Realismo contro ideologie
di Paolo Terenzi
Chi è Hannah Arendt (1906-1975)? La risposta migliore ce la dà
l’autrice che, in Vita activa, scrive: “E’ molto improbabile che
noi, che possiamo definire l’essenza naturale di tutte le cose che
ci circondano, di tutto ciò che non siamo, possiamo mai essere in
grado di fare lo stesso per noi”. Alla Arendt, come ricorda lei
stessa in più occasioni, stanno strette le tradizionali
definizioni accademiche. Non si sente una filosofa, troppo
sospettosa e lontana è la filosofia dal mondo degli affari umani,
ma non è neanche, in senso proprio, una politologa o una
sociologa. Per la Arendt il vero scopo è comprendere chi siamo e
ciò che accade intorno a noi (come dichiarò in una intervista del
1964 a Günter Gaus). Comprendere significa provare una
soddisfazione simile a quella che si prova nel sentirsi a casa
propria. La scrittura stessa non è appena un modo di esprimere
qualcosa di già definito, di concluso, ma è parte essenziale
dell’evento stesso della comprensione. Per la Arendt, infatti,
scrivere vuol dire anche ricordare, ricordare quello che non
avremmo mai compreso se non lo avessimo scritto. Da questo punto
di vista, il suo lavoro si avvicina in qualche modo all’esperienza
del poeta (non è un caso che proprio le opere dei poeti siano
state per lei importanti muse). La Arendt è una pensatrice senza
barriere, accademiche o ideologiche, è molte cose insieme:
studiosa di politica, filosofa, giornalista, polemista, critica
letteraria (per una presentazione dell’itinerario della Arendt si
veda il profilo bio-bibliografico che segue). Scorrendo le note
delle sue opere, si incontrano Aristotele, Agostino, Kant,
Heidegger, Nietzsche, ma non è raro imbattersi anche in Kafka,
Rilke o Benjamin. E’ una donna di amori tormentati, si è sposata
due volte ed è stata giovane amante di Heidegger, e di fedeli
amicizie (come ad esempio quella con Jaspers), testimoniate anche
dai numerosi carteggi intrattenuti. Nei suoi scritti, numerosi e
poliedrici, è possibile rintracciare alcuni temi ricorrenti, come
la difesa della libertà, la critica delle ideologie totalitarie e
il ripensamento del concetto di “spazio pubblico”, sui quali vale
ora la pena soffermarsi.
Lettrice di Agostino e di Kant, per la Arendt la libertà è
l’espressione suprema dell’uomo. Essere liberi non significa,
prima di tutto, scegliere tra varie possibilità, ma poter dare
inizio a qualcosa di nuovo (e quante volte nella sua movimentata
vita di ebrea apolide la Arendt ha fatto l’esperienza di nuovi
inizi!). Già in uno scritto del 1946, “Che cos’è la filosofia
dell’esistenza?”, la libertà è vista come un fatto, misterioso e
irriducibile. Al pari della pluralità (non l’Uomo, ma gli uomini
abitano la terra), questo “fatto” ha sempre reso insofferenti i
filosofi, i politici e gli scienziati sociali (ma non i poeti).
Anche la libertà delle rivoluzioni, ripeterà più volte la Arendt,
è una libertà cercata ma quasi sempre tradita, come è successo in
Francia (sostiene la Arendt in pagine che ricordano Burke e
Tocqueville) o in Russia. Dove l’ostilità verso la libertà diventa
negazione pianificata e assoluta è però nel totalitarismo a cui la
Arendt dedica attente riflessioni. Ciò che la muove non è un
interesse puramente speculativo, ma il desiderio di riflettere, e
di comprendere una esperienza della quale si è trovata, suo
malgrado, testimone (la Arendt è stata costretta a scappare prima
della Germania e poi dall’Europa).
“Le origini del totalitarismo” esce nel 1951 e consacra l’autrice
nel novero dei grandi pensatori del Novecento. Il saggio, di cui
quest’anno ricorre il cinquantenario, costituisce una sorta di
punto di approdo di riflessioni svolte in precedenza (da Gurian,
Halévy, Neumann, Rauschning) e allo stesso tempo è anche un nuovo
punto di partenza per ulteriori studi. Alla sua uscita l’opera
cattura l’attenzione, a volte anche critica, di autorevoli
studiosi come Raymond Aron ed Eric Voegelin. Nelle settecento
pagine che compongono il volume, la Arendt cerca di comprendere il
fenomeno totalitario affrontando con spregiudicatezza la realtà
dei fatti. Con un profondo senso di umiltà, il contrario di quella
hybris perfettista che sta alla base di tutte le ideologie, la
studiosa ha il coraggio di porsi le domande cruciali: come è
potuto accadere ciò che è accaduto? Quali ne sono state le cause?
E’ possibile evitare il ripetersi di simili tragedie? Una delle
tesi più discusse del volume (del resto quasi tutte le opere della
Arendt alla loro uscita “accendono” gli animi dei critici)
consiste nell’accomunare il nazionalsocialismo e lo stalinismo, ma
non il fascismo italiano, sotto la medesima dizione di regimi
totalitari (una equiparazione di questo genere era stata
intrapresa, tra gli altri, anche da von Hayek, qualche anno prima,
in “La via della schiavitù”).
Il totalitarismo è il luogo di cristallizzazione delle
contraddizioni proprie della modernità, ma, allo stesso tempo,
esso segna anche la comparsa di un fenomeno radicalmente nuovo
nella storia. Non è possibile una equiparazione, o peggio ancora
una confusione, con regimi politici come dispotismo orientale,
dittature, tirannidi che nei secoli si sono susseguiti. Il
proprium del totalitarismo è costituito dall’uso sistematico del
terrore contro un “nemico oggettivo” (gli avversari della
rivoluzione, da una parte, gli ebrei dall’altra) e dallo sviluppo
di ideologie totalizzanti. Richiamandosi a leggi necessarie della
natura (la supremazia di una razza) o della storia (la lotta di
classe), il nazionalsocialismo e il comunismo pretendono di
conoscere i segreti della storia. Le ideologie alla base di questi
regimi finiscono così per includere forzatamente tutto ciò che
accade nelle strette maglie di un sistema (la critica della
“volontà di sistema” è un altro aspetto ricorrente nelle opere
della Arendt). Queste costruzioni, coerenti da un punto di vista
logico, anche se false da un punto di vista fattuale, finiscono
così per prescindere da ogni contatto con la realtà e con il
sapere del senso comune. Il vero scopo dell’ideologia totalitaria
non è tanto il riassetto rivoluzionario dell’ordinamento sociale
ma, ancora più radicalmente, la trasformazione della natura umana
che, così com’è, si oppone al processo totalitario (nei Gulag e
nei Lager si esprime “l’aspirazione all’onnipotenza” dei regimi).
Ciò che deve essere distrutto è l’uomo come soggetto di diritto e
come essere libero, l’uomo come capacità di dare inizio a qualcosa
di nuovo.
L’opera della Arendt mette in guardia anche dal possibile
riaffiorare di atteggiamenti totalitari nelle stesse democrazie
liberali, alla luce del principio secondo cui il diritto
corrisponde a quanto è bene e utile per il Tutto visto come
distinto e superiore alle sue parti (chissà cosa penserebbe oggi
la Arendt della enfasi con cui si fanno discorsi “sui costi
sociali” delle malattie incurabili o delle disabilità, sui
neo-malthusiani piani internazionali di controllo demografico, o
su un certo ecologismo radicale e antiumanistico). Il
totalitarismo è anche la distruzione sistematica di quello “spazio
pubblico” per l’agire e per il discorso a cui la Arendt dedica
pagine molto belle in Vita activa. Il termine “pubblico” indica in
primo luogo che l’esperienza del mondo non può essere qualcosa di
esclusivo ed intimistico. Ciò che appare, ciò che è visto e
sentito da altri come da noi stessi, costituisce la realtà, il suo
“essere pubblico”. Il common sense, il senso condiviso della
realtà, si fonda sull’esistenza di una sfera in cui le cose
possono apparire e l’azione libera e discorsiva può attuarsi.
Spazio pubblico è il mondo (inteso non come terra o natura, ma
soprattutto come sfera della cultura) in quanto è comune a tutti e
distinto dallo spazio che ognuno occupa privatamente. Vivere in
uno spazio comune comporta la condivisione di un mondo di cose, di
un infra, in cui entriamo quando nasciamo e da cui usciamo al
momento della nostra morte (lo sradicamento è caratterizzato
proprio dalla perdita di questo quid che ha il potere di riunire
gli uomini tra loro).
Dalla lettura delle opere della Arendt emerge l’immagine di una
autrice che richiama il nesso essenziale tra realismo e politica.
Ogni politica che voglia dirsi tale, deve infatti presupporre
alcuni elementi fondamentali. La crisi inferta alla tradizione
occidentale dal totalitarismo può essere sanata solo se si
recupera il legame tra verità e politica, non nel senso che la
politica debba stabilire la verità (niente di più lontano dalla
posizione della Arendt!), ma nel senso che la verità fattuale è il
limite che anche la politica deve accettare se non vuole
tramutarsi in ideologia o in deliberata menzogna. La Arendt,
studiosa di Agostino, sostiene un certo pessimismo antropologico
(che tuttavia non degenera mai in cinismo), e una diffidenza verso
la “buona” politica degli utopisti e degli ideologi. Allo stesso
tempo, però, l’autrice è ben cosciente del potenziale pericolo che
il potere stesso può rappresentare per quella capacità di dare
inizio a qualcosa di nuovo che è la libertà umana (da qui deriva
la rivendicazione della pluralità come tratto distintivo della
condizione umana).
Le opere della Arendt sono state quasi tutte tradotte in Italia
pochi anni dopo la loro uscita, anche se non hanno avuto, almeno
inizialmente, la eco meritata. Uno dei primi a mostrarsi sensibile
alla lezione della Arendt è stato Nicola Matteucci (non è un caso
che alcuni dei più autorevoli studiosi dell’autrice, come Carlo
Galli o Simona Forti, siano stati suoi allievi). Degni di nota
sono i contributi “pionieristici”, dei primi anni Ottanta, di
Sergio Belardinelli, Girolamo Cotroneo, Pier Paolo Portinaro,
Teresa Serra. La svolta nel panorama critico è però avvenuta a
partire dalla pubblicazione, nel 1987, degli atti di un convegno
sulla Arendt tenutosi ad Urbino. Da allora sono usciti contributi
ad opera di studiosi di diversa estrazione, come Laura Boella,
Marco Cangiotti, Alessandro Dal Lago (curatore di numerose
edizioni italiane dell’opera arendtiana), Roberto Esposito, Franco
Fistetti, Franco Volpi. All’estero, nomi prestigiosi come Raymond
Aron, François Furet, Jürgen Habermas, Hans Jonas, Olivier Mongin,
Paul Ricoeur, si sono confrontati con i testi della Arendt. Di
particolare interesse anche le interpretazioni di studiosi come
Beiner, Bernstein, Canovan, Finkielkraut, Eslin, Sternberger,
Taminiaux, Vollrath.
Anche alla luce anche del recente revival arendtiano, come si
profila l’attualità del pensiero dell’autrice di Vita activa?
Quali percorsi il suo pensiero può fornire a chi voglia
interpretare a fondo lo scenario della politica contemporanea? La
Arendt ha cercato di incamminarsi su un sentiero molto suggestivo,
e proprio per questo non privo di difficoltà, un sentiero ancora
poco battuto nel quale si incontrano il realismo politico, il
liberalismo e la riscoperta della dimensione “attiva” della vita
politica. Il frutto maturo di questo incontro è proprio la
riscoperta, la ricostituzione di quella dimensione essenzialmente
e propriamente politica, così cara alla Arendt, che il
totalitarismo (tutte le forme del totalitarismo, anche quello
“democratico”, economicista o tecnocratico) rende superflua. La
politica è un elemento essenziale della condizione umana poiché è
legata al fatto che l’uomo è intrinsecamente un essere ad un tempo
libero, comunitario e conflittuale, capace di linguaggio e di
azione, che condivide con altri un mondo comune. Lo spazio
politico non è solo lo spazio dell’utile o della statualità, ma è
soprattutto lo spazio artificiale (quindi umano) in cui si
incontrano (e si scontrano) le azioni pubbliche di uomini liberi,
capaci di dare inizio a qualcosa di imprevisto (che rompe la
routine della necessità, della naturalezza e dell’abitudine
“domestica”). La Arendt ci aiuta a rifiutare e a superare tanto il
massimalismo di una politica che finisce per autodissolversi
(ideologie totalitarie) quanto il minimalismo di una politica
vittima di utopie scientistiche o banalmente amministrativiste.
Ecco perché non possiamo non dirci arendtiani.
15 marzo 2002
(da
Ideazione 4-2001, luglio-agosto)
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