, non
centra mai il bersaglio. Ciò risulta, in modo evidente, anche
nella trattazione del liberalismo e del liberismo, dove non si
contrabbandano certezze assolute né risplende una luce che
abbagli. Ma tutto è prospettato nel modo con cui l’autore vive la
sua quotidianità nel declinare della propria esistenza: cioè
addentrandosi a lume di candela nel buio.
9 novembre 2001
Lucio Colletti, Fine della filosofia e altri saggi, Ideazione
editrice, 1996, pp. 156, lire 18.000
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