| Politica ed eternità di Daniel J. Mahoney
 
 E’ un’idea allettante vedere Solzenicyn come uno scrittore 
              coinvolto dagli eventi politici o di attualità, come un pensatore 
              la cui produzione sia meglio interpretata come una guida 
              indispensabile al mondo fantasmagorico del totalitarismo, che fa 
              oggi parte di un passato screditato. In quest’ottica, il lavoro di 
              Solzenicyn è già datato, sebbene forse risulti ancora utile come 
              monito saltuario contro le potenzialità ideologiche inerenti alle 
              moderne società di massa. Tuttavia, tale lettura non riesce a 
              prendere seriamente in considerazione i continui propositi 
              “rivoluzionari” o “utopistici” della mente moderna, e dunque la 
              rilevanza sempre viva dell’indagine di Solzenicyn sull’ideologia. 
              Ancora, Solzenicyn è tutt’altro che soddisfatto da quella che egli 
              stesso vede come un’enfasi unilaterale sulle dimensioni politiche 
              dei suoi scritti alle spese di quelle letterarie ed etiche. E’ 
              davvero giusto per l’autore di “Arcipelago Gulag” e di “La ruota 
              rossa” lamentare il fatto che i lettori siano interessati alle 
              dimensioni politiche del suo lavoro, in particolare da quando la 
              politica è quasi al centro di ogni cosa che ha scritto? Secondo 
              me, la resistenza di Solzenicyn alla “politicizzazione” del suo 
              lavoro diventa più comprensibile una volta che si distingua, come 
              egli implicitamente fa, tra politica programmatica e politica 
              elettorale, da un lato, e le questioni etiche e filosofiche più 
              rilevanti sollevate dalla politica moderna, dall’altro.
 
 Un famoso passaggio del primo volume di Arcipelago Gulag illustra 
              perfettamente questa distinzione. Nel capitolo intitolato “Le 
              mostrine celesti”, Solzenicyn si riferisce a quella “intuizione 
              intima, non fondata su argomenti razionali” che ha impedito alle 
              gioventù comuniste come a lui stesso, nonostante la loro 
              entusiastica appartenenza ad una visione del mondo 
              marxista-leninista, di entrare nelle scuole della polizia segreta. 
              Questa bussola morale innata, sostenuta dal capitale morale (o 
              “monete di rame”) trasmesso dagli antenati pre-comunisti, li ha 
              salvati dalla via della dannazione. Non sembrava esservi nulla in 
              principio, e senz’altro nulla nella loro formazione intellettuale 
              o spirituale, che potesse prevenire la loro cooptazione da parte 
              dei “bluecaps”. Nel discutere quanto arrivò vicino a diventare 
              liberamente un agente del regime totalitario, Solzenicyn scrive: 
              “allora, il lettore che si aspetta che questo libro sia un 
              manifesto politico, lo chiuda violentemente immediatamente”. 
              Solzenicyn, il primo anticomunista del mondo, rifiuta l’asserzione 
              manichea che il male possa essere ridotto al lavoro di un singolo 
              gruppo o partito, anche quello comunista. “Se fosse davvero così 
              facile!” aggiunge con forza. Egli non ha fede nella politica 
              ideologica, anche di tipo “contro-rivoluzionario”. Riconosce il 
              carattere “misto” di ogni cuore ed anima e, di conseguenza, di 
              ogni partito o programma partitico. Come ha scritto Martin Malia, 
              “come il contesto di questo rilievo mette in luce, Solzenicyn 
              rifiuta il conflitto politico solo al livello della mera politica 
              programmatica, della lotta di un gruppo di interesse contro un 
              altro”. In verità, Solzenicyn è un professionista politico, un San 
              Giorgio russo (per citare una vivida caratterizzazione di Alain 
              Besançon) che combatte ferocemente il dragone dell’ideologia. E’ 
              anche un attento studioso della storia politica e delle 
              istituzioni politiche, che crede che l’indispensabile “crescita 
              morale” degli esseri umani dipenda da un minimo “diritto di 
              respirare”, ma oltre a ciò, che esso dipenda dalla capacità umana 
              di coltivare la libertà e la dignità dell’uomo sotto istituzioni 
              in grado di autogovernarsi.
 
 Solzenicyn ci dice nel terzo volume di Arcipelago Gulag che 
              Tolstoj sbagliava “a credere che solo la crescita morale fosse 
              necessaria, non anche la libertà politica. Ovviamente, gli esseri 
              umani possono sviluppare le loro menti ed anime anche sotto regimi 
              autoritari, come nel sistema russo pre-rivoluzionario. Anche i più 
              disgustosi regimi autoritari hanno più o meno rispettato “il 
              diritto di respirare” e non hanno provato ad ostruire l’accesso 
              spirituale all’eternità degli esseri umani. Ma, secondo 
              Solzenicyn, la libertà politica è molto più di un baluardo 
              fondamentale contro il totalitarismo. E’ necessario, per 
              l’autostima degli esseri umani, che si coltivi quel senso di 
              dignità che rifiuta l’acquiescenza verso la degradazione umana che 
              inevitabilmente accompagna il dispotismo. Nel terzo volume di 
              Arcipelago Gulag Solzenicyn paga tributo alla “forza spirituale” 
              di coloro che hanno combattuto contro il regime comunista “con una 
              forza spirituale inaudita e sconosciuta a molti paesi, in diversi 
              periodi della loro storia”. In modo commovente egli fa la cronaca 
              della determinazione sovrumana dell’“esule impegnato” Georgi 
              Tenno. Riconosce anche la tragica necessità degli attacchi 
              terroristici contro le autorità sovietiche e contro le spie nei 
              campi, attacchi che hanno incrementato le “ribellioni eroiche” a 
              Kengir e Ekibastuz che sono raccontati drammaticamente nel suo 
              volume. James Pontuso ha correttamente notato il carattere 
              spazioso della comprensione dello spirito di Solzenicyn: questo 
              partigiano del pentimento, dell’autolimite, e dello sviluppo 
              interiore crede anche che una difesa vivace della libertà umana e 
              della dignità sia parte di una vita spirituale autenticamente 
              umana. Questo scrittore cristiano rifiuta sia il fatalismo storico 
              che il pacifismo à la Tolstoj. Un’esistenza veramente umana 
              comprende sia un umile riconoscimento dei nostri debiti con 
              l’ordine delle cose, sia un’orgogliosa affermazione che siamo 
              esseri possessori di anime. La difesa massiccia della libertà 
              serve a ricordarci che le anime, così come i corpi, sono soggette 
              a mutilazioni e a distruzioni – e dunque sono bisognose di essere 
              difese.
 
 Nel commovente primo capitolo del terzo volume di Arcipelago 
              Gulag, “Il condannato”, Solzenicyn illustra la terribile 
              condizione di un normale cittadino sovietico che “sapeva dal 1941 
              ciò che ancora nessuno nel mondo conosceva: che in nessun luogo 
              nel pianeta, in nessun posto della storia, vi era un regime più 
              immorale, più assetato di sangue, e allo stesso tempo più abile ed 
              ingegnoso di quello Bolscevico, che si è autodefinito regime 
              Sovietico. In una risposta disperata al “totalitarismo non 
              mitigato e risoluto” del regime sovietico, molti altri cittadini 
              sovietici hanno dato il benvenuto – sbagliando – ai tedeschi come 
              se fossero dei liberatori. Alcuni sono arrivati al punto di 
              arruolarsi nell’esercito di liberazione dei condannati del 
              generale Vlasov. Non avevano alcun motivo di credere alla 
              propaganda sovietica sui mali del regime nazista, dal momento che 
              la “propaganda carica di odio” del regime sovietico ha fallito nel 
              distinguere tra “Leon Blum e Hitler” e tra “il Parlamento 
              britannico ed il Reichstag tedesco”. Queste vittime della 
              collettivizzazione, del terrore, della deportazione, del Gulag e 
              delle immorali campagne antireligione, così come altre persone 
              normali che non hanno potuto più tollerare “la menzogna come modo 
              di vivere”, non hanno avuto modo di prevedere ciò che il “pupillo” 
              di Stalin nel totalitarismo, Hitler, aveva in magazzino per i 
              territori che ha invaso.
 
 Solzenicyn mostra di avere una grande sensibilità di spirito 
              nell’affrontare un popolo “perduto”, preso tra due totalitarismi 
              parimenti ributtanti. Il suo rifiuto di fare la caricatura del 
              movimento di Vlasov, di distorcere le sue intenzioni o di 
              misrappresentarlo come un movimento protofascista, ha spinto la 
              propaganda dell’era sovietica ad accusare incredibilmente 
              Solzenicyn di simpatie naziste. La convinzione fortemente 
              antitotalitaria di Solzenicyn non è mai stata, ovviamente, messa 
              in discussione. Ma il suo vero interesse in queste pagine risiede 
              altrove. Egli riteneva che il popolo sovietico non sarebbe “mai” 
              stato una mera “nazione di abietti schivavi”, se avesse condotto 
              [la seconda guerra mondiale] senza brandire il fucile al governo 
              di Stalin anche da lontano, qualora questo avesse perso la 
              possibilità di mostrare il pugno e senza lanciare un pronto 
              giuramento al Padre dei popoli. E aggiunge efficacemente: “I 
              tedeschi avevano il loro complotto dei generali – ma noi cosa 
              avevamo?”. Un popolo che si rispetti deve difendere la propria 
              indipendenza spirituale, il proprio “diritto di respirare” 
              liberamente e deve resistere ai tentativi che vogliono ridurlo al 
              livello della schiavitù. La crescita morale è impossibile se gli 
              esseri umani perdono il senso elementare della propria umanità o 
              dignità.
 
 Solzenicyn pertanto non denigra la politica o il riassunto dei 
              prerequisiti politici cruciali che permettono la crescita della 
              vita spirituale. Egli rifiuta tuttavia un postulato cruciale 
              condiviso dai liberaldemocratici e dalla modernità totalitarista. 
              L’asserzione che la libertà esiste per amore della libertà e che 
              l’obiettivo dell’esistenza collettiva è quello di costruire “uno 
              stato ideale”. Solzenicyn resiste alla tentazione moderna ed 
              ideologica di fornire una soluzione completa e definitiva ai 
              problemi umani e politici. Nel 1998, ha detto al suo biografo, 
              Joseph Pearce, che gli intellettuali moderni sopravvalutano la 
              politica perché hanno perso il contatto con le “questioni di 
              spirito superiore”, con “i problemi ultimi della vita e della 
              morte”. Gli intellettuali subiscono una meschinità radicata nel 
              quotidiano, nel “piccolo ed irrilevante”, precisamente perché essi 
              rifiutano di contemplare il significato della vita e della morte, 
              del ruolo dell’uomo nel mondo. Questo era, ovviamente, il nocciolo 
              filosofico ampiamente incompreso delle critiche di Solzenicyn 
              all’“umanitarismo antropocentrico” nel discorso di Harvard del 
              1978. Esso è anche al centro della sua ambiziosa analisi del 
              “progresso” moderno nel discorso del 1993 nel Liechtenstein, su 
              “Politica ed etica nel Ventunesimo secolo”. Come ha eloquentemente 
              rilevato nel suo poema in prosa Vivremo per sempre, l’uomo moderno 
              ha “prima di ogni cosa […] iniziato a temere la morte ed i morti”. 
              Egli ha subito la speranza e l’illusione che “stiamo andando verso 
              la vita eterna”. Nell’ottica di Solzenicyn, tale presunzione 
              rappresenta “l’apice della nostra filosofia del Ventesimo secolo”. 
              Questa è la filosofia che, come egli sostiene in un altro poema in 
              prosa precedente, chiamato L’inizio della gionata, spinge i nostri 
              contemporanei ad essere “oltraggiati” da chiunque “dia la stessa 
              attenzione che dà al proprio corpo, alla propria anima”. La 
              filosofia del mondo moderno dimentica l’anima perché l’anima, con 
              la sua consapevolezza della mortalità ed il carattere misto del 
              cuore umano, è un ostacolo insuperabile verso la costruzione dello 
              stato ideale, della città esclusivamente terrestre. E’ un costante 
              richiamo ai limiti della politica e ai rigidi requisiti dello 
              sviluppo interiore dell’uomo.
 
 I poemi in prosa
 
 Nelle due raccolte di Krokhotnye rasskazy, le sue microstorie o 
              poemi in prosa, gli interessi politici di Solzenicyn passano 
              decisamente in secondo piano rispetto alle riflessioni sul 
              significato della vita, sui fenomeni naturali e sul ruolo degli 
              esseri umani nel mondo. In tali riflessioni, egli indaga 
              chiaramente gli effetti della creatività moderna – nonché del 
              comunismo e delle riforme disastrosamente mal gestite – sull’anima 
              dei russi. I poemi in prosa sono segnati da una certa distanza 
              dagli interessi politici immediati. In questi brani, l’obiettivo 
              di Solzenicyn è direttamente puntato sulla natura e sull’anima e 
              solo secondariamente su questioni politiche. Come Michael 
              Nicholson ed Alexis Klimnoff hanno a proposito notato, “in essi il 
              coinvolgimento politico di Solzenicyn con questioni relative alla 
              Russia contemporanea, tendono ad essere filtrate da un’intonazione 
              contemplativa, o addirittura elegiaca”. I poemi in prosa 
              rappresentano un’opportunità eccellente per apprezzare l’impegno 
              di Solzenicyn in tali questioni senza fine e in quell’“immagine di 
              perfezione”, che il pensiero e l’azione umani non devono mai 
              perdere di vista. Fino ad oggi, Solzenicyn ha pubblicato 26 poemi 
              in prosa. 17, la prima raccolta, sono stati scritti tra il 1958 ed 
              il 1960 e pubblicati per la prima volta in occidente nel 1965. 9, 
              la seconda raccolta, sono stati scritti dopo il suo ritorno in 
              Russia, nel maggio 1994. Sono stati pubblicati su Novyj Mir nel 
              1997 (numero 1, 3 e 10) e sono apparsi in inglese come 
              un’appendice alla biografia di Solzenicyn, curata da Joseph 
              Pearce, nel 1999. C’è una notevole continuità tra le due raccolte. 
              Entrambe disegnano forti parallelismi tra i fenomeni naturali e la 
              vita morale degli uomini. Essi inoltre rifiutano l’arroganza à la 
              Prometeo dell’uomo moderno, il suo rifiuto di “dare spazio e di 
              concedere pensieri all’eternità”. Come John Dunlop ha scritto in 
              una attenta analisi della prima raccolta di storie, esse fissano 
              la critica alla modernità in due standard positivi ed alternativi. 
              Solzenicyn rifiuta “il presente prometeano, sofferente, secolare e 
              arrogante” nel nome dell’integrità della Natura e 
              dell’attaccamento “alla visione del mondo religioso-estetico della 
              vecchia Russia”, almeno nella misura in cui questa visione del 
              mondo ha incarnato e mantenuto in vita l’ambizione umana 
              all’eternità.
 
 Nella prima raccolta di questi poemi in prosa, Solzenicyn riflette 
              sul mistero della vita e sull’inabilità della scienza moderna di 
              produrre qualcosa di paragonabile alla meraviglia evocata dalla 
              magica unione di corpo e anima, in un “leggerissimo, malaticcio, 
              patetico, piccolo giallo anatroccolo”. Egli scrive Una tempesta 
              fra le montagne, in cui sembra ricreare la bellissima maestosità 
              del momento primordiale della creazione. Nell’oscurità, con lampi 
              accecanti spettacolari, e rombi di tuoni, gli esseri umani “sono 
              diventati insignificanti particelle del mondo”. Ma questa non è 
              l’ultima parola di Solzenicyn sul ruolo dell’uomo nel cosmo. Gli 
              esseri umani sono creature consapevoli del loro status 
              infinitesimale, se paragonato alla maestosità e alla benigna 
              indifferenza del mondo. Pertanto, essi rappresentano anche esseri 
              riflessivi, con anime, anime che ignorano, solo a loro rischio e 
              pericolo. Come scrive Solzenicyn in un breve poema in prosa, 
              chiamato Riflessi nell’acqua, vediamo la verità solo a distanza, o 
              obliquamente, come un’immagine “vaga ed incomprensibile”, in una 
              corrente di acqua in movimento. Gli esseri umani devono puntare a 
              “riflettere la verità in tutta la sua eterna e pura chiarezza”, ma 
              questo è impossibile “perché anche noi siamo in movimento, 
              viventi”. La particella infinitesimale che è l’uomo è nobilitata 
              dalla gratitudine verso un ordine di cose che non ha fatto e dalla 
              sua ricerca di una verità che è indistintamente riflessa nelle 
              correnti in movimento di vite ed eventi.
 
 L’uomo moderno è tentato di mettere fine alla ricerca soprattutto 
              per l’inabilità della “carne mortale” di ottenere “la pura 
              chiarezza”. Come risultato, coltiviamo i nostri copri, ma non le 
              nostre anime, sostituendo la nostra preghiera mattutina con 
              “esercizi mattutini” (L’inizio della giornata). La nostra 
              filosofia è un tentativo non sempre consapevole di distogliere lo 
              sguardo dalle questioni ultime della vita e della morte e dagli 
              imperativi della responsabilità morale. La tracotanza moderna non 
              è soddisfatta di un segnale dell’eternità; noi moderni vogliamo 
              comprenderla completamente o altrimenti non avere nulla a che fare 
              con essa. Dimentichiamo l’autorità della Natura e, invece proviamo 
              a conquistarla mediante lo sfruttamento commerciale 
              nell’Occidente, o mediante l’espropriazione della Nuova Classe 
              burocratica nei regimi ideologici. La distruzione della 
              primordiale bellezza naturale della Russia per mano di un 
              “principe malvagio”, la Nuova Classe comunista, è il tema del 
              bellissimo e continuo lamento di Solzenicyn, Lake Segden. Il 
              partito chiede l’antico legno russo per se stesso. Non permette 
              agli altri di accedere “alle acque solitarie” e al “legno 
              solitario”, un mondo in cui “le anime scorrerebbero, come l’aria 
              tremula, tra l’acqua e il cielo, ed i tuoi pensieri correrebbero 
              puri e profondi”. Il Partito Comunista, il principe malvagio, con 
              i suoi “figli scellerati”, è riuscito fin troppo bene ad 
              appropriarsi arrogantemente di tutto questo e a spogliare la 
              “casa” Russia.
 
 Il partito ha anche sistematicamente mosso guerra contro la 
              Vecchia Russia, una guerra incentrata sulla Chiesa e sulla 
              campagna. Nel suo memorabile racconto intitolato Lungo l’Oka, 
              Solzenicyn riflette sul “segreto della capacità di infondere pace, 
              proprio della campagna russa”, che va cercato nelle sue chiese. 
              Esse segnano il paesaggio, “scalano i pendii”, e i loro maestosi 
              campanili “si salutano da lontano”. Ma sotto il comunismo, le 
              chiese sono state chiuse e rase al suolo, i duomi delle chiese 
              spogliati ed intere croci schiodate dalle loro volte. Dappertutto, 
              le chiese erano in rovina, prova concreta delle atee persecuzioni 
              militanti del periodo comunista. Se la modernità borghese invita 
              ad evitare un confronto diretto con le questioni ultime e le 
              esperienze primordiali della vita e della morte, il prometeismo 
              comunista ha tentato di distruggere apertamente qualunque simbolo 
              o incarnazione di una realtà ultraterrena. Solzenicyn scrive che 
              “il popolo era sempre egoista e raramente gentile. Ma la sera le 
              campane suonavano, fluttuavano sui villaggi, sui campi e sugli 
              alberi”. Esse ricordavano agli esseri umani imperfetti che esiste 
              un’eternità e dunque, “proteggevano loro dal ritrovarsi un bel 
              giorno a quattro zampe”. Una delle storie pubblicate nel 1997, 
              chiamata La torre campanaria, riprende il tema della Chiesa come 
              simbolo dell’eternità. Solzenicyn scrive del campanile di 
              Kalyazin, una città oggi sommersa dal Volga. La città è stata 
              “deliberatamente sommersa per ordine dei Bolscevichi, “piccoli 
              tiranni” che hanno dato mal volentieri il denaro” per una diga che 
              salvasse la città. Tutto quello che “sopravvive della città 
              sommersa è l’alto, leggiadro campanile”, simbolo di una Russia 
              devastata sia dalla tirannia bolscevica, che dal nichilismo 
              post-comunista. Il campanile svetta tra le rovine dei palazzi di 
              Kalyazin, è sopravvissuto come un “albero spezzato” di una città e 
              di un popolo che “non ha altra scelta, se non quella di andare 
              avanti”. E’ il segnale di una speranza – della virtù teologica e 
              naturale che permette agli esseri umani di evitare il peccato 
              ultimo della disperazione. Solzenicyn, l’“ottimista pessimistico”, 
              conclude: “no, il Signore non permetterà a tutta la Russia di 
              essere lanciata tra le onde”. Egli rifiuta di disperarsi per Dio o 
              per la Russia.
 
 Nella raccolta di poemi in prosa Solzenicyn riflette non solo 
              sulla mortalità, ma anche più concretamente sulla sua imminente 
              morte. Nel suo acuto Invecchiare, egli parla della morte “come di 
              un legame organico nella catena della vita”. Egli riflette sulla 
              sopravvivenza al cancro tra i 30 e i 40 anni, e sul fatto di aver 
              accettato con “prontezza e rassegnazione” una morte che in realtà 
              non doveva ancora sopraggiungere. Scrive dei piaceri degli anni 
              successivi, del “calore nel vedere un bambino che gioca”, ma anche 
              realisticamente della forza minore e del sollievo rappresentato 
              “dal breve oblio del sonno”. Ripete la sua costante convinzione: 
              “invecchiare serenamente non è un sentiero in discesa, bensì in 
              salita”. Ma aggiunge: “Signore, risparmiaci una vecchiaia fatta di 
              povertà e freddo. Il destino al quale siamo stati consegnati in 
              cosi tanti, tanti […]”. In un altro poema in prosa intitolato 
              Vergogna, Solzenicyn continua il commento politico. Scrive di 
              “essersi vergognato” di una Patria guidata da una classe politica 
              corrotta e astuta, che permette a così tanti concittadini di 
              ridursi “nella miseria e nella rovina più profonda”. Questo 
              anticomunista prova disprezzo per la nuova classe dirigente, per 
              la mancanza di coraggio pubblico e di rispetto per se stessa, che 
              caratterizza un’oligarchia o cleptocrazia che infama l’onore della 
              propria terra. Tale classe ha tradito la causa della ricostruzione 
              post-comunista e ha infangato il nome della “democrazia”. 
              Solzenicyn appartiene al partito patriottico e coraggioso che 
              inequivocabilmente rifiuta una falsa nostalgia per il 
              totalitarismo comunista, mentre nega l’acquiescenza 
              all’irresponsabile criminalità delle nuove élite russe.
 
 Politica e coscienza
 
 Solzenicyn ha rappresentato la coscienza del suo paese, sia 
              durante il periodo dell’egemonia bolscevica, sia durante il nuovo 
              “periodo critico” aperto dal collasso del regime sovietico nel 
              1991. E’ stato lui a mostrare al mondo la menzogna ideologica. E’ 
              stato lui a stabilire incontestabilmente che gli enormi crimini 
              del regime comunista non potevano essere ridotti a “culto della 
              personalità”, agli eccessi di un tiranno paranoico. In Arcipelago 
              Gulag, ha pagato tributo alla memoria dei milioni di cittadini, 
              caduti in balia del terrore sovietico. Ha spostato l’obiettivo dal 
              “1937”, quando la rivoluzione “ha ferocemente divorato i propri 
              figli”. Ha vissuto come uomo libero nel regime della menzogna, e 
              ha chiesto che altri, per mezzo di un elementare rispetto di se 
              stessi e di un senso di umanità, rifiutassero anch’essi di “vivere 
              di menzogne”. Ha dunque contribuito smisuratamente alla sconfitta 
              di un regime che è dipeso dalla presunzione incondizionata che il 
              partito rappresentasse la causa della Storia, di un’Umanità in 
              marcia verso “sommità raggianti”. Dal momento in cui il comunismo 
              va in crisi, egli ha continuato a parlare in difesa dei normali 
              cittadini che sono diventati le vittime di un nuovo insieme di 
              astrazioni, questa volta incentrate sugli imperativi della 
              “riforma”. E’ stato un difensore del governo onesto, di una vera 
              economia di mercato e delle istituzioni dell’autogoverno locale 
              che possono ben indirizzare le iniziative sociali e insegnare ai 
              russi la responsabilità civica. Ha anche insistito su un aperto 
              riconoscimento dei crimini del periodo comunista, un argomento che 
              ha conquistato i suoi pochi amici nella nuova Russia. I suoi 
              appelli ragionevoli per la giustizia e la responsabilità civica 
              sono stati licenziati come effusioni naïf di un moralista 
              slavofilo senza alcun contatto con la civiltà moderna. Tuttavia, 
              egli continua a dire la verità, non disturbato dalle false 
              affermazioni dei difensori del postmoderno.
 
 Qual è la fonte del coraggio morale e della notevole forza 
              caratteriale di Solzenicyn? nel suo poema in prosa del 1997, 
              Lampi, Solzenicyn descrive vividamente la visione di un lampo che 
              squarcia in due un albero di cedro, dietro la sua casa a Mosca, 
              durante una tempesta in pieno giorno. Si chiede perché “tra tutti 
              questi pini svettanti, la luce aveva scelto un albero di cedro – e 
              non il più alto, tra l’altro?”. Solzenicyn procede a descrivere un 
              parallelo tra la potenza del lampo e la voce della coscienza 
              umana: “quando la coscienza scaglia la propria freccia punitiva, 
              essa ci colpisce nella nostra intimità e fino alla fine dei nostri 
              giorni. E dopo tale disgrazia non c’è nessuno in grado di dirci 
              chi di noi riemergerà temprato dalla tempesta”. Ma se l’albero 
              resta diviso in due, con una metà “rovesciata per essere ben 
              accetta tra le braccia di un’altra delle sue alte sorelle”, la 
              tempesta, che è la coscienza, lascia i suoi destinatari puniti, ma 
              più forti, volenterosi di difendere quella giustizia che “è stata 
              patrimonio comune dell’umanità nel corso dei secoli”. Nella sua 
              Lettera a tre studenti del 1967, nella quale ha affrontato tali 
              questioni, Solzenicyn suggerisce che la giustizia è coscienza, “la 
              coscienza dell’intera umanità”. Insiste che non può essere 
              ritrovata in qualche Processo Storico, né licenziata dicendo che 
              “ognuno ha una sua giustizia”. Contro le ragioni del determinismo 
              storico e del relativismo morale, Solzenicyn grida un 
              intransigente “No!” E scrive: “loro possono urlare, prenderti per 
              la gola, strapparti il cuore, ma le convinzioni basate sulla 
              coscienza sono infallibili, come l’eterno ritmo del cuore (e si sa 
              che nella vita privata è la voce della coscienza che si cerca 
              sovente di sopprimere)”.
 
 Solzenicyn è riemerso temprato e rinforzato dalla tempesta della 
              guerra, dal Gulag, dal carcere, dalle difficoltà politiche e 
              dall’esilio. Il suo evidente orgoglio e la sua fiducia in se 
              stesso sono radicati e temprati da un profondo senso del dovere 
              verso la coscienza comune, o ciò che chiama nella sua Lettera a 
              tre studenti, il dovere umano “di vivere per la verità” (un 
              argomento più tardi ripreso da Václav Havel e da Papa Giovanni 
              Paolo II). Alcuni tra coloro che hanno riconosciuto la profondità 
              della visione morale di Solzenicyn lo hanno dipinto come un 
              profeta dell’era moderna. Ma io sostengo che sia insufficiente 
              caratterizzarlo come un profeta, almeno finché tale termine 
              suggerisce un oracolo che si appella agli dei e ai valori che non 
              hanno validità razionale o universale. Attraverso la cruda 
              esperienza ed una lunga riflessione, questo scrittore 
              contemplativo è stato spinto a riaffermare la verità cristiana 
              classica della visione dell’uomo e del mondo. Le sue conclusioni 
              antropologiche lo hanno condotto verso la verità del 
              cristianesimo, anziché spingerlo nel senso opposto. Il realismo 
              cristiano di Solzenicyn, una posizione filosofica che è senz’altro 
              originale, è ben descritto da Aurel Kolnai, il grande filosofo 
              politico e morale e pensatore antitotalitario ungherese. Kolnai 
              scrive: “l’uomo in realtà è imperfetto ma è capace di pensieri e 
              azioni che tendono alla perfezione, attratto dal male, ma amante 
              del bene, dotato di un senso morale, che tuttavia sfugge 
              facilmente al suo controllo”. Queste parole esprimono 
              perfettamente la visione della condizione umana di Solzenicyn. Sia 
              Kolnai che Solzenicyn espongono lo sforzo ideologico ed utopistico 
              “di superare o nascondere a qualunque costo le fratture classiche 
              che caratterizzano l’essere umano”. Al fine di stabilire un ordine 
              sociale perfetto, sia mediante la volontà rivoluzionaria 
              dell’avanguardia dell’umanità, sia per mezzo dell’inesorabile 
              Necessità Storica, gli ideologi totalitari mirano a negare la 
              scelta morale, così come ciò che è contingente e possibile. 
              Nonostante gli appelli dei rivoluzionari alla giustizia per i 
              deboli e gli oppressi, tali ideologie sono definite da un assoluta 
              negazione della coscienza. Mirando a mettere “fine alla storia”, 
              esse attentano alle reali precondizioni della responsabilità 
              politica e morale.
 
 Per via delle sue affermazioni concernenti il carattere imperfetto 
              del cuore umano e delle sue riaffermazioni della realtà empirica 
              del “peccato originale”, Solzenicyn ha contribuito in maniera 
              significativa al compito di restituire un posto lodevole alla 
              coscienza ed all’avvedutezza nel novero delle caratteristiche 
              umane. Il lavoro di Solzenicyn è un rammento salutare delle 
              convergenze e della mutua dipendenza tra valore e realtà, politica 
              e coscienza. Ci ricorda pertanto che nessun atto volontario e 
              nessuna rivelazione della provvidenza storica, può sostituire il 
              compito difficile di coltivare le nostre anime o di combattere con 
              i nostri cuori imperfetti. Marx era tremendamente in errore quando 
              concludeva che “la storia ci guiderà verso la giustizia senza 
              l’aiuto di Dio”. Il pensiero del filosofo tedesco era deformato da 
              un ottimismo progressivo in cui la fede per la Storia sostituisce 
              quella per il Dio Vivente. Le conseguenze di un tale storicismo 
              non sono altro che “la riduzione in schiavitù dell’uomo 
              sull’uomo”. Solzenicyn sostiene con fermezza la sua visione 
              alternativa, nella conclusione del discorso del Liechtenstein: 
              “può esserci solo un vero Progresso: la somma totale dei progressi 
              spirituali degli individui, il grado di crescita individuale nel 
              corso delle loro vite”. Per Solzenicyn, l’ascensione 
              dall’ideologia in ultima istanza implica l’ascensione dalla 
              modernità filosofica, almeno fin quando la modernità escluda 
              l’anima nel nome della digressione o della costruzione di 
              strutture sociali ideali che in qualche modo cercheranno di 
              rendere superflua la responsabilità morale.
 
 1 marzo 2002
 
 (da Ideazione 1-2002, gennaio-febbraio. Traduzione dall’inglese di 
              Luigi Di Gregorio)
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