Qui New York. Nuvole di fumo
di Rod Dreher
Il telefono ha squillato nel mio appartamento poco prima delle nove questa mattina. Era mio padre dalla Louisiana. "Vai fuori e guarda, il World Trade Center sta bruciando". Ho portato il telefono fuori dalla porta d'ingresso, sul lungomare di Brooklyn, e ho visto la torre settentrionale fra le fiamme. Documenti d'ufficio svolazzavano giù nel porto di New York. Sono un reporter. Sono corso giù per prendere il taccuino e la penna. Poi, boom, e grida. Mi sono arrampicato al piano di sopra e sono uscito dalla porta d'ingresso. La seconda torre andava a fuoco. I lavoratori dell'ospedale in cima alla strada stavano immobili in preda a puro e semplice terrore.
"Un aereo, un aereo passeggeri, si è scontrato con la seconda torre", ha detto uno di loro. Ho salutato mia moglie e mi sono diretto al ponte di Brooklyn. Sapevo che la metropolitana sarebbe stata chiusa e che non ci sarebbe stato traffico in entrata. Il passaggio pedonale attraverso il ponte era l'unico modo per entrare nella downtown. Fin dove riuscivo ad arrivare con lo sguardo, vi era una grossa fila di persone che attraversava il ponte per uscire da Manhattan, per mettersi al sicuro. O così speravano: tutti sembravano sapere che gli incendi erano stati causati da aeroplani e quelli con cui ho parlato temevano che avrebbero attaccato il ponte.
Ho intervistato persone che avevano visto impiegati saltare giù dalle torri per andarsi ad ammazzare. Una donna, così sopraffatta dall'emozione da riuscire a malapena a parlare, aveva dovuto calpestare il corpo maciullato e insanguinato di una donna che si era lanciata dalla torre o era stata schizzata fuori dall'esplosione. Sono stato colpito da quanto tutti fossero calmi. Tesi, Dio solo sa, ma calmi e ordinati. Avevano tutte le ragioni per farsi prendere dal panico, ma non lo facevano. Alcuni newyorchesi aiutavano a trasportare altri che erano troppo scossi per mantenersi in piedi.
All'ultimo pilastro del ponte prima di scendere a Manhattan, mi sono fermato quando ho visto un collega del New York Post. Ho suggerito di organizzarci per andare giù insieme e coprire il disastro. Lei ha suggerito di aspettare, perché le torri sarebbero potute crollare. Ho pensato che si stava preoccupando troppo. "O mio Dio!" ha gridato qualcuno. Ho guardato in alto e la torre meridionale del massiccio edificio stava crollando giù fra le fiamme e il fumo. Quelli sul ponte hanno cominciato a lamentarsi e quelli che riuscivano a camminare hanno alzato il passo per non farsi raggiungere dall'enorme nuvola di cenere che avanzava a ondate verso di noi. Un caccia è passato sopra di noi.
Mia moglie sapeva che ero diretto a downtown e sapeva che avrei dovuto essere vicino alla torre che crollava. Nessun cellulare funzionava. Non sapeva se ero vivo o morto. Quando ho raggiunto la parte di Brooklyn del ponte, la nuvola di cenere ci aveva raggiunto e stava sulla folla come una tempesta di neve. Il cielo era grigio-nero e oscurava il crollo della seconda torre. Cenere grigia, pezzi del World Trade Center, volavano nell'aria, coprendo alberi, macchine, strade, tutto. Le strade di downtown Brooklyn erano paurosamente silenziose. I negozi erano chiusi. I pedoni erano così silenziosi che le radio delle automobili che passavano sembravano amplificate. Deve essere stato così quando è stata data la notizia di Pearl Harbor.
Nel mio quartiere abitano molti arabi, sia musulmani che cristiani. Ci abitavano anche quelli che otto anni fa hanno messo le bomba al World Trade Center. La maggior parte della bodegas arabe sulla strada erano chiuse. Intelligente in un giorno come questo. La comunità musulmana americana deve condannare immediatamente questo atto terroristico e deve aiutare l'Fbi a trovare e distruggere tutte le cellule terroristiche in questo paese. Sentiamo sempre dire che è sbagliato accusare tutti i musulmani di terrorismo. Se è vero, adesso vogliamo sentire i leader musulmani americani condannare questi atti orribili. E non vogliamo sentirli parlare in modo ambiguo e dare la colpa anche ad Israele.
Mi sono fermato all'ospedale del quartiere per donare il sangue e mi è stato detto che c'erano due ore di attesa. C'erano così tante persone comuni che vi erano andate volontariamente che avevano dovuto mandarne via alcune. Il mio cellulare finalmente ha squillato quando ero a mezzo isolato da casa. Mia moglie teneva terrorizzata la porta aperta per farmi entrare, mi ha abbracciato forte singhiozzando e tremando. Ero coperto di cenere ma ero a casa. Ero salvo. Ho guardato oltre verso downtown Manhattan. Il fumo si era in gran parte diradato. Le Twin Towers, che per anni avevo visto ogni giorno della mia vita, non c'erano più. Ed eravamo in un altro mondo.
14
settembre 2001
da National Review on line
(traduzione dall'inglese di Barbara Mennitti)
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