| La mia Italia, moderna e popolare intervista a Silvio Berlusconi di Luciano Lanna
 
 "Non siamo quello che siamo ma quello che vogliamo diventare". 
              Silvio Berlusconi ha un'idea dinamica dell'identità nazionale: un 
              patrimonio di memorie ma anche un progetto da realizzare, un 
              passato da valorizzare ma anche un futuro da costruire. Da anni il 
              tema dell'identità italiana è centrale nel dibattito culturale del 
              paese, segno di un profondo bisogno di ridefinizione della tavola 
              dei valori che uniscono una comunità politica. Dalle aule 
              universitarie e dalle pagine dei giornali, la questione ha finito 
              per investire anche il mondo politico e istituzionale. Nell'agenda 
              delle forze politiche l'interrogativo sul senso di appartenenza 
              all'Italia è divenuto strategico: difficilmente, anche alla luce 
              dei recenti cambiamenti intervenuti sulla scena politico-culturale 
              internazionale, si può ambire a un ruolo politicamente egemone e 
              incisivo senza avere "una certa idea dell'Italia". Quello 
              dell'identità italiana è allora il grande tema della cultura 
              politica del nostro paese. Ecco quel che ne pensa il presidente 
              del Consiglio e leader di Forza Italia.
 
 "Io sono italiano". Cosa suscita in lei 
              questa semplice espressione?
  
              
              Prima di tutto un lontano ricordo di scuola: Platone che ringrazia 
              gli dèi per averlo fatto nascere greco. Io sono contento di essere 
              nato italiano, ma il mio non è un amore cieco. Vedo bene che siamo 
              un popolo che ha molti difetti; anche se questi difetti, sommati 
              alle tantissime qualità, formano il nostro specifico carattere 
              nazionale. Senza noi italiani, il mondo sarebbe cosa ben diversa. 
              Certamente non migliore. Personalmente, credo che gli uomini 
              possano realizzarsi, al meglio delle proprie possibilità, a 
              condizione di avere una patria e di essere radicati in una 
              tradizione. Così è anche per me. Per tutto ciò che ho realizzato, 
              e che ha dato un senso alla mia esistenza, sento di essere in 
              debito verso la mia terra. E' per ripagarlo che sono entrato in 
              politica. Come ho scritto nell'annuncio della mia "discesa in 
              campo", il 26 gennaio 1994: "L'Italia è il paese che amo, qui ho 
              le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato, 
              da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore. Qui ho 
              appreso la passione per la libertà". Sentimentalismo? Beh, il mio 
              sentimento è appunto questo. Gli elettori l'hanno compreso e hanno 
              dimostrato fin qui di condividerlo. 
 Ma c'è oggi spazio per una nuova forma di 
              patriottismo?
  
              
              Senza spirito di squadra non si affronta nessuna gara. Così come 
              senza patriottismo non si va da nessuna parte. Oggi più di ieri. 
              Nella competizione mondiale tra i paesi, il senso di appartenenza 
              a una comunità serve allo sforzo collettivo richiesto per 
              conservare e accrescere i livelli di benessere raggiunti. E qui 
              bisogna intendersi. Noi italiani siamo un autentico rompicapo per 
              gli amici stranieri. Da sempre, gli indicatori della nostra 
              situazione autorizzano previsioni catastrofiche. Ma, alla prova 
              dei fatti, le profezie di sciagura si ribaltano con il 
              raggiungimento di brillanti risultati. Dopo la fine della guerra, 
              nell'Inghilterra vincitrice, vigeva il razionamento e si tirava la 
              cinghia; mentre, nella povera Italia della disfatta, l'economia 
              ripartiva alla grande e la gente dava l'impressione di passarsela 
              piuttosto bene. Qualche anno fa, quando scalammo il quinto posto 
              nella graduatoria delle potenze industrializzate, all'estero 
              rimasero stupefatti come dinanzi a un gioco di prestigio. Gli 
              stranieri osservano i fatti nostri e annotano una serie di difetti 
              accanto alla lista delle buone qualità che sono disposti a 
              riconoscerci. Come certe virtù esteriori: la cordialità, la 
              spontaneità. Ma anche la laboriosità, il gusto artistico, lo 
              spirito umanitario. Molti i lati negativi che ci attribuiscono: 
              l'indisciplina, la superficialità, la disorganizzazione, il debole 
              civismo. Perfino il senso della famiglia, che è un'eccellente 
              qualità italiana, è stato rovesciato in un "familismo amorale" e 
              iscritto dai censori tra i nostri "peccati capitali". Considerata 
              la gravità di questi nostri "peccati", ci si è sempre aspettati 
              che ne fossimo trascinati in basso: rivoluzioni, sfracelli 
              economici. Invece, siamo sempre usciti dalle nostre crisi, e, 
              sempre, più forti di prima. Molti esperti dei fatti nostri, i più 
              spassionati, hanno finito per prendere nota delle smentite che 
              provengono dalla realtà e arrendersi al mistero italiano. Così i 
              nostri successi economici sono stati rubricati tra le cose 
              inesplicabili, insieme con il volo del calabrone e l'incrollabile 
              pendenza della torre di Pisa. E la tenuta della nostra convivenza 
              civile, rispetto a lacerazioni e spinte centrifughe, ha dato luogo 
              a ingegnose congetture sociologiche sull'esistenza di un'armonia 
              di fondo, dietro gli eterni conflitti di una società "senza 
              stato". Gli stranieri nostri simpatizzanti ci considerano una 
              "anarchia che funziona". Mentre i detrattori persistono nel loro 
              catastrofismo, sempre smentito dai fatti eppure sempre ritornante. 
              In quel guizzo imprevisto, che ci fa riguadagnare il centro del 
              ring ogni volta che siamo messi all'angolo, molti vedono il 
              riflesso fortunato del famoso stellone d'Italia. Io sono convinto, 
              invece, di vederci il patriottismo degli italiani di buona 
              volontà. Se non fosse per loro, pronti a rimboccarsi le maniche 
              quando serve, saremmo andati al tappeto chissà quante volte.
 Come ci vedono gli stranieri lo ha detto. Ma 
              cos'è l'Italia per lei?
  
              
              Quello che è sempre stata: un sogno. Prima, per secoli, il sogno 
              dell'Italia che non c'era. Poi, con la rinascita dopo l'Unità, il 
              sogno dell'Italia che si voleva costruire. Siamo il paese che 
              storicamente ha dato un contributo tra i più alti alla civiltà. Ma 
              l'eredità del passato non fissa la nostra identità nazionale una 
              volta per tutte. L'Italia è un cantiere di lavori in corso. A 
              differenza degli altri popoli, non siamo quello che siamo ma 
              quello che vogliamo diventare. Non ripiegati nel passato, o 
              adagiati sul presente, ma proiettati nel futuro. E' una 
              dimostrazione di vitalità che comporta, però, un prezzo da pagare: 
              il senso d'insoddisfazione che ci accompagna da secoli. Chi ha 
              sempre un traguardo più avanzato da raggiungere non può essere 
              soddisfatto della sua condizione presente. Mai contenti, ed è 
              meglio così. Serve da pungolo per andare avanti. Ma se, per un 
              momento, ci voltiamo indietro possiamo vedere l'enorme cammino 
              fatto dalla nazione. Il processo di modernizzazione non si è mai 
              arrestato, pur tra deviazioni e disastri, fino a toccare il 
              traguardo storico dell'aggancio al plotone di testa dei paesi più 
              progrediti. Il mio governo è impegnato fortemente per continuare a 
              farne parte. Non è solo una questione di prestigio internazionale. 
              E' in gioco la conservazione e la crescita dei livelli di 
              benessere conquistati dal nostro popolo. Nonostante la persistenza 
              di sacche di povertà e di ingiustizia sociale, sulle quali il 
              governo sta intervenendo con provvedimenti concreti e non con le 
              solite chiacchiere della sinistra, la maggioranza degli italiani 
              sta molto meglio di quanto la precedente generazione non osasse 
              neppure immaginare. Ma bisogna continuare a crescere, per non 
              tornare indietro. Addormentarsi sugli allori prepara brutti 
              risvegli.
 Il presidente della Repubblica insiste molto 
              sul tasto dell'unità nazionale: a lei sembra in pericolo?
  
              
              A me sembra soprattutto che il presidente della Repubblica 
              adempia, con impegno ammirevole, al suo principale dovere 
              costituzionale, che è appunto quello di rappresentare l'unità 
              nazionale. Che non è soltanto l'unità politica nell'integrità 
              territoriale della Repubblica. Sotto questo aspetto non corriamo 
              rischi. Certamente non ne verranno nemmeno dal passaggio a una 
              forma di federalismo, con il trasferimento di poteri di governo 
              dal centro al sistema delle autonomie. Ma l'unità nazionale 
              dev'essere un valore di riferimento anche negli altri aspetti 
              della vita democratica. Come la competizione tra le forze 
              politiche e la contrapposizione degli interessi sociali. Ci sono 
              limiti che non devono essere superati, metodi distruttivi di 
              protesta e di lotta che devono essere ripudiati. Il presidente 
              Ciampi ricorda a partiti e parti sociali, che esiste fra tutti un 
              minimo comun denominatore di cui tener conto nell'urto, anche 
              aspro, degli interessi di parte. Di questo sforzo moderatore il 
              governo gli è grato. Ben altre contraddizioni, rispetto al valore 
              dell'unità nazionale, mi preoccupano. Il rappresentante di 
              un'importante banca d'investimenti ha affermato che, per gli 
              investitori, l'Italia esiste "da Firenze in su". Come se una 
              specie di "linea gotica finanziaria" spaccasse in due la penisola. 
              Dopo mezzo secolo di politiche meridionalistiche, con profusione 
              di miliardi a centinaia di migliaia, la riunificazione economica 
              del paese è ancora un problema in attesa di soluzione. Il governo 
              si considera fortemente impegnato su questo punto. Se il Sud non è 
              in buona salute, tutto il paese ne risente. Nord compreso. Questo 
              non ha nulla a che vedere con la famosa frammentazione della 
              società italiana. Siamo un popolo di individualisti, ma creativi e 
              orientati d'istinto nella direzione giusta. Siamo anche il paese 
              delle cento città e delle molte forme di vita. Ma non è una 
              debolezza. Anzi, può diventare una forza, se il governo fa il suo 
              dovere. Che è quello di armonizzare le diversità e di accompagnare 
              il movimento spontaneo della società nel verso giusto. 
              L'attaccamento al campanile e al proprio particolare non ci ha 
              impedito di arrivare a sentirci tutti italiani. Si sentono 
              italiani anche milioni di discendenti di emigrati, trapiantati 
              all'estero da generazioni. Per questo il governo ha istituito il 
              ministero per gli Italiani nel mondo. Il loro ammirevole senso di 
              appartenenza nazionale troverà presto rispondenza nella 
              possibilità di partecipare concretamente alla nostra vita 
              democratica. Altra cosa è la persistenza della divaricazione tra 
              Nord e Sud. Mi fa pensare a un "insuccesso di costruzione", come 
              dicono gli architetti. Ricordo il crollo di un palazzo nella 
              Milano del dopoguerra. Si scoprì che qualcuno aveva lasciato una 
              scarpa in un pilastro di cemento armato. Dopo oltre centocinquanta 
              anni si deve pur pensare che la questione meridionale abbia 
              qualcosa a che fare con l'"insuccesso di costruzione" dello Stato 
              centralizzato. Credo che nel federalismo sia la chiave della 
              soluzione del problema.
 L'immagine internazionale dell'Italia è come 
              appannata nella crisi internazionale provocata dall'offensiva del 
              terrorismo "islamista", all'indomani dell'incontro del G8 a 
              Genova. Perché, quando la parola passa alle armi, diventiamo 
              afoni?
  
              
              Non siamo affatto l'anello debole dell'Occidente, se è questo che 
              intende. E' il residuo di una visione caricaturale e offensiva 
              smentita dai fatti. Abbiamo migliaia di soldati impegnati con 
              successo in missioni di pace all'estero. All'orrore dell'11 
              settembre il governo ha immediatamente reagito schierandosi contro 
              i nuovi barbari, a fianco degli Stati Uniti. Alleati e amici. Alla 
              luce di ciò che è successo risultano chiare le preoccupazioni che, 
              a Genova, spinsero il governo a concentrare gli sforzi sulla 
              sicurezza del G8. Ho ribadito al presidente Bush che l'Italia sta 
              facendo la sua parte contro il terrorismo, e che siamo pronti a 
              impegnarci ancor più a fondo in tutti i modi che saranno 
              considerati utili per il successo della lotta ingaggiata in difesa 
              della civiltà comune, in difesa della libertà. Un conto è il 
              dissenso degli estremisti del pacifismo, una minoranza a cui non 
              può certo essere negato il diritto costituzionale alla libertà di 
              espressione nel rispetto della legge. Un altro è la determinazione 
              del governo e della stragrande maggioranza degli italiani a 
              partecipare allo sforzo di autodifesa del mondo civile. E' giusto 
              aspettarsi che le società democratiche sappiano distinguere tra il 
              dissenso di minoranze rumorose e la serietà del nostro contributo 
              nazionale alla buona causa. Fa parte della serietà anche il 
              rifiuto delle tentazioni del bluff. I nostri mezzi d'intervento 
              sono quelli che decenni di scarsi investimenti nelle Forze Armate 
              e di costante svalutazione dello strumento militare ci hanno messo 
              a disposizione. Sono consapevole che il ruolo internazionale 
              dell'Italia richiede una forza militare adeguata alla forza della 
              sua economia, nonché alle esigenze di sicurezza imposte dalla 
              pericolosa area geografica in cui siamo collocati. Sono 
              altrettanto consapevole dei cambiamenti che questa crisi ha 
              apportato alla scena mondiale, con l'imprevista rivalutazione del 
              ruolo degli stati nazionali e il grande rimescolamento delle carte 
              determinato dal coinvolgimento nella "Grande Coalizione" della 
              Russia e della Cina. Il governo saprà dare risposte dignitose ed 
              efficaci alle novità della situazione. Ma non sono cose che 
              s'improvvisano.
 Per tanti anni in Italia si è parlato sempre 
              di "paese" e mai di patria o di identità nazionale. Sembrava 
              politicamente sconveniente ricorrere a un lessico che altrove è 
              invece del tutto normale e con il quale si indica il senso di 
              appartenenza alla propria comunità politica. Poi, qualcosa è 
              cambiato. Lo dimostra la sua stessa esperienza: quando ha fondato 
              un partito chiamandolo Forza Italia, più volte ha fatto 
              riferimento alla necessità di "ridare speranza all'Italia". "Una 
              storia italiana" si intitolava il testo inviato agli elettori 
              nell'ultima campagna elettorale. Cosa è successo in questi ultimi 
              tempi?
  
              
              Sono accaduti talmente tanti fatti nella seconda metà del secolo 
              che la scala dei valori riconosciuti non poteva certo rimanere 
              quella di prima. Perché l'idea di patria sia in vetta a questa 
              graduatoria occorre che l'appartenenza nazionale sia sentita come 
              motivo di orgoglio. Non era ragionevole aspettarselo da un popolo 
              ancora prostrato dalla disfatta militare. Tanto più che i partiti 
              politici maggiormente rappresentativi avevano altrove il proprio 
              baricentro ideologico. L'eredità del Risorgimento nazionale non 
              poteva certo essere rivendicata dall'internazionalismo comunista o 
              dall'universalismo cattolico. Anche se ricordo che le uniche 
              parole di esortazione ad andare orgogliosi di avere l'Italia per 
              patria, "questa più grande famiglia donataci da Dio", ascoltate in 
              quegli anni, furono pronunciate proprio da un Papa, Pio XII. Eppoi 
              la nazione ha esistenza storica. Così come è nata può morire. 
              Nell'età della Guerra Fredda, con l'evidente incapacità dei 
              singoli paesi di provvedere alla propria sicurezza, e con la 
              formazione dei grandi blocchi militari, che erano anche aree 
              d'integrazione economica e politica, lo stato nazionale sembrò 
              avviato sul viale del tramonto. Lo stato a cui in Italia si 
              guardava con speranza era piuttosto quello europeo, in lenta 
              formazione. In compenso, se l'esistenza politica dell'Italia si 
              andava affievolendo, il senso dell'appartenenza nazionale 
              riprendeva forza sull'onda del successo dell'economia e del 
              prestigio internazionale dello stile italiano. Forza Italia è nata 
              per dare risposta a un popolo in cerca di una espressione 
              politica. Il nostro progetto corrisponde a una precisa "idea 
              dell'Italia". Che non è certo quella di un grande museo di 
              affascinanti testimonianze di altre età, a disposizione delle 
              vacanze intelligenti degli stranieri. Semplicemente, vogliamo 
              riorganizzare l'Italia per assicurarle un futuro degno del suo 
              passato. Una presenza dignitosa sulla scena dell'Europa e del 
              mondo. Quale che sia il destino a cui ci avvia il vento di 
              cambiamenti che già annuncia un tornante della storia.
 Dunque, il suo progetto politico è diretto a 
              dare espressione alla "Italia profonda". Quella popolare, che 
              affronta la sfida del cambiamento con la volontà di preservare le 
              ragioni dell'esistenza collettiva. "Gente dalle molte vite", sì, 
              ma sempre gente italiana. E' così?
  
              
              Esiste, negli strati profondi della società, un sentimento 
              dell'identità nazionale che ha resistito a ogni contraria 
              suggestione ideologica. Come ho già detto, Forza Italia è nata per 
              dare espressione a questo sentimento popolare, rimasto orfano di 
              rappresentanza politica. E' stata una giusta iniziativa, come 
              dimostrato dalla vastità del consenso raccolto. Solo un 
              inguaribile snobismo può indurre la nostra sinistra da salotto a 
              cucirmi addosso l'etichetta di nazional-popolare. Se credono di 
              squalificarmi si sbagliano, si sbagliano di grosso. Non fanno 
              altro che rafforzare le ragioni del mio patto con gli italiani. 
              Quello stesso patto che la sinistra ha inutilmente cercato di 
              stringere per cinquant'anni di seguito. Triste destino, quello di 
              una minoranza che si pretende popolare senza esserlo e che, quando 
              cerca di farsi maggioranza, è costretta a mettersi in maschera. 
              Quella di Garibaldi che, nel '48, nascondeva Togliatti; quella di 
              Rutelli che ha coperto D'Alema nelle ultime elezioni. C'è più 
              intelligenza politica nel nostro popolo che in tutti i salotti 
              della sinistra radical-chic.
 Potrebbe tracciare un identikit di quella 
              parte del paese - maggioritaria, ma pur sempre una parte - che ha 
              dato fiducia a Forza Italia e si sente rappresentata da lei?
  
              
              Io guido un governo che si sente investito della responsabilità di 
              rappresentare l'intera nazione, con tutte le sue energie e tutta 
              la sua storia. E anche con tutte le sue contraddizioni. Non 
              rappresento solo la maggioranza che mi ha dato fiducia, ma anche 
              la minoranza che mi ha votato contro. Non è solo il mio dovere, ma 
              anche il mio sentimento. Ciò premesso, sono naturalmente in piena 
              sintonia con molti italiani che lavorano, risparmiano, rischiano e 
              tirano su la famiglia con l'impegno di ogni giorno. Merito loro se 
              questo paese è inaffondabile e progredisce nonostante le 
              difficoltà. Qualsiasi altro popolo si vanterebbe di poter fare 
              assegnamento su tanti cittadini capaci e di buona volontà. 
              Purtroppo non è quello che succede da noi: ce lo impedisce il 
              gusto perverso di esasperare i nostri difetti e quasi di 
              compiacercene. Un amico straniero mi ha detto che 
              l'autodenigrazione è il nostro peggior difetto. Difficile separare 
              con un taglio netto qualità e difetti. Spesso sono le due facce 
              della stessa medaglia. Poiché siamo dotati di un vigile spirito 
              critico, non possiamo non essere autocritici. E se amputati del 
              nostro famoso individualismo, al limite dell'anarchia, potremmo 
              conservare la creatività che alimenta il successo del made in 
              Italy nel mondo? Sospetto di no. Probabilmente, abbiamo i difetti 
              delle nostre buone qualità. Ovvero le buone qualità dei nostri 
              difetti. Comunque, le une e gli altri strettamente intrecciati. 
              Penso anche a un altro difetto italiano che è sul punto di 
              volgersi in una virtù: il tanto discusso campanilismo. C'è in noi 
              un atavico attaccamento alla "piccola patria" che è stato 
              lungamente vituperato come un intralcio alla "grande Italia" in 
              cammino. Beh, si dà il caso che la dimensione ottimale della nuova 
              economia produttiva sia proprio quella decentralizzata. Così il 
              localismo diventa una risorsa secondo lo spirito del tempo. Il 
              federalismo, scaturito dalla nostra storia, coniuga dimensione 
              locale e dimensione nazionale, in funzione dell'efficienza 
              produttiva. Non è più un difetto, se mai lo sia stato.
 Lei crede nell'idea di "morte della patria" 
              sostenuta da alcuni studiosi?
  
              
              I grandi popoli soffrono ma non muoiono. E la vita di un grande 
              popolo è inseparabile da quella della sua patria, la terra dei 
              padri. Nella tragedia dell'8 settembre 1943 è morto un certo 
              sentimento della patria, figlio di un ciclo storico bruciato nel 
              fuoco di due guerre mondiali. L'Italia ha dato l'addio a smodati 
              sogni di grandezza - nazionale prima, imperiale poi - nel trauma 
              della disfatta. Altre nazioni europee hanno celebrato il proprio 
              malinconico "addio al passato" dopo la vittoria. Con la seconda 
              guerra mondiale la storia ha voltato pagina. La patria italiana ha 
              realizzato, nella libertà e nella pace, quegli obiettivi di 
              modernizzazione e di benessere che si era creduto di poter 
              raggiungere con le armi e la scorciatoia autoritaria. Dieci anni 
              fa, lo sfascio del sistema comunista ha abbattuto non 
              completamente l'ultimo muro tra gli italiani, quello ideologico. 
              Una parte del paese, infatti, non ha ancora accettato, in modo 
              compiuto, la lezione della storia, e resta aggrappata a prassi e 
              atteggiamenti mutuati dalla tradizione comunista. Fino a quando la 
              sinistra non avrà fatto tutti i conti con i propri errori e 
              misfatti, l'Italia non potrà essere quel "paese normale" che pure 
              la stessa sinistra, a parole, reclama. Lascio agli storici di 
              sviscerare il tema della "morte della patria" nella lunga notte 
              del '43. Personalmente, credo preferibile inquadrare il trauma 
              dell'8 settembre nella lontananza della prospettiva storica. Non 
              bisogna dimenticare che il paradigma sul quale si basò il 
              compromesso che diede vita alla Costituzione fu quello 
              antifascista, e che, per molto tempo, l'antifascismo si sovrappose 
              a uno spirito patriottico inevitabilmente affievolito. Ora, 
              invece, sono stati fatti importanti passi avanti nella 
              pacificazione nazionale, e gli appelli del presidente Ciampi 
              all'unità del paese cadono su un terreno fertile. Registrano 
              un'evoluzione dello spirito pubblico. La stessa che ha dato il 
              governo del paese a una maggioranza di centrodestra, a una delle 
              più solide maggioranze nella storia repubblicana. Dissolte le 
              ombre del passato, la parola "patria" non è più tabù. Ce lo ha 
              ricordato, in queste settimane, il valoroso popolo americano che, 
              dinanzi al crollo delle due Torri Gemelle e alla parziale 
              distruzione del Pentagono, si è stretto attorno a quel simbolo di 
              libertà e di unità che è la bandiera a stelle e strisce.
 Anche sulle pagine dei giornali il tema dell'identità nazionale 
              viene sempre più dibattuto…
  
              
              Mi ha colpito l'articolo-fiume di Oriana Fallaci sul Corriere 
              della Sera. Milioni di italiani lo hanno letto e ne hanno discusso 
              appassionatamente. Un vero terremoto emotivo, registrato con 
              disagio nel dibattito culturale, ossessionato dal politically 
              correct. Non c'è dubbio che le reazioni della grande scrittrice 
              all'orrore dell'11 settembre, espresse con il massimo di efficacia 
              consentito da una viscerale franchezza, abbiano toccato corde 
              profonde. Personalmente sono rimasto colpito dalla rivendicazione, 
              con parole emozionate e orgogliose, della sua italianità. Sì, 
              qualcosa è cambiato in questo nostro paese, negli ultimi dieci o 
              quindici anni. A quanto pare, gli italiani hanno smesso di credere 
              che sia bon ton dissimulare l'orgoglio della loro nazionalità. 
              Credo che anche il successo del mio movimento, Forza Italia, debba 
              molto all'esplicito richiamo alla patria, al tricolore. Non si 
              tratta di un ritorno di fiamma del nazionalismo. Le passioni delle 
              precedenti generazioni appartengono a una storia finita, senza 
              possibilità di ritorno almeno nella nostra parte di mondo. A 
              nessuno verrebbe in mente di alimentare il proprio amor di patria 
              col disprezzo delle patrie altrui. Sarebbe un'assurdità. Diceva 
              già Papa Pacelli: "Come se il desiderio naturale di vedere la 
              propria patria bella, prospera all'interno e rispettata all'estero 
              dovesse essere inevitabilmente causa di avversione verso gli altri 
              popoli". Certo, la competizione tra le nazioni esiste, specie 
              all'interno della medesima area di civilizzazione. Guai se non 
              esistesse: proprio la competizione è la molla del progresso. Ma è 
              la competizione delle gare olimpiche, in cui l'asprezza non 
              esclude il rispetto per gli altri concorrenti in pista. 
              Identificarsi con il proprio sistema di valori non significa 
              disprezzare le identità diverse. Anzi, credo che proprio la 
              certezza della propria identità culturale sia la condizione 
              necessaria per muoversi con apertura mentale nel nostro mondo 
              delle diversità. Ci si confronta utilmente solo sulla base delle 
              rispettive identità.
 L'Italia sta diventando un paese multiculturale…
  
              
              Credo che una società multietnica sia nell'ordine delle cose. La 
              gente si muove da un continente all'altro, per bisogno ma anche 
              per lavoro e per gusto. Là dove trova quello che cerca fissa la 
              sua nuova patria. Quella del cuore, che non sempre coincide con 
              quella dei padri. Ma l'idea che una società multietnica debba 
              necessariamente essere anche una società multiculturale mi 
              convince molto meno. Direi che è una questione di misura, più che 
              di principio. A tutti piace il sale nella minestra, ma se ce n'è 
              troppo la minestra diventa immangiabile. La civilizzazione 
              francese, per esempio, è sempre stata aperta all'afflusso di genti 
              delle più svariate provenienze, unite dal vincolo della 
              cittadinanza, e quindi dall'adesione a determinati valori 
              universali: libertà, uguaglianza, fraternità. E' naturale che i 
              nuovi cittadini portino con sé il bagaglio dei propri usi e 
              costumi, se non offendono le leggi o i sentimenti della società di 
              cui entrano a far parte. Altrettanto naturale che col tempo e il 
              fluire delle generazioni, quel bagaglio culturale si stemperi 
              nella cultura dominante della società ospite, fino a diventare un 
              sentimento della memoria. E' quel che è accaduto negli Stati Uniti 
              col successo del melting pot e della politica di assimilazione. Ci 
              sono milioni di italo-americani sentimentalmente attaccati alle 
              loro radici, ma orgogliosi di essere cittadini degli Stati Uniti. 
              I guai cominciano se una società multietnica prende la piega 
              sbagliata. Come accade quando la formazione di enclaves culturali 
              da parte dei nuovi arrivati non è una tappa verso l'integrazione 
              (come il quartiere di Little Italy a New York), ma corrisponde a 
              una scelta di arroccamento e di incomunicabilità culturale. Una 
              nazione non può, senza pericolo, diventare un mosaico di 
              autoghettizzazioni. Viva la diversità, ma anche il buonsenso vuole 
              la sua parte. Mi sembra che la sinistra radical-chic cavalchi con 
              troppa leggerezza la questione del multiculturalismo.
 La sua irruzione sulla scena politica 
              italiana - sono passati ormai quasi dieci anni - è stata 
              interpretata nei modi più disparati. Qualcuno l'ha dipinta come un 
              pericolo per la democrazia, qualcun altro ha visto in lei quasi un 
              salvatore. Quel che è certo è che la nascita di Forza Italia ha 
              rappresentato una rottura e un'innovazione rispetto alla 
              precedente tradizione politico-partitica nazionale. La sua stessa 
              personalità sembra avere poco in comune con il modo di fare tipico 
              dei politici italiani della Prima Repubblica. Eppure ci saranno 
              elementi che, a suo giudizio, consentono di stabilire una qualche 
              continuità ideale e culturale tra la sua vicenda e la storia 
              politica del nostro paese.
  
              
              Per quanto mi sia sforzato, in tutti questi anni, di comprendere 
              le ragioni delle critiche rivolte alla scelta di impegnarmi in 
              politica francamente non sono mai riuscito a immaginarmi nelle 
              vesti di un marziano capitato per sbaglio sul pianeta Italia a 
              fare un mestiere che non è il suo. Sono un imprenditore che si è 
              sempre imposto di tenere alto il nome del proprio paese. La scelta 
              di impegnarmi in politica - maturata nel quadro di una congiuntura 
              assolutamente straordinaria - ha risposto al mio desiderio di 
              vedere difesi valori e principi che considero patrimonio 
              inalienabile della nostra storia repubblicana: la democrazia, la 
              libertà economica e politica, il rispetto dei diritti individuali, 
              la difesa della famiglia, il benessere, lo sviluppo sociale e 
              civile. Sono i valori per i quali si sono battuti i grandi 
              protagonisti della politica italiana del dopoguerra: Alcide De 
              Gasperi, don Luigi Sturzo, Luigi Einaudi, Gaetano Martino, Ugo La 
              Malfa, Randolfo Pacciardi, Giuseppe Saragat, Bettino Craxi. La mia 
              è stata la scelta di una persona, di un imprenditore educatosi 
              alla scuola della tradizione liberal-democratica, cattolica ma non 
              confessionale, moderata ma non conservatrice, laica ma non 
              laicista. Una tradizione che ha contato moltissimo nella storia 
              dell'Italia repubblicana, che sul finire degli anni Ottanta si era 
              andata offuscando e che Forza Italia ha avuto il merito storico di 
              rilanciare e di porre nuovamente al centro della vita pubblica del 
              paese.
 Oggi lei è alla guida del paese nella veste di presidente del 
              Consiglio. Come immagina il futuro dell'Italia?
  
              
              Non nascondo di essere animato da uno spirito costruttivo, da 
              nuove frontiere. Lo dimostra d'altronde la mia storia 
              imprenditoriale. Più che al passato, ho sempre avuto lo sguardo 
              rivolto al futuro, la qual cosa spiega perché a suo tempo mi sia 
              impegnato con tutte le mie forze in un'avventura come quella 
              televisiva, che è stata entusiasmante dal punto di vista personale 
              e che ha contribuito alla crescita culturale del paese. Nonostante 
              ciò che dicono certi fautori del pauperismo o i nostalgici 
              dell'Italia in bianco e nero. Ovviamente, questo spirito l'ho 
              trasferito nella politica. Sono un creativo, non un utopista. Non 
              ho mai pensato di dover realizzare sul corpo del paese strani 
              esperimenti di ingegneria sociale. L'utopismo politico si è sempre 
              tradotto in grandi tragedie. Ma guardare al futuro, immaginare 
              scenari di cambiamento, fare progetti di lungo periodo, questo lo 
              ritengo per un politico quasi un dovere, e, per un politico 
              nell'Italia di oggi, addirittura una necessità. Tradotto sul piano 
              dell'azione di governo, ciò significa non limitarsi 
              all'amministrazione dell'esistente, a una visione puramente 
              contabile e gestionale della politica. L'Italia ha certo bisogno 
              di una classe dirigente che agisca con rigore, competenza e onestà 
              soprattutto alla luce degli impegni, delle scadenze e degli 
              obblighi fissati dall'Unione Europea. Ma ha anche bisogno di una 
              élite in grado di guardare lontano, oltre la contingenza, che sia 
              appunto guidata da una precisa visione del paese, da un'idea di 
              sviluppo, in grado di immaginare che cosa sarà dell'Italia non fra 
              due o tre anni, ma fra uno o due decenni. Da questo punto di vista 
              ci aspettano tempi impegnativi, durante i quali - nell'interesse 
              delle generazioni a venire - dovremo prendere decisioni di grande 
              valore strategico. Faccio un esempio: in Italia si è diffusa 
              l'illusione che utilizzare quotidianamente la Rete o navigare su 
              Internet rappresenti un fattore di grande modernità. In realtà, 
              utilizzare le tecnologie, anche quelle all'apparenza più 
              sofisticate, richiede uno sforzo relativo. La capacità competitiva 
              di un paese si misura non dall'uso terminale delle tecnologie, ma 
              dalla capacità di progettarle e di renderle economicamente 
              fruibili. Ci sono settori - penso per esempio all'industria 
              aerospaziale, al comparto energetico, alla farmaceutica, alle 
              biotecnologie, all'industria della sicurezza - nei quali il nostro 
              paese si trova in grave ritardo rispetto agli altri partner 
              europei. Ogni volta che si parla di grandi opere o di 
              potenziamento infrastrutturale, poi, ci si imbatte contro un 
              pesante fuoco di sbarramento. Se l'Italia non deciderà di 
              investire in questi settori, se non si trova il modo di potenziare 
              la ricerca in aree strategiche come quelle appena indicate, 
              finiremo per diventare un paese dal futuro incerto, costretto ad 
              andare al traino di chi invece ha avuto il coraggio delle scelte. 
              Questo è esattamente ciò che il mio governo vuol fare. Al termine 
              della mia avventura politica - quando sarà - mi piacerebbe vedere 
              l'Italia incamminata lungo la strada di un reale e profondo 
              processo di trasformazione, all'altezza delle sue potenzialità e, 
              aggiungo, delle sue stesse necessità. Con i conti, naturalmente, 
              in ordine. Non possiamo rivendicare solo il primato nel settore 
              della moda e dell'alimentazione. E' poco rispetto a un mondo che 
              si sta profondamente trasformando. La mia visione dell'Italia è, 
              dunque, quella di un paese in grado di tenere il passo con la 
              modernità.
 A questo proposito, si è parlato del suo 
              programma di governo come di un progetto di "Italia globale". E' 
              così?
  
              
              La parola proprio non mi piace. Ma se significa una strategia tesa 
              a proiettare il nostro paese nella globalizzazione tenendo conto 
              delle sue reali specificità, sono d'accordo. Siamo consapevoli che 
              l'Italia proprio per le sue caratteristiche locali - 
              policentricità, economie diversificate, collocazione nel 
              Mediterraneo - è un paese più attrezzato e più pronto di altri 
              alla sfida globale. La nostra posizione geografica, la compresenza 
              sul nostro territorio di più culture e più vocazioni, hanno 
              costituito fin dal passato le chiavi di una spiccata vocazione 
              marittima e mercantile. Nel mare gli italiani non hanno mai visto 
              un limite ma una via di comunicazione globale. Su questa vocazione 
              punta il governo per sviluppare e dare senso al ruolo dell'Italia 
              in Europa, nel Mediterraneo e più in generale nell'intera scena 
              internazionale. Si dice che il paese avrebbe bisogno di più 
              Occidente, ma è anche vero il contrario, cioè che l'Occidente ha 
              bisogno di più Italia. Ha bisogno del nostro contributo attivo in 
              termini di presenza, di proposta, di capacità di sintesi. L'Italia 
              ha già smesso di sottrarsi alle sfide della storia, trincerandosi 
              dietro gli alibi del pacifismo, a ogni costo. E lo ha dimostrato 
              con la partecipazione delle sue forze armate alle missioni di pace 
              all'estero. Molto resta da fare: migliore coesione sociale e più 
              modernizzazione. A cominciare dalla modernizzazione delle nostre 
              istituzioni, così inadeguate rispetto all'esigenza di prendere 
              decisioni efficaci in tempi ragionevoli. 
              
              16 novembre 2001
 lucianolanna@hotmail.com
 
              
              (da Ideazione 6-2001, novembre-dicembre)
 
 
              
              
 
               
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