Era il Maestro del disincanto
di Sandro Iacometti
Dopo aver dedicato tutta una vita allo studio della filosofia,
negli ultimi anni continuava a decretarne la scomparsa. Non era
solo il gusto della provocazione, che pure amava più di ogni altra
cosa, né il frutto della sua passione per lo scetticismo, che
considerava se non l’espressione più alta sicuramente quella più
seria e dignitosa del pensiero occidentale. Per Lucio Colletti la
filosofia non aveva semplicemente più nulla da dire. Nulla che non
fosse già contenuto nei dirompenti progressi della ricerca
scientifica. Con le sue straordinarie scoperte, le sue incredibili
rivoluzioni, la scienza moderna aveva, per Colletti, sgombrato
definitivamente il campo dall’illusione antropocentrica. Dall’idea
che l’uomo sia al centro dell’universo e ne incarni il
significato. Con Copernico, ma soprattutto con Charles Darwin, di
cui Colletti divorava voluminose biografie, si era concluso quello
che Max Weber chiamava “il disincanto del mondo”.
In altre parole, l’elemento casuale contenuto nel processo
evolutivo e l’inafferrabilità concettuale degli spazi celesti
avevano, secondo Colletti, detronizzato l’uomo e mortificato la
sua presunzione di poter dare un senso alla propria esistenza. Lì,
per il filosofo romano scomparso sabato scorso, era nato il mondo
moderno, ma anche la disperazione dell’uomo, costretto dopo secoli
di “consolazioni” filosofiche a fare i conti con la solitudine del
proprio essere. La cosa, a Colletti, non è mai piaciuta un
granché. “Invidio i credenti, coloro che hanno il dono della fede
religiosa”, diceva spesso. Ma questa, spiegava, è l’essenza del
metodo scientifico. Separare fatti e valori, scriveva Jacques
Monod ne “Il caso e la necessità” (che Colletti considerava una
specie di testo sacro), è la condizione fondamentale per la
conoscenza. Non possiamo, diceva Colletti, vedere solo quello che
ci piace vedere: i dogmatici lo fanno, “ma loro sono così presi
dalle loro idee, dai loro castelli teorici, da non riuscire più a
confrontarsi con la realtà”.
La passione e l’irriverenza
Al disincanto scientifico-filosofico, illustrato in uno
straordinario saggio (l’ultimo) apparso su “Micromega” e poi
ripubblicato da Ideazione (“Fine della filosofia”), Colletti
sopperiva con una buona dose di ironia e di cinismo. La battuta
pungente, il commento sarcastico, la provocazione intellettuale.
Non c’era interlocutore o argomento che non meritasse un gesto di
irriverenza, una manifestazione di schiettezza. “Scusate, ma io
abbasserò un po’ il livello della discussione”, era solito dire
prima dei suoi interventi pubblici, strappando l’applauso ai chi
aveva ormai perso la speranza di uscire vivo dall’ennesimo,
noiosissimo, convegno di filosofia. E giù sentenze, giudizi
partigiani, pareri taglienti, prese di posizione nette e vibranti.
La sua accetta si abbatteva ovunque. E con forza divideva il
marginale dall’essenziale. Il condivisibile dall’inaccettabile. La
verità dall’errore. Un’opinione su ogni cosa. Una posizione da
difendere con passione ed energia su ogni fatto storico, su ogni
affermazione filosofica, su ogni autore. Le scelte di campo e i
raffinati strumenti per sostenerle: questo era Colletti. Questo
era il suo fascino.
La carriera accademica
Il rifiuto dell’indifferenza, la rinuncia al relativismo culturale
e alle ipocrisie da intellettuali erano gli insegnamenti più
preziosi che riusciva a trasmettere ai suoi allievi. Titolare
della cattedra di Filosofia teoretica a La Sapienza di Roma,
Colletti concluse qualche anno fa la sua carriera accademica con
un corso sulla teoria della conoscenza in Kant. Ai giovani
studenti di filosofia che ebbero la fortuna di seguirlo apparve
subito chiaro che qualcosa non funzionava. Nelle altre aule si
parlava di teorie filosofiche, di autori, di scuole di pensiero.
Interminabili lezioni per spiegare che Kant aveva inventato “le
categorie”, mentre Hegel parlava di “spirito assoluto”. Che
Platone ha scritto i Dialoghi mentre Socrate, forse, non è neanche
esistito. Ma guai a collegare le “monadi” di Leibniz o gli “atomi”
di Democrito ad una visione del mondo, ad una tendenza culturale.
Guai a spiegare che la prova ontologica per dimostrare l’esistenza
di Dio può essere un punto di riferimento per dividere in due la
storia del pensiero occidentale. Guai ad esprimere un’opinione
chiara e comprensibile. Tutt’altra la ricetta di Colletti.
Arrivati in aula, gli studenti venivano investiti da una serie di
illuminanti quanto categorici giudizi. Kant? E’ meglio di Hegel.
Democrito? E’ meglio di Platone. I primi hanno elaborato teorie
della conoscenza che tenevano conto del confronto con il mondo
naturale, gli altri consideravano il mondo naturale la copia
sbiadita di una realtà sovrasensibile.
La scelta, a lui e a chi lo ascoltava, appariva subito chiara.
Alla semplificazione seguiva poi una minuziosa ed attenta analisi
dei testi, degli studi critici, delle teorie. Non era una
passeggiata. Ma almeno sapevi da che parte stare. E le chiacchiere
diventavano meno noiose, più coinvolgenti, a volte appassionanti.
Appassionanti come possono essere le parole di un uomo che
riusciva a sintetizzare con disinvoltura alcuni secoli di storia
della filosofia in un paio di frasi, che passava con agilità dalla
Logica di Aristotele al Tractatus di Wittgenstein. Colletti a
volte non si presentava alle lezioni o agli orari di ricevimento,
d’inverno entrava in aula borbottando e sbuffando per il freddo,
d’estate si lamentava per il caldo, dichiarava pubblicamente di
avere smesso da anni di credere nel sistema universitario. Ma gli
bastava prendere in mano una pagina della Critica kantiana o un
passo della Fenomenologia di Hegel per ritrovare il gusto del suo
mestiere. E, forse, della vita.
L’addio al marxismo
Era su quelle pagine, del resto, che si era formata la sua
svolta. Quella drammatica e irreversibile dell’agosto del 1974. Fu
allora che Colletti rilasciò un’intervista “politico-filosofica”
al periodico inglese “New Left Review” in cui annunciava il suo
definitivo allontanamento dal marxismo. Dottrina a cui era stato
introdotto dal filosofo comunista Galvano Della Volpe - che
credeva di riconoscere in Karl Marx una sorta di Galilei delle
scienze sociali - e a cui aveva dedicato anni di intensi studi.
Profondo conoscitore dell’idealismo tedesco e delle opere di
Hegel, Colletti maturò ad un certo punto la convinzione che
l’operazione effettuata dal filosofo tedesco era non tanto e non
solo politicamente discutibile, ma anche illecita ed illegittima
sotto il profilo filosofico. La contestazione riguardava la
presenza di elementi tipici della logica hegeliana in un presunto
contesto “materialistico” e scientifico. Colletti fece nomi e
cognomi. Individuò le parti del Capitale dove Marx aveva operato
lo scambio surrettizio, e utilizzò alcuni passi degli scritti
precritici di Kant per demolire alcuni dei simboli dell’ideologia
marxista. Al Pci non piacque. E contro l’ex intellettuale
“organico” (anche se Colletti non lo fu mai fino in fondo) che
aveva avuto il coraggio di fare una pubblica abiura, si scatenò la
controguerriglia propagandistica del partito. Di fatto, Colletti
fu costretto a lasciare l’università. Accadde nel 1977, quando il
movimento studentesco passò dalle minacce verbali e scritte a
quelle fisiche. Tornato ad insegnare qualche anno più tardi,
Colletti dovette affrontare altre contestazioni durante le
occupazioni universitarie a cavallo degli anni Novanta. Molto più
morbidi, gli scontri si limitarono a qualche infuocata discussione
nell’aula universitaria e a qualche lezione bruscamente interrotta
dai giovani militanti della cosiddetta Pantera.
L’approdo al liberalismo
Colletti aveva colpito duro. E se la ferita inferta al
comunismo italiano ed internazionale era profonda. Non meno
drammatico fu per il filosofo romano rimettere insieme i pezzi del
suo bagaglio teoretico. Come diceva ai suoi studenti: “Non si può
prendere a calci il portone di un edificio senza essere prima
entrati a visitarlo”. E lui l’edificio lo conosceva bene. Si era
formato sulle opere hegeliane, aveva lavorato a lungo su Marx
tanto da diventarne uno dei più conosciuti e riconosciuti esperti
a livello internazionale. L’abbandono del Pci nel momento in cui
il partito continuava ad accrescere i suoi consensi, l’abbandono
del marxismo nel momento in cui tutti ne sembravano ancora
suggestionati, lasciò Colletti privo dei riferimenti che lo
avevano accompagnato per gran parte della sua vita. Trovò rifugio
nel pensiero laico e liberale. E, soprattutto, nella filosofia
della scienza, che non aveva mai smesso di stimolarlo. Di qui la
riscoperta di Kant, delle sue intuizioni politiche e delle sue
straordinarie riflessioni sulla teoria della conoscenza. Lo studio
di Darwin - che insieme a Kant considerava una delle figure
principali del pensiero occidentale - e dell’epistemologia
evoluzionistica lo portarono poi fino a Karl Raimund Popper, di
cui ammirava la chiarezza, lo spirito laico e la forza con cui
tentava di contrapporre alle moderne tendenze
“anarchico-epistemologiche” una fiducia incrollabile nella scienza
e nel suo progresso.
L’avventura politica
Accanto al “disincanto” filosofico, si affiancò presto quello
politico. Dopo aver contribuito ad alimentare il dibattito
all’interno del mondo socialista, con i suoi interventi su
Mondoperaio, si trovò praticamente da solo a difendere la politica
di Bettino Craxi negli anni delle disavventure giudiziarie,
ricevendone solo insulti dagli avversari e indifferenza dal
diretto interessato. Aveva poi accolto con moderato (ma raramente
andava oltre) entusiasmo la discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Vicino al termine della sua carriera accademica, nel 1996,
Colletti fu tentato dall’avventura politica. Coinvolto da Marco
Taradash nel gruppo di professori che avrebbero dovuto fornire
idee e spessore a Forza Italia, volle ancora una volta dimostrare
la sua indipendenza preferendo la Camera al Senato, dove si erano
invece diretti i suoi amici Saverio Vertone, Piero Melograni e
Marcello Pera. Palazzo Madama è noioso, ripeteva. Ma il giudizio
cambiò poco, dopo le prime esperienze a Montecitorio. Peggio dei
romanzi di Kafka, ripeteva. E’ un luogo dove tutto è abilmente
congegnato per fare il meno possibile nel maggior tempo possibile:
“Una fabbrica del nulla, un monumento funebre al parlamentarismo”.
A lui, però, non dispiaceva così tanto. Narciso, esibizionista e
irriverente, accettava volentieri di movimentare il Transatlantico
con qualche rovente provocazione. Meglio se contro il suo stesso
schieramento. Meglio ancora se contro i leader del suo stesso
schieramento. Staccava il filtro dalle sue immancabili
sigarettine. E distribuiva sonore legnate a destra e a manca, tra
la gioia di cronisti e commentatori politici. Il 13 maggio del
2001, dopo un lunghissimo tira e molla con Berlusconi - condito
anche dalla marcia indietro del Cavaliere su un saggio, già
scritto, che doveva essere diffuso in campagna elettorale, fatto
che lo lasciò molto amareggiato - Colletti era tornato per la
seconda volta a Montecitorio. Alcuni in questi giorni lo hanno
ricordato un po’ semplicisticamente come deputato di Forza Italia.
Lui si lamentava spesso di “essere assediato dagli ex allievi”
anche in Parlamento. Lasciando intendere, con un po’ di orgoglio e
un po’ di insofferenza, che tra questi ci fosse anche un
consistente numero di abusivi. Chi scrive, in ogni caso,
continuerà a ricordarlo come un Maestro.
9 novembre 2001
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