| Arendt o la politica magica di Angelo Mellone
 
 Sebbene concordasse con Tocqueville sull'esigenza di una "nuova 
              scienza della politica", l'opera di Hannah Arendt difficilmente si 
              presta ad una lettura politologica. L'"arte politica", infatti, ha 
              trovato poco spazio nel corredo di una pensatrice che, come scrive 
              correttamente Simona Forti, è stato impossibile ridurre a questa o 
              quella corrente teorica o a questa o quella tradizione di pensiero 
              politico. Sostenitrice di un liberalismo eterodosso, orientato al 
              primato della politica e della partecipazione, la produzione più 
              propriamente politica della Arendt viene spesso legata in modo 
              indissolubile alla sua opera sul totalitarismo e alla "questione 
              ebraica". Operazione legittima, ma che corre il rischio di 
              confinare i suoi scritti in un orizzonte eccessivamente ristretto. 
              Disancorando la Arendt da tante interpretazioni riduttive e deboli 
              del suo pensiero, invece, è possibile interrogare la Arendt per 
              chiedere come salvare la politica dalla crisi della forma-stato. 
              Le ragioni per questa interpretazione sono anzitutto storiche. La 
              Arendt si trova a riflettere negli anni a cavallo tra la seconda 
              guerra mondiale, epoca in cui la mannaia devastatrice della 
              patologia totalitaria ha spogliato il "politico" della sua 
              essenza, imbarbarendolo fino agli abissi della brutalità del 
              comando impersonale (da cui scaturiscono le pagine più scabrose de 
              "Le origini del totalitarismo" e, poi, de "La banalità del male"), 
              e l'avvento dello stato sociale ha accelerato il processo di 
              cementificazione dello "spazio politico", chiudendo i fori di 
              libertà per liberare il campo ad una macchina burocratica 
              erogatrice di servizi per un Uomo indifferenziato. Primato della 
              coercizione, della burocratizzazione e della spersonalizzazione: 
              il dopoguerra lascia così scorie e detriti, o princìpi allogeni di 
              regolazione, ad occupare gli spazi in cui la politica dovrebbe 
              manifestare la propria autonomia, la vocazione alla libertà e 
              "pluralità ontologica" degli esseri umani.
 
 Da questo punto di vista, a ragione Hannah Arendt viene ricordata 
              come una delle più radicali sostenitrici dell'autonomia della 
              politica, che però non è una qualità innata dell'uomo: "L'Uomo è 
              a-politico. La politica nasce tra gli uomini, dunque decisamente 
              al di fuori dell'Uomo […]. La politica nasce nell'infra, e si 
              afferma come relazione" ("Che cos'è la politica", p. 7) nella vita 
              activa, la dimensione politica dell'attività umana, punto di 
              connessione tra pensiero e azione nell'essere-insieme. E' l'agire, 
              contrariamente al fare e all'operare, l'unica forma di attività 
              che realizzi pienamente la "condizione umana", "l'appartenenza a 
              una comunità e la disposizione di uno spazio comune dove muoversi 
              e distinguersi" (L. Boella,"Hannah Arendt. Agire politicamente. 
              Pensare politicamente", p. 160). E questo spazio comunitario è la 
              polis, che "nasce quando la preoccupazione per la vita individuale 
              è sostituita dall'amore per il mondo comune" (R. Esposito, "Polis 
              o Communitas", in Forti S. (a cura di), Hannah Arendt, p. 96). 
              Oltre l'animal laborans e l'homo faber, la politica. Dopo la 
              necessità e la natura. La politica, quindi, non è un attributo o 
              una caratteristica intrinseca alla "naturalità" dell'uomo: 
              "Necessario […] il politico non lo è affatto. Anzi, esso comincia 
              proprio dove terminano il dominio dei bisogni materiali e quello 
              della violenza fisica" ("Che cos'è la politica", p. 32). Se il 
              Mercato è un luogo "naturale" - per riprendere le teorie dei 
              maestri del pensiero liberale, in primo luogo Hayek - il dato 
              primario della politica, al contrario, è la sua non-naturalità.
 
 La politica emerge come fondazione di uno spazio pubblico 
              artificiale, che sradica gli uomini dal "buio" della vita privata 
              e li mette di fronte alla "presenza degli altri": "Uno spazio dove 
              possa apparire la libertà in quanto "virtuosismo" […] espressa 
              tangibilmente in parole, in azioni alle quali si può assistere, in 
              eventi che sono discussi, ricordati e trasformati in storia […]. 
              Qualunque cosa si verifichi in questo spazio destinato alle 
              apparizioni è politica per definizione" ("Che cos'è la libertà", 
              p. 206). La politica è lo spazio in cui il coraggio e la 
              responsabilità - le due qualità propriamente politiche degli 
              esseri umani - prendono forma attraverso l'azione e il discorso, 
              nasce e finisce quando nascono e finiscono le relazioni tra uomini 
              che "vedono e si fanno vedere", conferendo alle loro vite una 
              dimensione non-privata, relazionale, extra-individuale e 
              comunicativa. Politica, quindi, libertaria e anti-storica, poiché 
              la libertà "è un evento che erompe dalla normalità del tempo 
              storico", e la politica, "che trova nella libertà la sua ragion 
              d'essere" ("Tra passato e futuro", p. 196), è l'unico atto di 
              libertà pubblica (la liberty opposta alla libertà "da" della 
              freedom, il libero arbitrio e la libertà interiore) di cui l'uomo 
              è in possesso: "Il senso ultimo della politica consiste nel suo 
              essere la manifestazione stessa della libertà" (S. Forti, Hannah 
              Arendt, p. XXV).
 
 Libertà e politica, spiega la Arendt, sono due facce dello stesso 
              argomento: la pluralità degli esseri umani nel mondo, idea 
              architrave di un pensiero che ha sempre cercato di sottrarre il 
              "mondo plurale" dalle insidie di tutti gli "Uno" incarnati o 
              metafisici. Come la libertà non preesiste all'uomo, così la 
              politica, il dove della libertà, si sostanzia nella relazione tra 
              (politicamente) uguali all'interno della sfera pubblica. Arendt lo 
              spiega in "Vita Activa" e in "Che cos'è la politica": la politica 
              è una presenza intersoggettiva, è una miscela alchemica che si 
              sostanzia nella pluralità dei punti di vista che si manifestano, 
              vengono alla luce, nello spazio politico, idealmente identificato 
              con la polis greca e il perimetro delle sue mura: "Diventa 
              politico, questo spazio pubblico, soltanto se è radicato in una 
              città e perciò legato a un luogo concreto, che può sopravvivere 
              sia agli atti memorabili che ai nomi dei memorabili attori, e 
              tramandarli ai posteri di generazione in generazione. Questa città 
              che offre ai mortali e alle loro effimere gesta e parole un luogo 
              imperituro, è la polis, ed essa è politica […] poiché di fatto è 
              edificata solo intorno allo spazio pubblico, la piazza del 
              mercato, dove gli uomini liberi e uguali possono incontrarsi in 
              ogni momento! ("Che cos'è la politica", p. 35).
 
 In questo spazio edificato dall'uomo, l'unica arma a disposizione 
              dei cittadini per praticare l'arte della persuasione è il 
              linguaggio, il volto comunicativo dell'interazione, e prendere 
              decisioni in comune; la burocratizzazione della parola o il 
              ricorso alla violenza (anche nella forma del comando imperativo, 
              che stabilisce gerarchie e perciò nega l'uguaglianza politica dei 
              cittadini) non possono fare il loro ingresso nello spazio degli 
              uguali, e quando ciò accade muore la politica, perché muore la 
              capacità persuasoria del linguaggio: "La violenza in se stessa è 
              incapace di linguaggio" ("Sulla rivoluzione", p. 12). La Arendt, 
              così, capovolge il classico punto di vista nella storia del 
              pensiero occidentale che, da Hobbes a Weber, identifica la natura 
              della relazione politica nella gerarchia e nel rapporto di 
              comando-obbedienza tra sovrano e sudditi, e la natura dello stato 
              nella capacità di monopolizzare l'uso della forza per vie 
              legittime. E' questa, per la Arendt, una visione che riduce 
              nuovamente la politica alla sfera privata, domestica, in cui le 
              imposizioni della Necessità - il lavoro, la riproduzione, la vita 
              familiare - e della Società (la giustizia sociale) rappresentano 
              altrettante gabbie per la libertà degli uomini, "paradossale 
              pluralità di esseri unici". Se ogni uomo per la Arendt è un nuovo 
              "inizio", un miracolo che appare sulla terra e interrompe la 
              ciclicità del tempo storico "naturale", e l'uomo trova la sua 
              libertà (di agire) nello spazio politico, anche la politica è 
              fatto miracoloso e magico. Irrompe nella storia e rimanda 
              all'imponderabilità della condizione umana, e che non mette radici 
              sempre e dovunque, ma è la "favola di un tesoro antichissimo, che 
              appare all'improvviso nelle circostanze più diverse, e quindi 
              scompare di nuovo celandosi sotto i più svariati e misteriosi 
              travestimenti, come una fata morgana" (Tra passato e futuro, pp. 
              26-27); "il politico in quanto tale è esistito così poco sempre e 
              dovunque, che in termini storici solo poche grandi epoche l'hanno 
              conosciuto e realizzato" ("Che cos'è la politica", p. 32).
 
 La politica come alchimia dell'umanità, come momento e luogo di 
              intreccio tra individualità e relazione, tra parola e azione, tra 
              cominciamento e ricordo, tra coraggio e persuasione, è privilegio 
              di pochi: poche epoche, pochi uomini. Ha bisogno, la libertà 
              politica, "di essere vincolata a uno spazio", ha bisogno di uomini 
              affrancati dalla/e necessità capaci di grandi parole e grandi 
              azioni, ha bisogno di essere fondata e perpetuata nel tempo 
              tramite istituzioni a questo delegate nella divisione del lavoro 
              politico - per questo Pericle affermava che il compito delle 
              istituzioni è quello di organizzare il ricordo. Ha bisogno 
              soprattutto - è la questione decisiva, così bene esposta in "Sulla 
              rivoluzione" - di essere impermeabile ai condizionamenti del 
              "sociale", dell'ingresso delle rivendicazioni di emancipazione e 
              di cancellazione delle disuguaglianze non-politiche (naturali, 
              economiche, eccetera) nella sfera del "politico". La Rivoluzione 
              francese, a giudizio di Hannah Arendt, fallisce perché "la 
              trasformazione della questione sociale in forza politica" ("Sulla 
              rivoluzione", p. 63) ha fatto in modo che le masse di poveri, e le 
              élite rivoluzionarie in testa, puntassero non a nuove istituzioni, 
              ma alla cancellazione della miseria e delle iniquità sociali: 
              "Qualsiasi tentativo di risolvere la questione sociale con mezzi 
              politici conduce al terrore […] la liberazione dalla necessità, 
              dato il suo carattere di urgenza, avrà sempre la precedenza 
              sull'instaurazione della libertà", con "una carica di violenza 
              molto diversa, e molto, maggiore, che non la ribellione degli 
              oppressi contro gli oppressori" ("Sulla rivoluzione", p. 120). E 
              ora che, a detta dei più, nella globalizzazione la politica si 
              svuota e prende la direzione di un binario morto, praticando "la 
              sistematica riduzione della persona ad essere naturalmente 
              non-politico" (Massimo Cacciari) e "naturalmente impossibilitato" 
              alla politica?
 
 La globalizzazione non mette in crisi la sola forma-stato, lo 
              spazio entro cui - come ha mirabilmente illustrato Carlo Galli - 
              la politica in Europa ha vissuto negli ultimi secoli, ma contesta 
              la stessa idea di spazio politico. E, se "la libertà, laddove è 
              esistita, è sempre stata limitata nello spazio", a rigor di logica 
              secondo la Arendt l'uomo globale sarebbe privo del suo unico testo 
              veramente umano, la libertà (politica). Lo spazio, quando c'è e si 
              riconosce, è quello "virtuale", e non più quello dell'agorà dove 
              pensiero e azione erano (e sono) carnalmente visibili; ed è uno 
              spazio privo di confini o dai confini fluidi, per questo 
              potenzialmente immenso, o inesistente, al punto da trasformare i 
              cittadini, gli abitanti partecipi della polis, in gente, trionfo 
              dell'ugualitarismo sociale: "Il guaio […] è la mentalità 
              democratica di una società egualitaria che tende a negare l'ovvia 
              incapacità e la cospicua mancanza di interesse di larghi strati 
              della popolazione per le questioni politiche come tali" ("Sulla 
              rivoluzione", p. 322). "Il guaio", allora, "sta nella mancanza di 
              spazi pubblici" e nella loro burocratizzazione, che rade al suolo 
              la Città politica e la trasforma in un'immensa tecnostruttura in 
              cui si fa solo "amministrazione delle cose". E da cui viene 
              espulso anche lo stesso linguaggio politico, o perlomeno la sua 
              distintività rispetto alle altre forme di comunicazione sociale, 
              ridotto com'è ad una deriva "tecnicista" che lo comprime nel 
              ridotto angusto dell'economico e dell'ossessione tecnica (e 
              burocratica) delle cifre.
 
 In questi non-spazi sconfinati, in questo abisso in cui la "fata 
              morgana" della politica è sprofondata, Hannah Arendt, con la sua 
              manifesta passione per il federalismo originario, per le 
              "repubbliche elementari", per le township dei primi coloni 
              americani o i consigli della "rivoluzione di Budapest" del '56, 
              non si troverebbe a suo agio. Probabilmente, sempre probabilmente, 
              scriverebbe di nuovi universi concentrazionari, più folli 
              dell'ideologismo e dei partiti e più raffinati e terribili delle 
              "istituzioni totali", per dirla alla Goffmann, del Novecento. Dopo 
              che il Novecento ci ha consegnato le tensioni del panpoliticismo, 
              il nuovo secolo si apre all'insegna del problema opposto: come 
              "salvare" e "preservare" la politica - la politica pura - dai 
              tentativi di colonizzazione del sociale e 
              dell'economico-finanziario, la Forza che ha sbriciolato le mura 
              della polis. Leggere Hannah Arendt aiuta a comprendere, se c'è, la 
              possibilità di uscita per scoprire, in un ennesimo "nuovo inizio", 
              "l'universo magico della politica" (Lefort). O, è la stessa cosa, 
              della libertà.
 
 15 marzo 2002
 
 (da 
              Ideazione 4-2001, luglio-agosto)
 |