| Socializzare senza statizzare di Roberto Chiarini
 
 Il pensiero e l’opera di Adriano Olivetti come l’esperienza del 
              suo Movimento Comunità si prestano per loro natura ad una 
              molteplicità di letture. Innanzitutto, si offrono come la 
              concretizzazione storica - certo parziale e presto rientrata - 
              della prospettiva “comunitaria”. Insieme si presentano come il 
              tentativo all’epoca mancato, anche se generoso ed originale, di 
              dar vita a una “terza forza”: Geno Pampaloni l’ha definita, con 
              un’ardita metafora, una delle tante croci di cui è cosparsa “la 
              storia cimiteriale della terza forza”. E ancora. L’esperienza 
              olivettiana può essere valutata come ricerca anticonformistica di 
              una “terza via” - riassumibile nella massima olivettiana di 
              “socializzare senza statizzare” - rispetto sia al modello 
              ottocentesco di democrazia parlamentare sia al modello 
              novecentesco di socialismo realizzato: una ricerca saldamente 
              impiantata sulla denuncia della crisi della rappresentanza 
              democratica in una società di massa. Infine può essere considerata 
              come la prima seria operazione volta ad innestare nella cultura 
              politica italiana, tutta intrisa di storicismo, la lezione 
              metodologica di un “riformismo tecnicamente provveduto” - una 
              “pragmatica delle riforme” - non più fondato su una fede 
              ottimistica nei meccanismi impersonali e necessitanti dello 
              sviluppo storico, ma responsabilmente affidato allo sforzo tecnico 
              ed organizzativo degli uomini e, in quanto tale, ricondotto alla 
              dimensione di compito morale e politico.
 
 Si tratta, come si vede, di approcci non solo legittimi ma anche 
              assai stimolanti, suscettibili di ulteriori approfondimenti alla 
              luce della odierna, conclamata crisi della politica e della 
              correlata tendenza all’anti-politica. Nel momento in cui si è 
              esaurito il richiamo seduttivo di un ideologismo amputato di ogni 
              operatività ed ha rivelato il suo scarso respiro un pragmatismo 
              senza progetti e direzioni, può esercitare rinnovate suggestioni 
              intellettuali un’esperienza atipica di riformismo idealmente 
              orientato. Su due fronti in particolare pare corretto pensare ad 
              una riattualizzazione del pensiero e della pratica del Movimento 
              Comunità: la progettazione di un superamento della deriva 
              partitocratica della democrazia e la ricerca di un’alternativa 
              alla rappresentanza politica congelata nelle subculture. La 
              stabile condizione di minorità, quasi di marginalità, del 
              Movimento Comunità nel mercato politico nazionale è stata 
              compensata dal carattere di “globalità” della proposta 
              olivettiana, dal suo valore fecondamente provocatorio nei 
              confronti dei tanti, inveterati conformismi della nostra cultura 
              politica, nonché del suo intrinseco valore di devianza rispetto 
              alle consolidate tradizioni della borghesia imprenditoriale e del 
              movimento operaio: l’una attestata su una posizione di rigetto 
              pregiudiziale di ogni responsabilità sociale, tanto meno di quella 
              politica; l’altro prigioniero del mito del progresso automatico 
              che lo ha fatto oscillare tra il massimalismo dei fini e il 
              minimalismo - rinunciatario - delle realizzazioni. Essa 
              rappresenta anche la prima e unica “provocazione” condotta nel 
              nostro paese da posizioni democratiche nei confronti del sistema 
              politico per ridisegnarne l’architettura con il fine dichiarato di 
              spodestare i partiti dal ruolo di mediazione politica tra società 
              civile e istituzioni da tutti riconosciuto come assai pronunciato, 
              ma cionondimeno da tutti considerato come vitale in una democrazia 
              funzionalmente articolata.
 
 Finalità e propositi organizzativi bene evidenziano come la sua 
              genesi storica sia coerente con la progettazione sociale di 
              Adriano Olivetti, un intellettuale nuovo nel senso di un 
              imprenditore culturalmente consapevole - ed eticamente motivato - 
              del fatto che la sfida della industrializzazione esige anche una 
              rifondazione delle regole e delle forme del vivere collettivo. 
              Politica ed economia, cultura e società devono essere ricondotte 
              ad unità così come ad unità deve essere ricondotta la vita 
              dell’uomo: dal lavoro al tempo libero, dal divertimento 
              all’istruzione, dall’abitazione alla città. Le responsabilità sono 
              collettive e quindi le soluzioni non possono che essere 
              funzionalmente integrative, sulla base di due valori strategici 
              del vivere moderno: la democrazia e la competenza, l’una 
              criterio-base per realizzare una partecipazione responsabile, 
              l’altra per garantirne una riqualificazione. L’idea direttiva è la 
              costituzione di una “comunità”. Essa non deve essere né troppo 
              ristretta né troppo estesa territorialmente. La sua dimensione è 
              definita dalle limitate possibilità che sono a disposizione di 
              ogni persona per contatti sociali, in quanto “un organismo è 
              armonico ed efficiente soltanto quando gli uomini preposti a 
              determinati compiti possono esplicarli mediante contatti diretti”. 
              Entro questa misura tornano ad apparire governabili tutte le 
              maggiori sfide del mondo moderno: anzitutto la separazione tra 
              stato e società e poi l’alienazione dell’uomo sul lavoro e nel 
              tempo libero.
 
 Al di là di motivazioni strettamente affettive che hanno sempre 
              disposto Adriano Olivetti a guardare alla sua “piccola patria” del 
              Canavese come all’area prediletta per condurre un “esperimento 
              pilota”, ci sono precise ragioni strutturali perché qui l’ambiente 
              sia ricettivo. Anzitutto il territorio non ha subìto le ferite 
              dell’urbanesimo e presenta quindi “le dimensioni naturali e umane” 
              congeniali alla progettata forma della “comunità”. C’è poi un dato 
              storico assai rilevante. Il Canavese non ha accolto nel suo seno 
              la sedimentazione di fratture divaricanti. E’ una società agricola 
              povera, strutturata sulla piccola proprietà, priva quasi del 
              bracciantato. Non ha conosciuto in altre parole le aspre 
              contrapposizioni della lotta di classe. Ha conosciuto invece, e 
              continua a conoscere negli anni Cinquanta, la cronica piaga di 
              redditi scarsi ed aleatori, della mancanza di lavoro, 
              dell’emigrazione, della sottoccupazione, dell’esodo rurale. La 
              penetrazione del mercato capitalistico si è tradotto in un 
              processo di pauperizzazione e non di proletarizzazione. Come sono 
              mancate le condizioni per l’attivazione della frattura di classe - 
              e correlativamente per l’allestimento di una forte subcultura 
              socialista -, così non sono offerte quelle favorevoli allo 
              sviluppo di una subcultura cattolica. Il basso profilo del 
              conflitto città/campagna ha evitato che la piccola proprietà 
              contadina strutturasse una propria identità culturale ed 
              associativa alternativa. Per tutte ragioni Comunità, lanciando una 
              proposta che esclude una logica di contrapposizione e valorizza al 
              contrario il vincolo solidaristico con la comunità locale, ha 
              tutte le carte in regola per sintonizzarsi su questa lunghezza 
              d’onda.
 
 Inoltre la non completa separazione dai mezzi di produzione e la 
              conferma di una funzione economica della famiglia, oltre a 
              svolgere un benefico effetto ammortizzatore delle fluttuazioni 
              cicliche del mercato, si pongono alla base di un orientamento 
              acquisitivo verso l’esterno, della persistenza di ruoli 
              tradizionali, di una visione delle proprie possibilità di vita 
              come dipendenti assai più da fattori naturalistici e dall’impegno 
              profuso sul lavoro che dai rapporti di produzione. In altre parole 
              le caratteristiche della struttura sociale pongono le condizioni 
              per un tipo di reazione delle classi coinvolte nel progesso di 
              modernizzazione tendente a non mettere in discussione l’equilibrio 
              precedente, ma piuttosto a ricostituirlo servendosi dei suoi 
              moduli individualistici. Mancando la proletarizzazione, manca 
              anche quella omogeneizzazione sociale che funge da volano ad una 
              mobilitazione di tipo collettivo. Da questo punto di vista il 
              movimento di Adriano Olivetti è nettamente avvantaggiato rispetto 
              ai partiti ideologici, tributari per definizione di identità 
              collettive strutturate.
 
 C’è infine un ultimo elemento che gioca a favore di Comunità. Il 
              motivo della salvaguardia delle dimensioni umane dei piccoli 
              centri e soprattutto il tema dell’integrazione dell’agricoltura 
              con l’industria bene si allineano con un radicato sentimento di 
              conservazione sociale proprio del piccolo coltivatore diretto. 
              Questi non pensa al proprio miglioramento in termini di 
              cambiamento di status ma in quelli di consolidamento. Guarda al 
              lavoro in fabbrica non come un sostitutivo ma solo come un 
              completamento di lavoro nei campi. In linea generale si può quindi 
              affermare che il Movimento di Adriano Olivetti si appresti ad 
              operare in un ambiente che si avvicina sotto molteplici aspetti 
              alla tipologia delle “aree-sistema”, di quelle aree periferiche 
              cioè che affrontano la sfida della modernizzazione coniugando i 
              maggiori tassi di crescita economica con una “industrializzazione 
              senza fratture”. Se il Canavese non condivide col modello 
              sopra-richiamato alcuni elementi caratterizzanti (piccola 
              dimensione degli impianti, parcellizzazione dell’attività 
              produttiva, fitta rete di interdipendenze tra le imprese) ne 
              ricalca però altri, in particolare sotto l’aspetto dei valori 
              socio-culturali (un’etica del lavoro basata sulla “tradizionale 
              convinzione di uno stretto nesso tra sforzo e compenso, tra 
              impegno sul lavoro e affermazione sociale”, rapporti di lavoro 
              ispirati alla collaborazione piuttosto che alla conflittualità, 
              apertura delle scelte professionali) e dei vantaggi di un ambiente 
              integrato (più bassi costi sociali e correlativamente più alti 
              livelli di vita della popolazione lavoratrice rispetto ai luoghi 
              di forte concentrazione demografica).
 
 Gli atout di Comunità non derivano solo dalle condizioni 
              economiche e sociali del Canavese. Vengono anche, o meglio trovano 
              un rinforzo decisivo, dal ruolo assolto nell’intera area della 
              Olivetti. Anche se l’azienda di Ivrea non si presenta certo come 
              lo sponsor ufficiale del Movimento, bisogna dire che Adriano e con 
              lui la cerchia degli intellettuali e degli animatori che lo 
              attorniano e che nell’impresa hanno una posizione professionale, 
              fungono da cemento fortemente unificante, e non solo in termini 
              simbolici. Del resto la stessa utopia comunitaria, pur costruita 
              su una scala di grande astrazione, nutrita di motivazioni 
              innanzitutto di natura religiosa e civile, e godendo quindi di un 
              suo statuto ideologico di assoluta autonomia, ha avuto tuttavia 
              una gestazione correlata con la crescita della Olivetti e con la 
              raggiunta consapevolezza che “i numerosi problemi indotti dallo 
              sviluppo industriale non avrebbero potuto venire risolti se non 
              con iniziative che trascendano [...] gli stretti interessi e 
              competenze dell’industria”. La comunità ideata da Adriano vuole 
              riunire in sé sia le risorse della società politica - risoluzione 
              dei conflitti - sia quelle della subcultura - mediazione dei 
              conflitti. In questa sede il cittadino si spoglia - tale è 
              l’assunto - dei condizionamenti del suo ruolo sociale, e cioè di 
              soggetto/oggetto di “poteri di fatto” e, riforgiato nell’armonia 
              della comunità, senza per questo rinunciare all’identità e alla 
              creatività della sua “persona”, concorre ad individuare mezzi e 
              modalità di soluzione dei vari conflitti di interesse. Il che 
              equivale a dire che nella fucina della comunità non si conosce la 
              bipolarità di strutture di interessi e di strutture di 
              solidarietà, proprie di ogni società industriale complessa, ma che 
              in essa si instaura una perfetta saldatura delle due. Le pratiche 
              della democrazia partecipativa, fecondate dal seme della 
              competenza bastano per un corretto ed efficace governo della cosa 
              pubblica. Con una conseguenza rilevante per quel che riguarda la 
              divisione del lavoro del sistema. Il ruolo della società politica, 
              e in particolare dei partiti, tende a collassarsi. Essi non sono 
              più gli agenti della strutturazione e della rappresentanza degli 
              interessi.
 
 Per reggere la sfida, Comunità ha però davanti a sé una strada 
              obbligata e per di più in salita. Deve dare risposta al problema 
              della rappresentanza politica. Dichiarando guerra ai cosiddetti 
              “partiti di massa”, essa rinuncia in partenza alle risorse della 
              ideologia - cattolica e socialista. Risorse, come si sa, assai 
              preziose sia perché l’aggregazione di domande politiche 
              particolaristiche esige sacrifici individuali che solo la 
              gratificazione simbolica dell’ideologia può risolvere, [...] sia 
              perché la delega espressa su base subculturale tende ad essere più 
              generale e più stabile nonché a ridurre il carico per il sistema 
              politico dal momento che, fondandosi su un sistema di valori 
              condiviso, è più sganciato dal soddisfacimento immediato di 
              richieste particolari. Uno scarto a danno di Comunità aggravato 
              dalla rinuncia di questa a dotarsi di una struttura organizzativa 
              separata. Ciò compromette ulteriormente la possibilità della 
              costruzione di un’identità collettiva (e quindi di una delega 
              ideologica che aggreghi le richieste particolari nel quadro di una 
              domanda complessiva e di lungo periodo) e obbliga a puntare sempre 
              su risultati immediati e concreti per commisurare la validità del 
              movimento. Comunità, a dire il vero, dispone già di un’ideologia 
              ben strutturata. Ma un’ideologia, per divenire forza concretamente 
              operante, deve trovare i canali adeguati per calarsi nella 
              società, deve cioè collegarsi a precisi soggetti collettivi. 
              Storicamente questa saldatura non avviene né in virtù delle 
              capacità pedagogiche di una élite, né in virtù dell’intensità del 
              suo impegno di volontariato. Avviene in genere se l’ideologia si 
              insedia all’interno di una frattura, ossia di un conflitto 
              radicale che porta la società a dividersi lungo un asse fondativo 
              del dualismo amico/nemico proprio della politica e diventa in tal 
              modo specchio utile ad un soggetto sociale per costruire la sua 
              identità. Da questo punto di vista Comunità ha una sola carta da 
              giocare. Non può certo valorizzare né la frattura di classe né 
              quella confessionale. La sua scelta anzi è in direzione contraria, 
              verso una loro ricomposizione.
 
 Resta un unico fronte che sia in linea con gli assunti ideali ed i 
              contenuti politici della proposta avanzata dal movimento 
              olivettiano, ed è quello della frattura centro/periferia. I 
              rapporti conflittuali con lo stato centrale possono favorire la 
              strutturazione di un’identità locale attorno al motivo di una 
              difesa della comunità dagli effetti squilibranti della 
              modernizzazione, in particolare ponendo un freno alla 
              proletarizzazione e fornendo una difesa al lavoro autonomo. Fuori 
              di questa dimensione, Comunità rischia di trovarsi a gestire una 
              domanda particolaristica disaggregata. In quel caso le sole 
              risorse cui può attingere sono le risorse del patronage di 
              interessi materiali frammentati o le risorse carismatiche del suo 
              leader, o magari entrambe. Ma nel primo caso diventa tributaria 
              dell’azienda, nel secondo di Adriano, comunque sempre degli 
              Olivetti. In entrambi i casi essa si pregiudicherebbe ogni 
              possibilità di replica e, ancor più, di contagio dell’esperimento 
              condotto nel Canavese, visto che la variabile Olivetti ha un 
              vincolo strettamente locale. Si predisporrebbe quindi ad una 
              fortuna assai labile perché legata ad un territorio e ad un 
              personaggio. Non a caso la storia di Comunità nel Canavese 
              oscillerà continuamente tra le seguenti opzioni: la costruzione di 
              subcultura territoriale e la valorizzazione di un’autorità (il 
              presidente della Olivetti) e di un carisma (il personaggio 
              Olivetti). Tramontata la possibilità di convalidare la prima, 
              venuta meno poi, quasi in concomitanza, la seconda, anche Comunità 
              perderà la sua linfa e si appresterà a chiudere definitivamente la 
              propria esperienza, pur così ricca di successi parziali ed anche 
              di apprezzabili risultati operativi.
 
 14 dicembre 2001
 
 (da Ideazione 5-2001 settembre-ottobre)
 
 
 
  
              
              
 
 
               
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