La mia Italia, moderna e popolare
intervista a Silvio Berlusconi di Luciano Lanna
"Non siamo quello che siamo ma quello che vogliamo diventare".
Silvio Berlusconi ha un'idea dinamica dell'identità nazionale: un
patrimonio di memorie ma anche un progetto da realizzare, un
passato da valorizzare ma anche un futuro da costruire. Da anni il
tema dell'identità italiana è centrale nel dibattito culturale del
paese, segno di un profondo bisogno di ridefinizione della tavola
dei valori che uniscono una comunità politica. Dalle aule
universitarie e dalle pagine dei giornali, la questione ha finito
per investire anche il mondo politico e istituzionale. Nell'agenda
delle forze politiche l'interrogativo sul senso di appartenenza
all'Italia è divenuto strategico: difficilmente, anche alla luce
dei recenti cambiamenti intervenuti sulla scena politico-culturale
internazionale, si può ambire a un ruolo politicamente egemone e
incisivo senza avere "una certa idea dell'Italia". Quello
dell'identità italiana è allora il grande tema della cultura
politica del nostro paese. Ecco quel che ne pensa il presidente
del Consiglio e leader di Forza Italia.
"Io sono italiano". Cosa suscita in lei
questa semplice espressione?
Prima di tutto un lontano ricordo di scuola: Platone che ringrazia
gli dèi per averlo fatto nascere greco. Io sono contento di essere
nato italiano, ma il mio non è un amore cieco. Vedo bene che siamo
un popolo che ha molti difetti; anche se questi difetti, sommati
alle tantissime qualità, formano il nostro specifico carattere
nazionale. Senza noi italiani, il mondo sarebbe cosa ben diversa.
Certamente non migliore. Personalmente, credo che gli uomini
possano realizzarsi, al meglio delle proprie possibilità, a
condizione di avere una patria e di essere radicati in una
tradizione. Così è anche per me. Per tutto ciò che ho realizzato,
e che ha dato un senso alla mia esistenza, sento di essere in
debito verso la mia terra. E' per ripagarlo che sono entrato in
politica. Come ho scritto nell'annuncio della mia "discesa in
campo", il 26 gennaio 1994: "L'Italia è il paese che amo, qui ho
le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato,
da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore. Qui ho
appreso la passione per la libertà". Sentimentalismo? Beh, il mio
sentimento è appunto questo. Gli elettori l'hanno compreso e hanno
dimostrato fin qui di condividerlo.
Ma c'è oggi spazio per una nuova forma di
patriottismo?
Senza spirito di squadra non si affronta nessuna gara. Così come
senza patriottismo non si va da nessuna parte. Oggi più di ieri.
Nella competizione mondiale tra i paesi, il senso di appartenenza
a una comunità serve allo sforzo collettivo richiesto per
conservare e accrescere i livelli di benessere raggiunti. E qui
bisogna intendersi. Noi italiani siamo un autentico rompicapo per
gli amici stranieri. Da sempre, gli indicatori della nostra
situazione autorizzano previsioni catastrofiche. Ma, alla prova
dei fatti, le profezie di sciagura si ribaltano con il
raggiungimento di brillanti risultati. Dopo la fine della guerra,
nell'Inghilterra vincitrice, vigeva il razionamento e si tirava la
cinghia; mentre, nella povera Italia della disfatta, l'economia
ripartiva alla grande e la gente dava l'impressione di passarsela
piuttosto bene. Qualche anno fa, quando scalammo il quinto posto
nella graduatoria delle potenze industrializzate, all'estero
rimasero stupefatti come dinanzi a un gioco di prestigio. Gli
stranieri osservano i fatti nostri e annotano una serie di difetti
accanto alla lista delle buone qualità che sono disposti a
riconoscerci. Come certe virtù esteriori: la cordialità, la
spontaneità. Ma anche la laboriosità, il gusto artistico, lo
spirito umanitario. Molti i lati negativi che ci attribuiscono:
l'indisciplina, la superficialità, la disorganizzazione, il debole
civismo. Perfino il senso della famiglia, che è un'eccellente
qualità italiana, è stato rovesciato in un "familismo amorale" e
iscritto dai censori tra i nostri "peccati capitali". Considerata
la gravità di questi nostri "peccati", ci si è sempre aspettati
che ne fossimo trascinati in basso: rivoluzioni, sfracelli
economici. Invece, siamo sempre usciti dalle nostre crisi, e,
sempre, più forti di prima. Molti esperti dei fatti nostri, i più
spassionati, hanno finito per prendere nota delle smentite che
provengono dalla realtà e arrendersi al mistero italiano. Così i
nostri successi economici sono stati rubricati tra le cose
inesplicabili, insieme con il volo del calabrone e l'incrollabile
pendenza della torre di Pisa. E la tenuta della nostra convivenza
civile, rispetto a lacerazioni e spinte centrifughe, ha dato luogo
a ingegnose congetture sociologiche sull'esistenza di un'armonia
di fondo, dietro gli eterni conflitti di una società "senza
stato". Gli stranieri nostri simpatizzanti ci considerano una
"anarchia che funziona". Mentre i detrattori persistono nel loro
catastrofismo, sempre smentito dai fatti eppure sempre ritornante.
In quel guizzo imprevisto, che ci fa riguadagnare il centro del
ring ogni volta che siamo messi all'angolo, molti vedono il
riflesso fortunato del famoso stellone d'Italia. Io sono convinto,
invece, di vederci il patriottismo degli italiani di buona
volontà. Se non fosse per loro, pronti a rimboccarsi le maniche
quando serve, saremmo andati al tappeto chissà quante volte.
Come ci vedono gli stranieri lo ha detto. Ma
cos'è l'Italia per lei?
Quello che è sempre stata: un sogno. Prima, per secoli, il sogno
dell'Italia che non c'era. Poi, con la rinascita dopo l'Unità, il
sogno dell'Italia che si voleva costruire. Siamo il paese che
storicamente ha dato un contributo tra i più alti alla civiltà. Ma
l'eredità del passato non fissa la nostra identità nazionale una
volta per tutte. L'Italia è un cantiere di lavori in corso. A
differenza degli altri popoli, non siamo quello che siamo ma
quello che vogliamo diventare. Non ripiegati nel passato, o
adagiati sul presente, ma proiettati nel futuro. E' una
dimostrazione di vitalità che comporta, però, un prezzo da pagare:
il senso d'insoddisfazione che ci accompagna da secoli. Chi ha
sempre un traguardo più avanzato da raggiungere non può essere
soddisfatto della sua condizione presente. Mai contenti, ed è
meglio così. Serve da pungolo per andare avanti. Ma se, per un
momento, ci voltiamo indietro possiamo vedere l'enorme cammino
fatto dalla nazione. Il processo di modernizzazione non si è mai
arrestato, pur tra deviazioni e disastri, fino a toccare il
traguardo storico dell'aggancio al plotone di testa dei paesi più
progrediti. Il mio governo è impegnato fortemente per continuare a
farne parte. Non è solo una questione di prestigio internazionale.
E' in gioco la conservazione e la crescita dei livelli di
benessere conquistati dal nostro popolo. Nonostante la persistenza
di sacche di povertà e di ingiustizia sociale, sulle quali il
governo sta intervenendo con provvedimenti concreti e non con le
solite chiacchiere della sinistra, la maggioranza degli italiani
sta molto meglio di quanto la precedente generazione non osasse
neppure immaginare. Ma bisogna continuare a crescere, per non
tornare indietro. Addormentarsi sugli allori prepara brutti
risvegli.
Il presidente della Repubblica insiste molto
sul tasto dell'unità nazionale: a lei sembra in pericolo?
A me sembra soprattutto che il presidente della Repubblica
adempia, con impegno ammirevole, al suo principale dovere
costituzionale, che è appunto quello di rappresentare l'unità
nazionale. Che non è soltanto l'unità politica nell'integrità
territoriale della Repubblica. Sotto questo aspetto non corriamo
rischi. Certamente non ne verranno nemmeno dal passaggio a una
forma di federalismo, con il trasferimento di poteri di governo
dal centro al sistema delle autonomie. Ma l'unità nazionale
dev'essere un valore di riferimento anche negli altri aspetti
della vita democratica. Come la competizione tra le forze
politiche e la contrapposizione degli interessi sociali. Ci sono
limiti che non devono essere superati, metodi distruttivi di
protesta e di lotta che devono essere ripudiati. Il presidente
Ciampi ricorda a partiti e parti sociali, che esiste fra tutti un
minimo comun denominatore di cui tener conto nell'urto, anche
aspro, degli interessi di parte. Di questo sforzo moderatore il
governo gli è grato. Ben altre contraddizioni, rispetto al valore
dell'unità nazionale, mi preoccupano. Il rappresentante di
un'importante banca d'investimenti ha affermato che, per gli
investitori, l'Italia esiste "da Firenze in su". Come se una
specie di "linea gotica finanziaria" spaccasse in due la penisola.
Dopo mezzo secolo di politiche meridionalistiche, con profusione
di miliardi a centinaia di migliaia, la riunificazione economica
del paese è ancora un problema in attesa di soluzione. Il governo
si considera fortemente impegnato su questo punto. Se il Sud non è
in buona salute, tutto il paese ne risente. Nord compreso. Questo
non ha nulla a che vedere con la famosa frammentazione della
società italiana. Siamo un popolo di individualisti, ma creativi e
orientati d'istinto nella direzione giusta. Siamo anche il paese
delle cento città e delle molte forme di vita. Ma non è una
debolezza. Anzi, può diventare una forza, se il governo fa il suo
dovere. Che è quello di armonizzare le diversità e di accompagnare
il movimento spontaneo della società nel verso giusto.
L'attaccamento al campanile e al proprio particolare non ci ha
impedito di arrivare a sentirci tutti italiani. Si sentono
italiani anche milioni di discendenti di emigrati, trapiantati
all'estero da generazioni. Per questo il governo ha istituito il
ministero per gli Italiani nel mondo. Il loro ammirevole senso di
appartenenza nazionale troverà presto rispondenza nella
possibilità di partecipare concretamente alla nostra vita
democratica. Altra cosa è la persistenza della divaricazione tra
Nord e Sud. Mi fa pensare a un "insuccesso di costruzione", come
dicono gli architetti. Ricordo il crollo di un palazzo nella
Milano del dopoguerra. Si scoprì che qualcuno aveva lasciato una
scarpa in un pilastro di cemento armato. Dopo oltre centocinquanta
anni si deve pur pensare che la questione meridionale abbia
qualcosa a che fare con l'"insuccesso di costruzione" dello Stato
centralizzato. Credo che nel federalismo sia la chiave della
soluzione del problema.
L'immagine internazionale dell'Italia è come
appannata nella crisi internazionale provocata dall'offensiva del
terrorismo "islamista", all'indomani dell'incontro del G8 a
Genova. Perché, quando la parola passa alle armi, diventiamo
afoni?
Non siamo affatto l'anello debole dell'Occidente, se è questo che
intende. E' il residuo di una visione caricaturale e offensiva
smentita dai fatti. Abbiamo migliaia di soldati impegnati con
successo in missioni di pace all'estero. All'orrore dell'11
settembre il governo ha immediatamente reagito schierandosi contro
i nuovi barbari, a fianco degli Stati Uniti. Alleati e amici. Alla
luce di ciò che è successo risultano chiare le preoccupazioni che,
a Genova, spinsero il governo a concentrare gli sforzi sulla
sicurezza del G8. Ho ribadito al presidente Bush che l'Italia sta
facendo la sua parte contro il terrorismo, e che siamo pronti a
impegnarci ancor più a fondo in tutti i modi che saranno
considerati utili per il successo della lotta ingaggiata in difesa
della civiltà comune, in difesa della libertà. Un conto è il
dissenso degli estremisti del pacifismo, una minoranza a cui non
può certo essere negato il diritto costituzionale alla libertà di
espressione nel rispetto della legge. Un altro è la determinazione
del governo e della stragrande maggioranza degli italiani a
partecipare allo sforzo di autodifesa del mondo civile. E' giusto
aspettarsi che le società democratiche sappiano distinguere tra il
dissenso di minoranze rumorose e la serietà del nostro contributo
nazionale alla buona causa. Fa parte della serietà anche il
rifiuto delle tentazioni del bluff. I nostri mezzi d'intervento
sono quelli che decenni di scarsi investimenti nelle Forze Armate
e di costante svalutazione dello strumento militare ci hanno messo
a disposizione. Sono consapevole che il ruolo internazionale
dell'Italia richiede una forza militare adeguata alla forza della
sua economia, nonché alle esigenze di sicurezza imposte dalla
pericolosa area geografica in cui siamo collocati. Sono
altrettanto consapevole dei cambiamenti che questa crisi ha
apportato alla scena mondiale, con l'imprevista rivalutazione del
ruolo degli stati nazionali e il grande rimescolamento delle carte
determinato dal coinvolgimento nella "Grande Coalizione" della
Russia e della Cina. Il governo saprà dare risposte dignitose ed
efficaci alle novità della situazione. Ma non sono cose che
s'improvvisano.
Per tanti anni in Italia si è parlato sempre
di "paese" e mai di patria o di identità nazionale. Sembrava
politicamente sconveniente ricorrere a un lessico che altrove è
invece del tutto normale e con il quale si indica il senso di
appartenenza alla propria comunità politica. Poi, qualcosa è
cambiato. Lo dimostra la sua stessa esperienza: quando ha fondato
un partito chiamandolo Forza Italia, più volte ha fatto
riferimento alla necessità di "ridare speranza all'Italia". "Una
storia italiana" si intitolava il testo inviato agli elettori
nell'ultima campagna elettorale. Cosa è successo in questi ultimi
tempi?
Sono accaduti talmente tanti fatti nella seconda metà del secolo
che la scala dei valori riconosciuti non poteva certo rimanere
quella di prima. Perché l'idea di patria sia in vetta a questa
graduatoria occorre che l'appartenenza nazionale sia sentita come
motivo di orgoglio. Non era ragionevole aspettarselo da un popolo
ancora prostrato dalla disfatta militare. Tanto più che i partiti
politici maggiormente rappresentativi avevano altrove il proprio
baricentro ideologico. L'eredità del Risorgimento nazionale non
poteva certo essere rivendicata dall'internazionalismo comunista o
dall'universalismo cattolico. Anche se ricordo che le uniche
parole di esortazione ad andare orgogliosi di avere l'Italia per
patria, "questa più grande famiglia donataci da Dio", ascoltate in
quegli anni, furono pronunciate proprio da un Papa, Pio XII. Eppoi
la nazione ha esistenza storica. Così come è nata può morire.
Nell'età della Guerra Fredda, con l'evidente incapacità dei
singoli paesi di provvedere alla propria sicurezza, e con la
formazione dei grandi blocchi militari, che erano anche aree
d'integrazione economica e politica, lo stato nazionale sembrò
avviato sul viale del tramonto. Lo stato a cui in Italia si
guardava con speranza era piuttosto quello europeo, in lenta
formazione. In compenso, se l'esistenza politica dell'Italia si
andava affievolendo, il senso dell'appartenenza nazionale
riprendeva forza sull'onda del successo dell'economia e del
prestigio internazionale dello stile italiano. Forza Italia è nata
per dare risposta a un popolo in cerca di una espressione
politica. Il nostro progetto corrisponde a una precisa "idea
dell'Italia". Che non è certo quella di un grande museo di
affascinanti testimonianze di altre età, a disposizione delle
vacanze intelligenti degli stranieri. Semplicemente, vogliamo
riorganizzare l'Italia per assicurarle un futuro degno del suo
passato. Una presenza dignitosa sulla scena dell'Europa e del
mondo. Quale che sia il destino a cui ci avvia il vento di
cambiamenti che già annuncia un tornante della storia.
Dunque, il suo progetto politico è diretto a
dare espressione alla "Italia profonda". Quella popolare, che
affronta la sfida del cambiamento con la volontà di preservare le
ragioni dell'esistenza collettiva. "Gente dalle molte vite", sì,
ma sempre gente italiana. E' così?
Esiste, negli strati profondi della società, un sentimento
dell'identità nazionale che ha resistito a ogni contraria
suggestione ideologica. Come ho già detto, Forza Italia è nata per
dare espressione a questo sentimento popolare, rimasto orfano di
rappresentanza politica. E' stata una giusta iniziativa, come
dimostrato dalla vastità del consenso raccolto. Solo un
inguaribile snobismo può indurre la nostra sinistra da salotto a
cucirmi addosso l'etichetta di nazional-popolare. Se credono di
squalificarmi si sbagliano, si sbagliano di grosso. Non fanno
altro che rafforzare le ragioni del mio patto con gli italiani.
Quello stesso patto che la sinistra ha inutilmente cercato di
stringere per cinquant'anni di seguito. Triste destino, quello di
una minoranza che si pretende popolare senza esserlo e che, quando
cerca di farsi maggioranza, è costretta a mettersi in maschera.
Quella di Garibaldi che, nel '48, nascondeva Togliatti; quella di
Rutelli che ha coperto D'Alema nelle ultime elezioni. C'è più
intelligenza politica nel nostro popolo che in tutti i salotti
della sinistra radical-chic.
Potrebbe tracciare un identikit di quella
parte del paese - maggioritaria, ma pur sempre una parte - che ha
dato fiducia a Forza Italia e si sente rappresentata da lei?
Io guido un governo che si sente investito della responsabilità di
rappresentare l'intera nazione, con tutte le sue energie e tutta
la sua storia. E anche con tutte le sue contraddizioni. Non
rappresento solo la maggioranza che mi ha dato fiducia, ma anche
la minoranza che mi ha votato contro. Non è solo il mio dovere, ma
anche il mio sentimento. Ciò premesso, sono naturalmente in piena
sintonia con molti italiani che lavorano, risparmiano, rischiano e
tirano su la famiglia con l'impegno di ogni giorno. Merito loro se
questo paese è inaffondabile e progredisce nonostante le
difficoltà. Qualsiasi altro popolo si vanterebbe di poter fare
assegnamento su tanti cittadini capaci e di buona volontà.
Purtroppo non è quello che succede da noi: ce lo impedisce il
gusto perverso di esasperare i nostri difetti e quasi di
compiacercene. Un amico straniero mi ha detto che
l'autodenigrazione è il nostro peggior difetto. Difficile separare
con un taglio netto qualità e difetti. Spesso sono le due facce
della stessa medaglia. Poiché siamo dotati di un vigile spirito
critico, non possiamo non essere autocritici. E se amputati del
nostro famoso individualismo, al limite dell'anarchia, potremmo
conservare la creatività che alimenta il successo del made in
Italy nel mondo? Sospetto di no. Probabilmente, abbiamo i difetti
delle nostre buone qualità. Ovvero le buone qualità dei nostri
difetti. Comunque, le une e gli altri strettamente intrecciati.
Penso anche a un altro difetto italiano che è sul punto di
volgersi in una virtù: il tanto discusso campanilismo. C'è in noi
un atavico attaccamento alla "piccola patria" che è stato
lungamente vituperato come un intralcio alla "grande Italia" in
cammino. Beh, si dà il caso che la dimensione ottimale della nuova
economia produttiva sia proprio quella decentralizzata. Così il
localismo diventa una risorsa secondo lo spirito del tempo. Il
federalismo, scaturito dalla nostra storia, coniuga dimensione
locale e dimensione nazionale, in funzione dell'efficienza
produttiva. Non è più un difetto, se mai lo sia stato.
Lei crede nell'idea di "morte della patria"
sostenuta da alcuni studiosi?
I grandi popoli soffrono ma non muoiono. E la vita di un grande
popolo è inseparabile da quella della sua patria, la terra dei
padri. Nella tragedia dell'8 settembre 1943 è morto un certo
sentimento della patria, figlio di un ciclo storico bruciato nel
fuoco di due guerre mondiali. L'Italia ha dato l'addio a smodati
sogni di grandezza - nazionale prima, imperiale poi - nel trauma
della disfatta. Altre nazioni europee hanno celebrato il proprio
malinconico "addio al passato" dopo la vittoria. Con la seconda
guerra mondiale la storia ha voltato pagina. La patria italiana ha
realizzato, nella libertà e nella pace, quegli obiettivi di
modernizzazione e di benessere che si era creduto di poter
raggiungere con le armi e la scorciatoia autoritaria. Dieci anni
fa, lo sfascio del sistema comunista ha abbattuto non
completamente l'ultimo muro tra gli italiani, quello ideologico.
Una parte del paese, infatti, non ha ancora accettato, in modo
compiuto, la lezione della storia, e resta aggrappata a prassi e
atteggiamenti mutuati dalla tradizione comunista. Fino a quando la
sinistra non avrà fatto tutti i conti con i propri errori e
misfatti, l'Italia non potrà essere quel "paese normale" che pure
la stessa sinistra, a parole, reclama. Lascio agli storici di
sviscerare il tema della "morte della patria" nella lunga notte
del '43. Personalmente, credo preferibile inquadrare il trauma
dell'8 settembre nella lontananza della prospettiva storica. Non
bisogna dimenticare che il paradigma sul quale si basò il
compromesso che diede vita alla Costituzione fu quello
antifascista, e che, per molto tempo, l'antifascismo si sovrappose
a uno spirito patriottico inevitabilmente affievolito. Ora,
invece, sono stati fatti importanti passi avanti nella
pacificazione nazionale, e gli appelli del presidente Ciampi
all'unità del paese cadono su un terreno fertile. Registrano
un'evoluzione dello spirito pubblico. La stessa che ha dato il
governo del paese a una maggioranza di centrodestra, a una delle
più solide maggioranze nella storia repubblicana. Dissolte le
ombre del passato, la parola "patria" non è più tabù. Ce lo ha
ricordato, in queste settimane, il valoroso popolo americano che,
dinanzi al crollo delle due Torri Gemelle e alla parziale
distruzione del Pentagono, si è stretto attorno a quel simbolo di
libertà e di unità che è la bandiera a stelle e strisce.
Anche sulle pagine dei giornali il tema dell'identità nazionale
viene sempre più dibattuto…
Mi ha colpito l'articolo-fiume di Oriana Fallaci sul Corriere
della Sera. Milioni di italiani lo hanno letto e ne hanno discusso
appassionatamente. Un vero terremoto emotivo, registrato con
disagio nel dibattito culturale, ossessionato dal politically
correct. Non c'è dubbio che le reazioni della grande scrittrice
all'orrore dell'11 settembre, espresse con il massimo di efficacia
consentito da una viscerale franchezza, abbiano toccato corde
profonde. Personalmente sono rimasto colpito dalla rivendicazione,
con parole emozionate e orgogliose, della sua italianità. Sì,
qualcosa è cambiato in questo nostro paese, negli ultimi dieci o
quindici anni. A quanto pare, gli italiani hanno smesso di credere
che sia bon ton dissimulare l'orgoglio della loro nazionalità.
Credo che anche il successo del mio movimento, Forza Italia, debba
molto all'esplicito richiamo alla patria, al tricolore. Non si
tratta di un ritorno di fiamma del nazionalismo. Le passioni delle
precedenti generazioni appartengono a una storia finita, senza
possibilità di ritorno almeno nella nostra parte di mondo. A
nessuno verrebbe in mente di alimentare il proprio amor di patria
col disprezzo delle patrie altrui. Sarebbe un'assurdità. Diceva
già Papa Pacelli: "Come se il desiderio naturale di vedere la
propria patria bella, prospera all'interno e rispettata all'estero
dovesse essere inevitabilmente causa di avversione verso gli altri
popoli". Certo, la competizione tra le nazioni esiste, specie
all'interno della medesima area di civilizzazione. Guai se non
esistesse: proprio la competizione è la molla del progresso. Ma è
la competizione delle gare olimpiche, in cui l'asprezza non
esclude il rispetto per gli altri concorrenti in pista.
Identificarsi con il proprio sistema di valori non significa
disprezzare le identità diverse. Anzi, credo che proprio la
certezza della propria identità culturale sia la condizione
necessaria per muoversi con apertura mentale nel nostro mondo
delle diversità. Ci si confronta utilmente solo sulla base delle
rispettive identità.
L'Italia sta diventando un paese multiculturale…
Credo che una società multietnica sia nell'ordine delle cose. La
gente si muove da un continente all'altro, per bisogno ma anche
per lavoro e per gusto. Là dove trova quello che cerca fissa la
sua nuova patria. Quella del cuore, che non sempre coincide con
quella dei padri. Ma l'idea che una società multietnica debba
necessariamente essere anche una società multiculturale mi
convince molto meno. Direi che è una questione di misura, più che
di principio. A tutti piace il sale nella minestra, ma se ce n'è
troppo la minestra diventa immangiabile. La civilizzazione
francese, per esempio, è sempre stata aperta all'afflusso di genti
delle più svariate provenienze, unite dal vincolo della
cittadinanza, e quindi dall'adesione a determinati valori
universali: libertà, uguaglianza, fraternità. E' naturale che i
nuovi cittadini portino con sé il bagaglio dei propri usi e
costumi, se non offendono le leggi o i sentimenti della società di
cui entrano a far parte. Altrettanto naturale che col tempo e il
fluire delle generazioni, quel bagaglio culturale si stemperi
nella cultura dominante della società ospite, fino a diventare un
sentimento della memoria. E' quel che è accaduto negli Stati Uniti
col successo del melting pot e della politica di assimilazione. Ci
sono milioni di italo-americani sentimentalmente attaccati alle
loro radici, ma orgogliosi di essere cittadini degli Stati Uniti.
I guai cominciano se una società multietnica prende la piega
sbagliata. Come accade quando la formazione di enclaves culturali
da parte dei nuovi arrivati non è una tappa verso l'integrazione
(come il quartiere di Little Italy a New York), ma corrisponde a
una scelta di arroccamento e di incomunicabilità culturale. Una
nazione non può, senza pericolo, diventare un mosaico di
autoghettizzazioni. Viva la diversità, ma anche il buonsenso vuole
la sua parte. Mi sembra che la sinistra radical-chic cavalchi con
troppa leggerezza la questione del multiculturalismo.
La sua irruzione sulla scena politica
italiana - sono passati ormai quasi dieci anni - è stata
interpretata nei modi più disparati. Qualcuno l'ha dipinta come un
pericolo per la democrazia, qualcun altro ha visto in lei quasi un
salvatore. Quel che è certo è che la nascita di Forza Italia ha
rappresentato una rottura e un'innovazione rispetto alla
precedente tradizione politico-partitica nazionale. La sua stessa
personalità sembra avere poco in comune con il modo di fare tipico
dei politici italiani della Prima Repubblica. Eppure ci saranno
elementi che, a suo giudizio, consentono di stabilire una qualche
continuità ideale e culturale tra la sua vicenda e la storia
politica del nostro paese.
Per quanto mi sia sforzato, in tutti questi anni, di comprendere
le ragioni delle critiche rivolte alla scelta di impegnarmi in
politica francamente non sono mai riuscito a immaginarmi nelle
vesti di un marziano capitato per sbaglio sul pianeta Italia a
fare un mestiere che non è il suo. Sono un imprenditore che si è
sempre imposto di tenere alto il nome del proprio paese. La scelta
di impegnarmi in politica - maturata nel quadro di una congiuntura
assolutamente straordinaria - ha risposto al mio desiderio di
vedere difesi valori e principi che considero patrimonio
inalienabile della nostra storia repubblicana: la democrazia, la
libertà economica e politica, il rispetto dei diritti individuali,
la difesa della famiglia, il benessere, lo sviluppo sociale e
civile. Sono i valori per i quali si sono battuti i grandi
protagonisti della politica italiana del dopoguerra: Alcide De
Gasperi, don Luigi Sturzo, Luigi Einaudi, Gaetano Martino, Ugo La
Malfa, Randolfo Pacciardi, Giuseppe Saragat, Bettino Craxi. La mia
è stata la scelta di una persona, di un imprenditore educatosi
alla scuola della tradizione liberal-democratica, cattolica ma non
confessionale, moderata ma non conservatrice, laica ma non
laicista. Una tradizione che ha contato moltissimo nella storia
dell'Italia repubblicana, che sul finire degli anni Ottanta si era
andata offuscando e che Forza Italia ha avuto il merito storico di
rilanciare e di porre nuovamente al centro della vita pubblica del
paese.
Oggi lei è alla guida del paese nella veste di presidente del
Consiglio. Come immagina il futuro dell'Italia?
Non nascondo di essere animato da uno spirito costruttivo, da
nuove frontiere. Lo dimostra d'altronde la mia storia
imprenditoriale. Più che al passato, ho sempre avuto lo sguardo
rivolto al futuro, la qual cosa spiega perché a suo tempo mi sia
impegnato con tutte le mie forze in un'avventura come quella
televisiva, che è stata entusiasmante dal punto di vista personale
e che ha contribuito alla crescita culturale del paese. Nonostante
ciò che dicono certi fautori del pauperismo o i nostalgici
dell'Italia in bianco e nero. Ovviamente, questo spirito l'ho
trasferito nella politica. Sono un creativo, non un utopista. Non
ho mai pensato di dover realizzare sul corpo del paese strani
esperimenti di ingegneria sociale. L'utopismo politico si è sempre
tradotto in grandi tragedie. Ma guardare al futuro, immaginare
scenari di cambiamento, fare progetti di lungo periodo, questo lo
ritengo per un politico quasi un dovere, e, per un politico
nell'Italia di oggi, addirittura una necessità. Tradotto sul piano
dell'azione di governo, ciò significa non limitarsi
all'amministrazione dell'esistente, a una visione puramente
contabile e gestionale della politica. L'Italia ha certo bisogno
di una classe dirigente che agisca con rigore, competenza e onestà
soprattutto alla luce degli impegni, delle scadenze e degli
obblighi fissati dall'Unione Europea. Ma ha anche bisogno di una
élite in grado di guardare lontano, oltre la contingenza, che sia
appunto guidata da una precisa visione del paese, da un'idea di
sviluppo, in grado di immaginare che cosa sarà dell'Italia non fra
due o tre anni, ma fra uno o due decenni. Da questo punto di vista
ci aspettano tempi impegnativi, durante i quali - nell'interesse
delle generazioni a venire - dovremo prendere decisioni di grande
valore strategico. Faccio un esempio: in Italia si è diffusa
l'illusione che utilizzare quotidianamente la Rete o navigare su
Internet rappresenti un fattore di grande modernità. In realtà,
utilizzare le tecnologie, anche quelle all'apparenza più
sofisticate, richiede uno sforzo relativo. La capacità competitiva
di un paese si misura non dall'uso terminale delle tecnologie, ma
dalla capacità di progettarle e di renderle economicamente
fruibili. Ci sono settori - penso per esempio all'industria
aerospaziale, al comparto energetico, alla farmaceutica, alle
biotecnologie, all'industria della sicurezza - nei quali il nostro
paese si trova in grave ritardo rispetto agli altri partner
europei. Ogni volta che si parla di grandi opere o di
potenziamento infrastrutturale, poi, ci si imbatte contro un
pesante fuoco di sbarramento. Se l'Italia non deciderà di
investire in questi settori, se non si trova il modo di potenziare
la ricerca in aree strategiche come quelle appena indicate,
finiremo per diventare un paese dal futuro incerto, costretto ad
andare al traino di chi invece ha avuto il coraggio delle scelte.
Questo è esattamente ciò che il mio governo vuol fare. Al termine
della mia avventura politica - quando sarà - mi piacerebbe vedere
l'Italia incamminata lungo la strada di un reale e profondo
processo di trasformazione, all'altezza delle sue potenzialità e,
aggiungo, delle sue stesse necessità. Con i conti, naturalmente,
in ordine. Non possiamo rivendicare solo il primato nel settore
della moda e dell'alimentazione. E' poco rispetto a un mondo che
si sta profondamente trasformando. La mia visione dell'Italia è,
dunque, quella di un paese in grado di tenere il passo con la
modernità.
A questo proposito, si è parlato del suo
programma di governo come di un progetto di "Italia globale". E'
così?
La parola proprio non mi piace. Ma se significa una strategia tesa
a proiettare il nostro paese nella globalizzazione tenendo conto
delle sue reali specificità, sono d'accordo. Siamo consapevoli che
l'Italia proprio per le sue caratteristiche locali -
policentricità, economie diversificate, collocazione nel
Mediterraneo - è un paese più attrezzato e più pronto di altri
alla sfida globale. La nostra posizione geografica, la compresenza
sul nostro territorio di più culture e più vocazioni, hanno
costituito fin dal passato le chiavi di una spiccata vocazione
marittima e mercantile. Nel mare gli italiani non hanno mai visto
un limite ma una via di comunicazione globale. Su questa vocazione
punta il governo per sviluppare e dare senso al ruolo dell'Italia
in Europa, nel Mediterraneo e più in generale nell'intera scena
internazionale. Si dice che il paese avrebbe bisogno di più
Occidente, ma è anche vero il contrario, cioè che l'Occidente ha
bisogno di più Italia. Ha bisogno del nostro contributo attivo in
termini di presenza, di proposta, di capacità di sintesi. L'Italia
ha già smesso di sottrarsi alle sfide della storia, trincerandosi
dietro gli alibi del pacifismo, a ogni costo. E lo ha dimostrato
con la partecipazione delle sue forze armate alle missioni di pace
all'estero. Molto resta da fare: migliore coesione sociale e più
modernizzazione. A cominciare dalla modernizzazione delle nostre
istituzioni, così inadeguate rispetto all'esigenza di prendere
decisioni efficaci in tempi ragionevoli.
16 novembre 2001
lucianolanna@hotmail.com
(da Ideazione 6-2001, novembre-dicembre)
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