I vini del Franco bevitore.
Capo di Stato, un “Bordeaux” in terra veneta

di Franco Ziliani

Come sono volati gli anni per il vino italiano! Sembra ieri, o quasi, che i primi discorsi sulla qualità, dopo la tenace e lungimirante predicazione da pioniere del Veronelli d’antan, hanno cominciato a diffondersi, a farsi strada, a funzionare come un tam tam tra addetti ai lavori e osservatori. Sono 25-30 anni e non di più, così ci raccontano le cronache, che il vino italiano ha preso seriamente a gareggiare con i francesi, ad impegnarsi a far sì che ad una vocazione indiscussa del territorio viticolo italico, delle molte zone consacrate alla vite, corrispondessero risultati finalmente all’altezza e in grado di trasformare i nostri vini, da prodotti appetibili, sui mercati esteri, solo per i bassi prezzi e la quantità disponibile, in vini degni di rispetto e d’ammirazione da parte degli appassionati. E’ come, sembrano dirci, tutto fosse nato quasi dal nulla, grazie a tecniche di cantina moderne, all’arrivo degli enologi d’assalto, della barrique, delle fermentazioni a temperatura controllata, del marketing e della comunicazione, delle guide. C’è del vero - ed è innegabile - in tutto questo, ma nessuno può toglierci dalla testa che, molto tempo prima che arrivassero i winemaker, i vini da meditazione ed il gusto internazionale, in giro per l’Italia ci fossero vignaioli coscienziosi. Persone che in silenzio, che senza tanti proclami, e con le conoscenze tecnico-scientifiche di cui potevano disporre all’epoca, s’ingegnavano a fare del proprio meglio, perseguendo un loro concetto, sogno o chimera, di qualità.

Per convincersene, e per capire che non tutto è iniziato, come per incanto, dalla fine degli anni Settanta, basta prendere in mano, cominciare a sfogliare, sino a perdersi, come incantati, nell’ennesima lettura delle sue quasi cinquecento pagine, un aureo testo come “Vino al vino”, (prima edizione 1977, poi più volte ristampata, anche negli Oscar Mondadori), dove quel magnifico uomo di cultura e letterato che risponde al nome di Mario Soldati ha raccolto la testimonianza dei suoi fantastici itinerari del 1968, 1970 e 1975 “alla ricerca dei vini genuini”. Sembra essere passato un secolo, e non solo trent’anni, da quell’acuto, attentissimo, sensibile e quanto mai colto “viaggio d’assaggio”, compiuto da un uomo per il quale fare la conoscenza di un vino si legava inscindibilmente ad “andare sul posto, riuscire a farsi condurre esattamente in mezzo a quei vigneti da cui si ricava quel vino. Passeggiarvi, allora, in lungo e in largo. E studiare, intanto, la fisionomia del paesaggio interno (…) conversare con la persona che presiede alla vinificazione, proprietario enologo fattore, passeggiare a lungo nelle cantine (…) ed infine assaggiare, in paziente, lenta alternativa, e con frequenti intervalli, paragonare l’uno all’altro i sapori delle annate”.

Divorando questi incontri, respirando una civiltà, una compostezza, uno stile e una misura che non sono più, purtroppo, dei nostri tempi, ci si accorge che tutti, non solo i nobili e i loro fattori, ma anche il più umile dei vignaioli, miravano, consapevolmente o no, in alto. E se facevano qualcosa, dopo averlo lungamente meditato, non era per rispondere ad esigenze di marketing, pour épater il moderno consumatore guidaiolo, per farsi notare, ma perché glielo dettava il cuore e l’istinto, senza utilitarismi né doppi fini. Fu proprio con questo spirito, ad esempio, che nell’Italia un po’ provinciale, ma onesta, di Einaudi e di De Gasperi, di Antonio Segni e Giuseppe Saragat ma anche di Giorgio Almirante, un nobile veneto, produttore sui Colli Trevigiani, poteva decidere, senza creare scandalo o apparire stravagante, di dedicare un suo vino nientemeno che a Charles De Gaulle, allora presidente della Repubblica francese. Un’idea di getto, quella del Conte Piero Loredan Gasparini, nata dopo aver appreso che il suo taglio bordolese, servito in una cena ufficiale a Venezia, era particolarmente piaciuto a Monsieur le Général, che da cultore dei vini di Bordeaux in questo vino, ottenuto da Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, un pizzico di Merlot e di Malbech, aveva avvertito, oltre che la classe, qualcosa di familiare.

Impreziosito da una splendida etichetta, che riproduce un’incisione del 1967 di un artista di vaglia come Tono Zancanaro, dove il pittore aveva cercato, in due diverse versioni, di rappresentare la coesistenza dell’anima maschile e femminile, dell’uva che diventa vino, il Capo di Stato, molti anni prima che salissero alla ribalta vini che oggi vengono celebrati come il simbolo dell’ideale mariage, in terra italiana, tra Cabernet e Merlot, fu uno dei pochi veri grandi rossi, Barolo e Brunello a parte, capaci di tenere alto il vessillo della viticoltura italiana. Con l’arrivo del nuovo, dei rossi “profumati” di legno, muscolosi, palestrati, tutta potenza e finezza niente, di questo vino archetipico, nonostante (o forse per questo ?) la sua produzione, tutt’altro che virtuale, di 70-80 mila bottiglie, ed il prezzo finale, in enoteca, non da mutuo, intorno alle 45-50 mila lire (contro le 100-150 mila di una pletora di vini fasulli), si sente parlare molto meno, anche se nel momento verità dell’assaggio, si conferma più che buono. E con le sue basse rese, nell’ordine dei 55-60 quintali, da vigne di 25 anni di media, con soli 3.000 ceppi per ettaro, è degno erede di quei “vini genuini”, gustosi, “di corpo e di soddisfazione, ma serio, da bere adagio” che facevano sognare il Marion Soldati. A me che moderno non sono, e che la tradizione, anche in campo vinicolo, reputo sacra e inviolabile, questo Capo di Stato 1998, stappato e delibato, come un bene rifugio, un toccasana, un’ancora di salvezza, dopo tanti vini senz’anima assaggiati nelle mie peregrinazioni enoiche, continua a piacere tantissimo, anche per quella patina polverosa, molto ancien régime, che avvolge il vino.

Mi piace così tanto da trovargli molti punti di contatto, innanzitutto la ricerca di eleganza, la grande misura, lo stile quieto, il voler essere sostanza senza fumi, con un altro taglio bordolese del mio privilegio, il magnifico San Leonardo dell’omonima tenuta di Borghetto all’Adige condotta dal marchese Carlo Guerrieri Gonzaga, dove è una piccola parte di Carmenère, invece della quota di Malbech presente nel vino nato ai piedi del Montello, a conferire un carattere peculiare al vino. Bello e fiero, ma senza alterigia, già nel colore, rubino violaceo, di notevole vivacità, concentrato, ma senza aspirare alla “melanzana inchiostrata”, colpisce subito per il suo naso vivo, intenso, vinoso, “cabernettoso” quanto basta, ma mai aggressivo, lievemente erbaceo, ma reso virilmente dolce e carnoso da una notevole estrazione fruttata, tutta ciliegia, mora, ribes, vivacizzata da venature selvatiche e speziate. Un naso fresco, pulito, di bella tessitura e densità, che dispone piacevolmente, ed invita a passare all’assaggio. La bocca conferma in pieno, come accade in tutti i vini di razza, la misura, la compostezza, l’equilibrio di questo Capo di Stato 1998, con un gusto molto pulito e succoso, dolce e consistente, una bella polpa, un notevole spessore e volume, una struttura tannica mai amara o invasiva che morde appena, dà segnali della propria esistenza, ma si accontenta di restare dietro le quinte, lasciando siano una materia matura, una bella sapidità, una lunghezza gustativa a scandire il ritmo. Davvero un bellissimo vino, un vero “Bordeaux” in terra veneta: Monsieur le Général, il cantore della “France eternelle”, ci aveva visto giusto…

14 dicembre 2001

bubwine@hotmail.com

Igt Colli Trevigiani Capo di Stato 1998, lire 45.000. Azienda agricola Conte Loredan Gasparini, via Martignago Alto 24 - 31030 Venegazzù di Volpago del Montello Treviso. Tel. 0423 870024 - fax 0423 620898.


 


 
 

 

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