| La polis sommersa: Hannah Arendt e la 
              politica di Dolf Sternberger
 
 Nessuno ai giorni nostri ha colto in modo così decisivo e ha fatto 
              brillare in forma così luminosa come Hannah Arendt l'idea 
              dell'antica polis. Non parlo di ricerca storica e filologica, né 
              delle sfumature interpretative della "Politica" di Aristotele (o 
              della Repubblica di Platone), ma dell'acquisizione filosofica, 
              della precisa rinascita del concetto greco o, più esattamente, 
              aristotelico di polis: politica e cittadinanza. Lo definisco un 
              risveglio "filosofico", pur sapendo che ella stessa, nella sua 
              spensierata ostinazione, che non tollera un uso trascurato delle 
              parole, volle tracciare una linea di demarcazione così netta fra 
              filosofia e politica, fra l'ambito della contemplazione e quello 
              dell'agire, che l'espressione "filosofia politica" divenne per lei 
              un ferro ligneo, un vero e proprio controsenso. La sua 
              "disciplina" quindi non avrebbe dovuto chiamarsi "filosofia 
              politica", ma "teoria politica". La distinzione è certamente 
              sensata e comprensibile, ed è anche assai indicativa 
              dell'inflessibile forza e perseveranza nel distinguere che segna 
              tutto il suo modo di pensare, e di cui vedremo subito esempi 
              importanti. Ma in questo caso essa ha qualcosa di vano e 
              stimolante insieme: anche la più energica riabilitazione 
              dell'agire nella sua peculiarità, anche il più caparbio 
              rovesciamento delle gerarchie di pensiero e agire, di vita in 
              solitudine e vita sulla scena pubblica, anche il più urgente 
              richiamo alla libertà affinché diventi reale unicamente come 
              libertà pratica, e cioè come libertà politica, nello spazio della 
              polis, tutto ciò rimane inevitabilmente una mera aspirazione 
              filosofica. Hannah Arendt non ha fondato uno stato, non ha 
              progettato una costituzione, non ha favorito una rivoluzione; 
              piuttosto ha tentato di conoscere e portare a livello dei concetti 
              l'essenza della fondazione di uno stato, l'essenza della libera 
              vita costituzionale, l'essenza di una rivoluzione, strappando 
              queste essenze alle tenebre della storia e al labirinto 
              dell'esperienza; e così è rimasta un filosofo. E' questo 
              all'incirca ciò che soprattutto le si deve.
 
 Il suo nome sta a indicare un rinnovamento radicale e al tempo 
              stesso originale della filosofia politica, ossia del concetto, 
              della rappresentazione, dell'ethos e del pathos del politico. Si 
              tratta, infatti, del concetto aristotelico isolato da tutte le 
              convenzioni, le confusioni, gli intorbidamenti, fresco come una 
              nuova creazione, del concetto aristotelico e non di quello 
              platonico. Non c'è un'altra frase dei classici da lei citata più 
              spesso e più volentieri di quella tratta dal primo libro della 
              Politica di Aristotele, secondo la quale l'uomo è per natura un 
              essere politico e, al tempo stesso, l'unico essere che ha il dono 
              della parola (logos). La Arendt ha sempre riunito le due varianti 
              di questa doppia connotazione in un' unica determinazione, 
              conferendole un significato pieno, del tutto sensibile e 
              sperimentabile: "gli uomini sono esseri capaci di politica, perché 
              sono esseri capaci di linguaggio", ossia: la politica consiste nel 
              parlare insieme e, naturalmente, nell'agire insieme. I fenomeni 
              della discussione e del dibattito si manifestano sempre là dove, 
              nel medium storico così come in quello attuale, si vede affiorare 
              l'idea della politica: così è stato per i padri della costituzione 
              americana, così per gli studenti che si ribellano, così per i 
              consigli degli operai e dei soldati, per i quali ha dimostrato 
              un'elementare simpatia, nello stupore di molti dei suoi amici e 
              ammiratori.
 
 Nei suoi scritti si può agevolmente osservare come quella 
              definizione aristotelica sia davvero radicata in lei in tutte 
              queste vicende, sebbene appartengano a epoche completamente 
              diverse, nascano da motivi del tutto diversi, aspirino a scopi 
              totalmente diversi, nonostante ella, nello stesso momento, spazzi 
              via enfaticamente queste diversità, soprattutto quella fra mondo 
              antico e mondo moderno: è questo paradosso del ritorno nella 
              differenza, che brontola nell'intimo dell'anima, nel cuore del suo 
              pensiero politico e che, mi sembra, non è mai stato risolto. Se si 
              parla apertamente della polis stessa, le forme del discorso, della 
              discussione e del dibattito vengono per lo più oscurate da un 
              altro fenomeno, che però ha poco a che fare con Aristotele, a 
              maggior ragione con i poeti antichi, forse anche con gli 
              storiografi. E' la competizione del discorso, l'agone delle 
              parole. Il momento del nobile certamen, della competizione nel 
              parlare come nell'agire, del "desiderio di distinguersi", in 
              realtà un momento di gioco più alto, nell'immagine che la Arendt 
              si è fatta non solo della polis ma della politica in generale e 
              per eccellenza, assume dunque una posizione centrale. E' una cosa 
              che mi ha sempre sorpreso. In realtà l'idea della vita "agonale" 
              ci è stata inculcata dalla scuola e dai filologi classici, si 
              tratta quasi di un luogo comune; ma forse questo fenomeno - che, 
              per quanto riguarda il discorso, ci risulta più chiaro nel 
              Simposio di Platone - non è mai stato preso filosoficamente tanto 
              sul serio come qui e, soprattutto, non è mai arrivato alla 
              determinazione e alla descrizione dell'essenza della politica. La 
              competizione delle parole e delle azioni come pulsazione dello 
              stato! (In queste espressioni si percepisce l'enorme distanza fra 
              questa filosofia politica e l'odierna scienza politica o anche la 
              dottrina dello stato). L'analisi più vicina di questo fenomeno, 
              come la Arendt l'ha delineata qua e là - senza pedanteria, sempre 
              condotta e anche fuorviata da un'appassionata fantasia del 
              pensiero - mostra il singolo, il cittadino della polis, nel doppio 
              ruolo di attore e spettatore: egli esiste "in un auditorio nel 
              quale ciascuno è allo stesso tempo spettatore e co-attore", e 
              proprio questo tipo di "pubblico", di sfera pubblica, è la polis; 
              "l'ambito politico" in generale.
 
 A prima vista, questo concetto di politica può sembrare e il 
              fenomeno che descrive molto raro. L'autrice stessa era convinta 
              della sua rarità storica. Però lo ritrova pur sempre in perfetta 
              purezza, trova ancora una volta gli stessi pensieri espressi in 
              tutta chiarezza: "every individual is seen to be strongly actuated 
              by a desire to be seen , heard, talked of, approved and respected 
              by the people about him, and within his knowledge". Sono parole di 
              John Adams, il più erudito fra i "padri fondatori" dell'unione 
              americana e, allo stesso tempo, quello verso il quale Hannah 
              Arendt manifesta la più vivace propensione - ma ella ha con tutti 
              i suoi maestri un rapporto affettuoso, anche amoroso, nel cui 
              calore gli spiriti sembrano animarsi: Platone, Machiavelli, Kant, 
              Adams e Jefferson, addirittura Marx. E per Adams, dice la Arendt, 
              questo "desiderio di essere visti, ascoltati dalla gente, il 
              desiderio che la gente parli di noi e quello di ottenere il suo 
              plauso e la sua attenzione" equivaleva ad una virtù politica. E' 
              certo che lei stessa pensava e sentiva a questo modo, senza 
              preoccuparsi o farsi disturbare da tutta la diffidenza psicologica 
              e anche da tutto lo zelo cristiano pascaliano di vincere la 
              "vanità" umana, che è invincibile. Il lato privato degli impulsi, 
              degli interessi e delle motivazioni non riguarda la sfera 
              pubblica, è privo di importanza per l'ambito pubblico, cioè 
              politico; qui l'apparire è l'essere e la dottrina dell'essere, 
              l'ontologia della politica qui esposta o dissotterrata, non 
              conosce nessuna psicologia. Con tutta la spavalderia di cui 
              disponeva, la Arendt considerava pura misantropia quella moderna 
              scienza psicologica e sociologica dello smascheramento, che oggi 
              sembra aver ottenuto, alla fine, lo status di scienza.
 
 Con quelle affermazioni contro l'apparenza non siamo lontani da 
              Aristotele. "Perché lo stato è per sua natura una molteplicità", 
              si dice nel secondo libro della Politica, in quel profondo punto 
              che costituisce la decisiva, efficace critica allo stato unitario 
              di Platone: se si potesse trasformare lo stato in una famiglia o 
              unificarlo al modo di una persona, "una cosa del genere non si 
              potrebbe assolutamente fare, perché in questo modo si 
              sopprimerebbe lo stato". Nonostante tutta la sua ammirazione 
              filosofico-letteraria per Platone, la Arendt è rimasta 
              completamente e imperturbabilmente in questo solco. In tutti i 
              suoi scritti relativi a questo problema ritorna il momento della 
              molteplicità, della pluralità, come elemento costituente 
              fondamentale dell'ambito politico da cui derivano quel parlare e 
              quell'agire insieme, così come quella competizione e quel 
              "desiderio di distinguersi". La Arendt insiste con tanta decisione 
              su questo fondamento "esistenziale" e su questa caratteristica 
              della molteplicità e del "rapporto con gli altri", da giungere 
              all'audace verdetto secondo cui "la maggior parte della filosofia 
              politica dopo Platone" si può descrivere come una storia dei 
              tentativi "di sbarazzarsi della politica in generale". (Ciò può 
              valere per lo stesso Platone, sicuramente per Hobbes e Rousseau, 
              ma altrettanto sicuramente non per Tommaso e i suoi seguaci, per 
              Marsilio, per Locke e Montesquieu. Infatti, dalla fine del XIII 
              secolo esiste una tradizione di aristotelismo politico che si è 
              diffusa enormemente e ha prodotto effetti durevoli soprattutto 
              nell'ambito angloamericano, ma non è mai stata rappresentata 
              globalmente ed elevata alla coscienza). La formulazione ha però il 
              vantaggio di estrarre e ritagliare interamente, grazie a questa 
              tagliente esclusione, l'idea della politica da tutti i miscugli ai 
              quali è stata sacrificata: "politica" viene da polis, la polis è 
              la molteplicità dei suoi cittadini, la società dei liberi e degli 
              uguali, ma essa "cessa di esistere" non appena viene subordinata 
              all'unità dello stato, assorbita e neutralizzata in esso. Questa 
              unità è la fine non solo della molteplicità, ma anche della 
              libertà e dell'uguaglianza di questi molti individui, e perciò 
              nella costruzione utopica di Platone è insito già solo per questo 
              un "elemento tirannico-autoritario".
 
 Alla molteplicità (in questo senso aristotelico, che è quello a 
              cui la Arendt pensa) corrisponde la libertà; all'unità, invece, il 
              dominio. Quest'ultimo appartiene però all'ambito della casa e non 
              a quello della polis, alla vita privata e non a quella pubblica. 
              Il dominio è, nell'esatto senso letterale, "apolitico, non facente 
              parte della polis". E' vero che questa differenziazione, questa 
              contrapposizione, contrasta strettamente con l'uso moderno delle 
              parole e con la capacità intellettiva moderna, perché siamo 
              abituati a utilizzare il dominio come concetto politico elementare 
              e ad assimilare senza esitazione il fenomeno del dominio ai 
              fenomeni del governo, del potere e dell'autorità, e tale 
              assimilazione ha la sua lunga e vasta preistoria soprattutto nella 
              scienza sociale moderna, ma purtroppo è diventata apertamente 
              autorevole anzitutto grazie al grande Max Weber. E tuttavia qui la 
              Arendt non ha fatto altro che mettere a nudo i fenomeni e i 
              concetti che erano ovvi per Aristotele: li ha messi a nudo ma li 
              ha anche presi sul serio. Da qui il suo motto deciso, scioccante e 
              tuttavia perfettamente coerente e assolutamente aristotelico: "Il 
              dominio distrugge lo spazio politico, e il risultato è 
              l'annientamento della libertà per i dominatori e per i dominati". 
              Ho visto come il suo volto si illuminò quando, in un seminario a 
              Chicago, si discuteva di Erodoto e quando vennero pronunciate le 
              parole di quell'ateniese al quale viene proposto il dominio sui 
              barbari: "Non voglio dominare né essere dominato". La casa di 
              quest'uomo, scrive Erodoto, era l'unica casa di un uomo libero in 
              tutta la Persia. La differenza fra casa e stato come differenza 
              fra dominio e libertà è forse la più significativa, la più 
              efficace, che Aristotele abbia trovato, tanto che egli la espresse 
              subito nelle prime pagine della sua opera, in contrasto con il suo 
              maestro Platone. I cittadini del suo stato sono liberi e uguali - 
              uguali in quanto pari per nascita e per legge -, perché ognuno è 
              signore nell'ambito della sua casa (in greco: despótes), cioè 
              signore della famiglia compresi gli schiavi.
 
 La "società" moderna è divisa da quella antica dal profondo 
              divario scavato dalla scoperta, dalla dichiarazione e 
              dall'imposizione dei diritti umani. Su ciò anche Hannah Arendt non 
              nutre il minimo dubbio, anzi, nelle sue riflessioni e nei suoi 
              concetti sottolinea così nettamente questo fossato divisorio, che 
              a volte ci si chiede cosa sia ancora possibile sperare nel nostro 
              mondo e se la stessa "politica" non sia declinata e affondata 
              insieme alla polis. E tuttavia questa pensatrice, questa 
              scrittrice è totalmente aliena dal dolore e dalla rassegnazione 
              romantica; non la si sente mai lamentarsi. E ha scoperto, studiato 
              e descritto almeno un evento della storia più recente, nel quale 
              sembra ritornare l'idea originale della politica: la rivoluzione 
              americana, la fondazione rivoluzionaria dello stato, la fondazione 
              della costituzione dell'Unione o, con una parola che le diventò 
              così cara come lo fu per i"padri fondatori": la nascita della 
              "Repubblica". L'analisi di questo processo si trova nel punto 
              centrale del suo libro "Sulla rivoluzione", e la sua conclusione, 
              approssimativamente, è che, sebbene la Arendt si mostri 
              affascinata dal fenomeno moderno di tutte le rivoluzioni in quanto 
              tali, alla fine solo quella americana, fra tutte, ha il merito di 
              aver ripristinato o restaurato la "politica". "In nessun caso si è 
              ripetuto quello che si era messo in moto per la prima volta nella 
              rivoluzione americana. L'attività costituente non fu mai 
              considerata la più importante e la più significativa fra tutte le 
              azioni rivoluzionarie". Qui bisogna osservare che l'attività 
              "costituente" non consisteva semplicemente nella creazione del 
              diritto, ma nella fondazione dello stato, e come tale viene 
              abbracciata dall'autrice - che fu un filosofo, e non uno 
              storiografo - con tutto il pathos dell'inizio. Era come se, mentre 
              questa "Repubblica" veniva creata, il mondo "politico" (nel senso 
              autentico della parola) uscisse nuovamente dalle tenebre della 
              storia.
 
 All'"inizio" di un'azione, alla prima stretta di mano di un patto 
              (nel caso dei padri pellegrini), alla fondazione della città e 
              dello stato come comunità di uomini liberi, viene assegnato 
              costantemente nel pensiero politico di Hannah Arendt un segno 
              distintivo, tanto da ricondurre l'autorità politica per eccellenza 
              - al di là della ratifica e della legittimazione religiosa - 
              all'atto di fondazione politico e alla sua continua presenza. In 
              un certo senso, non cattivo, la Arendt guarda la storia con occhi 
              antistorici: durata, origine, vita e riforma non hanno grande 
              valore per lei, non comunque quanto il nuovo inizio, il principium 
              latino, l'archè greca. Per usare le parole del nostro maestro Karl 
              Jaspers, sono gli "istanti alti" che ella cerca di afferrare e 
              capire, però non quelli etici, come intendeva Jaspers, bensì 
              proprio quelli politici, quelli in cui compare l'elemento politico 
              come fenomeno originario, come categoria, come "esistenziale", per 
              quanto fugace. Di qui anche il suo interesse per la rivoluzione, 
              di cui beffardamente e non senza una superiore spensieratezza 
              voleva accettare "l'odore di carogna". Per quanto riguarda il 
              momento aristotelico o classicistico della fondazione 
              rivoluzionaria americana, ella qui può richiamarsi come minimo a 
              quel grande e schietto pubblicista della rivoluzione che fu Thomas 
              Paine, che coniò la sbalorditiva frase: "what Athens was in 
              miniature, America will be in magnitude". Intendeva la repubblica 
              dei liberi cittadini, ma pensava alla repubblica "rappresentativa" 
              - che credeva capace della ricostruzione della polis in uno spazio 
              vasto e con una numerosa popolazione -, e di cui tuttavia Hannah 
              Arendt, d'altra parte, non ne vuole molto sapere. Parteggiava 
              infatti per l'anziano Jefferson, che lamentava che ci si era 
              dimenticati di ancorare nella costituzione i comuni, le piccole 
              comunità autonome. Ed è questa dimenticanza, è il peso degli 
              organi centrali e la riduzione dell'"agire collettivo" ai membri 
              degli organi rappresentativi, la condanna di molti al ruolo di 
              semplice elettorato, che a lei appare come l'imperfezione 
              decisiva, l'errore increscioso, il triste esito della rivoluzione 
              americana, quasi un fallimento, ma solo quasi.
 
 Ella è stata in fondo, con tutte e nonostante tutte le esperienze 
              pubbliche eccitanti del suo periodo a New York e negli Usa, 
              un'americana "politica" convinta, un citizen con tutto il cuore. 
              (E' superfluo aggiungere quanto sia rimasta, allo stesso tempo, 
              una pensatrice e una scrittrice tedesca; lo sappiamo bene, così 
              come ella stessa sapeva e ammetteva). Pensando, il suo spirito si 
              muove nell'antica polis come il bambino fortunato della favola nei 
              vicoli della città sprofondata. Si orienta felice e sicura come in 
              un sogno, apre gli occhi con gioia e riconosce il mercato, 
              l'assemblea, anche l'accademia, ascolta le grandi parole, vede le 
              grandi azioni, respira l'aria della libertà. Fra le durature e 
              grandiose scoperte della Arendt dobbiamo includere la separazione 
              della libertà positiva - dell'avere parte e del prendere parte 
              attiva agli affari pubblici - dalle liberazioni sociali e dal loro 
              frutto, dalle libertà civili private protette dallo stato. Nessun 
              altro ha reso riconoscibile così nettamente questa limitazione 
              dello stato di diritto. Così ha iniziato ella stessa, nei 
              concetti, una constitutio libertatis. Ma non è stato necessario il 
              canto del gallo per riportarla dalla città sommersa sulla 
              superficie della terra e nel presente, che ella conosce 
              perfettamente e per diretta esperienza, compresa quella sulla sua 
              pelle. Soprattutto l'esperienza del male. Così dobbiamo alla fine 
              parlare del sistema di ideologia e terrore, del "totalitarismo", 
              che la Arendt in un estremo sforzo di volontà di conoscenza ha 
              indagato, sia quello nazionalsocialista che quello bolscevico. 
              "Queste due ideologie sono così diverse l'una dall'altra, così 
              grandiosamente piene della migliore tradizione occidentale del 
              materialismo dialettico, così miseramente volgari, benché si 
              basino su un vero elemento d'esperienza, il razzismo, che sfocia 
              in ogni caso in una legge dell'eliminazione del "dannoso" o del 
              superfluo a favore dello scorrere senza attrito di un movimento da 
              cui alla fine dovrebbe nascere un nuovo tipo di umanità, come la 
              fenice dalle proprie ceneri. Se la legge del movimento venisse 
              tradotta in diritto positivo, il suo ordine potrebbe essere 
              soltanto: devi uccidere!". Bisogna ammettere che questa 
              "dichiarazione" è ben difficilmente superabile e che sarà 
              difficile proseguire ulteriormente l'analisi razionale, per lo 
              meno finché si conserva immutato il ricordo del male 
              dell'incomparabile fenomeno. Proprio questo è stato il suo 
              contributo. Fu quello stesso coraggio intellettuale che subito 
              dopo la guerra la fece insorgere contro la tesi della "colpa 
              collettiva" tedesca e le fece trovare la formula liberatoria - che 
              non passa attraverso sentimentalismi morali, ma attraverso la 
              precisa conoscenza del meccanismo totalitario - della "colpa 
              organizzata".
 
 E fu di nuovo lo stesso coraggio intellettuale, che in seguito la 
              condusse in una situazione così dolorosa per gli altri ebrei in 
              Israele e in America, quando, da parte sua, non volle tacere e 
              sminuire quello che durante il processo Eichmann il tribunale di 
              Gerusalemme aveva cercato di risparmiare: la cooperazione dei 
              "consigli ebraici" con le autorità naziste nella persecuzione e 
              nello sterminio del popolo ebraico. Non dico che questo coraggio 
              sia l'ultimo criterio e l'unica giustificazione morale della 
              conoscenza nelle faccende umane; esso può essere mitigato o 
              cancellato con la prudenza - che è una virtù sociale - forse con 
              la misericordia. La Arendt, però, era troppo audace per essere 
              saggia. Il "dominio totale" era ed è nei fatti un prodotto 
              "moderno", che è situato al di là del politico, che vive e si 
              ingrassa del continuo e progressivo esaurimento di tutte le 
              libertà, sia attive che passive, pubbliche e private. Se il 
              dominio in quanto tale, anche quello immaginato del re filosofo 
              platonico, doveva essere eliminato dalla polis (intesa sia in 
              senso storico che in quello filosofico più ampio) in quanto 
              manifestazione antipolitica, perché tirannica o, meglio, 
              dispotica, allora il dominio totale deve scomparire completamente 
              da tutte le categorie tramandate delle forme di stato e dei tipi 
              di governo, anche da quelle della tirannide e del regime 
              assolutistico che Aristotele ha incluso fra i cattivi, anzi fra i 
              peggiori. La ricerca arendtiana ha fatto chiarezza su questo 
              punto. Non ha dedicato, invece, altrettanta attenzione all'altra 
              faccia degli stati contemporanei, ai cosiddetti prodotti 
              convenzionali dello stato costituzionale, le cosiddette 
              democrazie. Sembra misurarle espressamente o tacitamente sul suo 
              ideale della polis, vale a dire testando la quantità di 
              possibilità "politiche" dei cittadini, e in questo esse tutte 
              insieme non rispondono alle sue esigenze. Delle sue riserve nei 
              confronti del sistema rappresentativo si parlava già nel contesto 
              americano. Con la stessa cautela giudica il ruolo dei partiti, e 
              bisogna purtroppo notare che fra la dittatura dei partiti e 
              l'accordo tra più partiti concorrenti la Arendt ha colto 
              differenze eccessivamente sfumate e quasi solo casuali. È 
              certamente comprensibile che il nuovo fenomeno della dittatura dei 
              partiti, in quanto costituisce lo strumento del dominio totale, si 
              imponga su una volontà di conoscenza, sollecitata dal 
              raccapriccio, con maggiore forza del ben noto ma anche abusato 
              tema del pluralismo partitico; è comprensibile, ma rimane 
              insufficiente e anche sbagliato. (In questa sua descrizione fanno 
              eccezione i sistemi bipartitici dell'Inghilterra e degli Stati 
              Uniti, ma sono presi in considerazione solo con scarsa e tiepida 
              approvazione).
 
 La sua interessata simpatia si appunta con maggiore intensità ai 
              "consigli", Councils, Sociétés populaires, Soviets, a quelle 
              formazioni spontanee che - come la Arendt forse per prima ha 
              percepito - sono comparse in tutte le rivoluzioni da quella 
              francese fino a quella ungherese del 1956 (e avrebbe potuto 
              aggiungere anche i consigli di soldati dell'esercito di Cromwell 
              nella rivoluzione puritana del XVII secolo). In queste 
              manifestazioni effimere vedeva balenare ogni volta un presagio, 
              una possibilità della "politica" della polis, e dopo Jefferson 
              unicamente in esse e in modo palese mai più e in nessun altro 
              luogo. Si dovrebbe supporre un'inclinazione quasi ostinata per la 
              rarità storica, se non si avvertisse una appassionata serietà, che 
              la spinse poi ad abbozzare lo schema di una repubblica dei 
              consigli sviluppata: per così dire una sua utopia antiplatonica 
              dello stato. La partecipazione sarebbe del tutto volontaria, e 
              quindi limitata a quei cittadini che prendono parte alle vicende 
              pubbliche; di loro si suppone che non appartengano ad alcun 
              partito e che quindi agiscano secondo la propria convinzione: lo 
              stato consisterebbe dunque in una federazione, ma allo stesso 
              tempo anche in una scala di consigli, con un parlamento nazionale 
              in cima a questa piramide; ogni consiglio superiore sarebbe eletto 
              da quello più basso, il resto della cittadinanza, non essendo 
              personalmente attivo, non prenderebbe neanche parte alla nomina; 
              complessivamente si verrebbe così a formare una vera e propria 
              élite "politica" (la Arendt usa questa parola, anche se con 
              qualche esitazione, e parla addirittura di una "forma di stato 
              "aristocratica" nel vero e proprio senso della parola"). 
              Chiaramente non si è chiesta perché ogni volta i consigli siano 
              scomparsi con la stessa rapidità con cui erano nati. Nel caso 
              della rivoluzione russa di ottobre accusava il partito e il 
              sistema del partito di aver causato la loro repressione, ma questa 
              non è una spiegazione, la domanda rimane.
 
 Avrebbe potuto trovare la risposta - mutatis mutandis - in 
              Aristotele: egli già si arrovellava per trovare un modo non solo 
              per spingere i cittadini a partecipare all'assemblea e al 
              tribunale - questo ad Atene era stato in parte risolto con il 
              pagamento di un'indennità, i famosi tre oboli -, ma soprattutto 
              per trovare il modo di evitare nell'assemblea il rischio della 
              supremazia permanente di un partito, quello dei ricchi oppure 
              anche quello dei poveri, e dimostra che, nonostante tutte le 
              misure che aveva escogitato, non aveva molte speranze che ciò 
              potesse riuscire. E quanto più gravemente si porrebbe il problema 
              della disponibilità nella moderna società del lavoro! Non c'è 
              dubbio che anche qui si organizzerebbe e si imporrebbe una classe 
              dell'ozio, sia essa formata dai "ricchi" o dai "rivoluzionari di 
              professione", che Hannah Arendt ha descritto così brillantemente e 
              che abbiamo recentemente conosciuto in statu nascendi nei 
              dominatori e manipolatori delle "assemblee generali" degli 
              studenti (anche quelli erano consigli spontanei!). Anche le 
              attuali iniziative civiche offrono molteplici esempi 
              dell'inevitabile addestramento di gruppi più o meno ufficiali, 
              senza la cui superiore conoscenza e costante presenza tutto 
              dovrebbe per lo più disperdersi rapidamente. Durante la 
              rivoluzione non si lavora, ed è per questo che la gente ha tempo: 
              è un vero peccato che Hannah Arendt, con il suo divertente 
              bon-sens non abbia formulato ella stessa questa semplice risposta, 
              che le sarebbe riuscita in modo sicuramente molto più 
              scintillante. La domanda e la risposta appartengono a quella 
              "storia dell'inoperosità produttiva" che, lamentava, non era 
              ancora stata scritta. Qui si manifesta, però, anche una mancanza 
              più profonda. La polis originale non poteva assolutamente fare a 
              meno delle funzioni che, come si legge ancora una volta in 
              Aristotele, di regola erano monopolizzate dalle famiglie nobili 
              (e, secondo il filosofo, così doveva essere). Ma, per quanto 
              riesco a vedere, la Arendt non ha mai prestato attenzione a questo 
              aspetto della costituzione "politica", né durante i suoi itinerari 
              nella città sommersa né nelle sue ricerche sulla terra storica. E 
              il fatto che il fenomeno eternamente ricorrente del governo sia 
              stato per lei così poco urgente e addirittura così indifferente - 
              nonostante la sua dettagliata disamina del principio della 
              separazione dei poteri in relazione a Montesquieu e alla 
              costituzione americana -, mi sembra che derivi ancora una volta da 
              un'omissione, che deve dare nell'occhio al confronto con la sua 
              brillante descrizione fenomenologica dell'agire come forma più 
              elevata della vita activa; il fine insito in tutto l'agire 
              politico rimane raramente oscuro, perché tale fine è la decisione. 
              La discussione, il dibattito, la competizione delle parole, lo 
              scambio di opinioni da soli non fanno l'agire e non fanno il 
              "politico" (nel senso deciso che la Arendt ha trasmesso o 
              recuperato a questa parola), perciò va piuttosto pensata la 
              decisione che da tutto ciò deve risultare. E bisogna sapere in che 
              modo si raggiungono le decisioni e in quale luogo vengono in 
              ultima istanza, responsabilmente, prese.
 
 "Acting is fun" disse Hannah Arendt in un colloquio - e penso che 
              in queste parole riecheggino le esperienze che ha vissuto la 
              giovane, erudita letterata, quando, in esilio nelle organizzazioni 
              di soccorso in Francia e in America scoprì il suo talento 
              (decantato dagli altri) per l'agire. "Agire è bello"; questo è 
              sicuramente vero, ma decidere e assumersi la responsabilità della 
              decisione presa, non importa se di fronte a un'associazione, un 
              partito, un soviet, un parlamento o un'intera nazione, può essere 
              un'epoca davvero tormentosa della "vita attiva". Non dubito 
              neanche per un istante del fatto che la Arendt abbia avuto sia 
              stata intimamente legata anche a questa esperienza, ma essa non è 
              entrata a far parte della sua idea della politica, non forma in 
              essa alcun momento integrale. Anche l'occhio più acuto ha un punto 
              cieco. Alla fine, quella polis, quella città, in cui la Arendt ha 
              girovagato e da cui ha tratto la forza e lo splendore delle sue 
              idee, non è così completamente sommersa come credeva. Forse sarà 
              possibile ritrovarla in pieno giorno, nella metamorfosi storica.
 
 15 marzo 2002
 
 (da 
              Ideazione 4-2001, luglio-agosto. Traduzione dal tedesco di Renato 
              Cristin)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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